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 2011  luglio 06 Mercoledì calendario

JODICE

Mimmo Napoli 24 marzo 1934. Fotografo. Dal 1970 al 1996 insegnò all’Accademia di Belle Arti della sua città. Tra i suoi libri: Light (Damiani 2005), Città visibili (Charta 2006). «Una scomposta massa di ciechi, ecco cosa siamo. Se dovessimo dare una
definizione dello sguardo contemporaneo, descrivere l’attenzione verso quello che ci circonda, dovremmo concludere che la nostra è una società avvolta nel buio, dove il vedere, e quindi il capire, appare come un qualcosa
che non ci appartiene più» • «Uno dei grandi nomi della fotografia italiana. Gli inizi per lui, nato nel Rione
Sanità, non furono facili (“appena sposato avevo la camera oscura nella stanza da letto”): negli anni Sessanta la fotografia a Napoli, ma non solo, era considerata una
cenerentola (“però anche adesso c’è chi parla di artisti che usano la fotografia, quasi che questa non fosse di per
sé un’arte”). Lui era a contatto con i movimenti e le sperimentazioni di quegli anni, e
provava nelle sue foto a cercare qualcosa di nuovo “sia con le riprese, sia con la stampa, sia intervenendo a posteriori”» (Rocco Moliterni)
• «La sua è una fotografia che invita a riflettere, a pensare sulle condizioni della nostra
esistenza e creare così una vera “coscienza del vedere”. Immagini interiori, immagini della mente che nascono attraverso un processo di
pulitura, di sottrazione, di assoluto rigore. Jodice con le sue fotografie (mosse in fase di stampa e per questo con un
perpetuo movimento interno) ci accompagna dentro il suo sogno» (Gianluigi Colin)
• «La mia fotografia non ha niente a che vedere con il fissare l’attimo fuggente. Nel mio lavoro ci sono tre fasi: la progettazione che comporta
una lunga riflessione, la realizzazione che mi spinge a cercare diversi
itinerari e infine la stampa in cui vengono accentuati tutti quei simboli che
ho trovato» (a Lea Mattarella) • «“Se mi riconosco un merito non è tanto quello di aver fatto buone foto ma di avere contribuito allo sdoganamento
di una forma d’espressione che a lungo non è stata considerata vera arte. Mi sono formato in un’epoca interessantissima. Negli anni Sessanta tutti sperimentavano. E anch’io lo facevo. è così che ho imparato. Faccio ancora tutto da me, sa? Scatto, provo, stampo. Un vero
fotografo è anche un artigiano”. Lo dice mostrando la camera oscura. In quegli anni chi c’era a Napoli? “Attraverso un grande gallerista come Lucio Amelio ho conosciuto Warhol, De
Dominicis, Paolini. Ero impressionato da Beuys, dai suoi occhi così trasparenti. Una delle mie prime mostre, nel 1970, me la presentò Cesare Zavattini, irruente, entusiasta, gli piacevano un sacco i miei nudi. Una
cosa la capii subito: che non mi interessava andare in giro a cercare belle
foto. Anche adesso mi muovo sempre per progetti, per immagini in sequenza”. Mentre dice così la sua mente aziona il flashback su alcune serie strepitose. Ecco le
Vedute di Napoli (1980), il contatto fisico con le mura e i fantasmi della città, la sparizione della figura umana, che nelle foto di Jodice non tornerà più; Mediterraneo (1995), gran teatro della civiltà perduta, del sogno di una classicità impossibile: occhi e ombre di statue spettrali. E poi Eden (1998), quel frugare nei negozi poveri di Napoli, nei mercati, tra la “carne minima del mondo” avrebbe detto Federico García Lorca. “Già, un eden paradossale, capovolto, che svela la violenza del quotidiano, dei
falsi sentimenti, la crudeltà sugli esseri”. Perché sempre il bianco e nero? “Il colore è troppo descrittivo. E comunque in un’epoca dove c’è di tutto e di più io cerco di fare di niente e di meno. Dobbiamo recuperare una certa civiltà dello sguardo. Il mio compito è levare, semplificare. In fondo aspiro al vuoto”. Dice così e mostra le foto di
Isolario mediterraneo: spiaggia, mare, cielo, contemplazione assoluta come nel Giappone di Yasunari
Kawabata. “Ho selezionato le Città visibili in sintonia con il mondo culturale che ora mi accoglie”. Ecco la Roma del Ventennio, in fondo connaturata alla vocazione metafisica di
questo reporter del desertico, e la Mosca sovietica: fascino delle città totalitarie. Poi Tokyo, anche qui senza nessuno, e ti chiedi: come avrà fatto a svuotarla? Quindi Parigi e, naturalmente, New York, acrobatica nei
tagli e nelle vertigini. L’obiettivo di Jodice può girare il pianeta, perlustrare strade ma non incontra anima viva. Come per un
risucchio gigantesco, un’evacuazione generale, queste sono le città quando nessuno le guarda. Anzi, quando le guarda uno solo» (Marco Di Capua)
• Sposato con Angela Salomone, tre figli. [Lauretta Colonnelli]