Il Catalogo dei viventi 2009, 6 luglio 2011
GIUFFRÈ
Antonino Caccamo (Palermo) 21 luglio 1945. Pentito, a suo tempo mafioso, capo del
mandamento di Caccamo. Perito agrario, ex insegnante di educazione tecnica nei
corsi professionali dello IAL (ente di formazione finanziato dalla Regione).
Sposato con Rosalia Stanfa, due figli • Detto Nino Manuzza, “manina”, per una malformazione alla mano destra dovuta a un incidente di caccia
(secondo alcune fonti, invece, a causa di una poliomielite), ma da un certo
punto in avanti, anche truffa i ‘ddisa, «come il cespuglio di sterpaglie da cui in Sicilia si ricava un laccio sottile,
ma resistentissimo, utilizzato per legare la vite ai sostegni di legno e per
difenderla dal vento» (Lirio Abbate, Peter Gomez) • Viene combinato (“affiliato”) nel 1980, da Francesco Intile, allora capomandamento di Caccamo. Il suo
padrino Giovanni Stanfa. Inizia la carriera criminale portando da mangiare al
latitante Michele Greco, detto “il Papa” (morto il 13 febbraio 2008), che dopo essere stato arrestato lo raccomanda a
Totò Riina. Anno 1987, Manuzza viene convocato a una riunione della commissione (la “Cupola”) : «Sono entrato impaurito perché quando uno va in un posto dove ci sono altre persone non si sa se ritorna. Ma
io sono uscito capomandamento» (come reggente, essendo Intile detenuto). Finisce in carcere il 21 marzo 1992
per rimanerci fino al 9 gennaio 1993 (dunque è detenuto il 23 maggio e il 19 luglio 1992, quando vengono fatti scoppiare in
aria, prima il giudice Falcone, con la moglie, a Capaci, poi il giudice
Borsellino, in via D’Amelio, a Palermo, e le loro scorte). Colpito da ordinanza di custodia cautelare
nel 94 per associazione mafiosa e turbativa dei pubblici incanti, diventa
latitante. Nel 95, quando Intile si suicida in carcere impiccandosi, gli
succede a tutti gli effetti come capomandamento
• Da quando esce dal carcere, nel 93, diventa braccio destro di Bernardo
Provenzano («ero il suo principale collaboratore, e da lui avevo ricevuto incarico di
ristrutturare Cosa Nostra su vasta scala»). Abbandonato così Riina, si schiera nella fazione dei moderati di Cosa Nostra (cosiddetta fase di
“sommersione”, voluta da Provenzano). «Uno dei cambiamenti sostanziali che ho riscontrato in lui era la rinuncia a ogni
forma violenta e in particolare alle stragi. Da parte sua si comincia ad
affacciare una politica pacifista in contrapposizione a quella di Bagarella che
di pacifista non aveva un bel niente. Questa contrapposizione andrà avanti fino al momento dell’arresto di Bagarella prima e di Brusca poi [...]. Noi sostenevamo che una
politica stragista, una politica violenta, una politica appariscente e marcata
sulla violenza era controproducente, addirittura dannosa, se non deleteria, per
Cosa nostra»
• Incaricato da Bernardo Provenzano di formulare un nuovo cifrario alfanumerico
per comunicare, si mette al lavoro, ma alla fine la sua proposta viene
archiviata perché troppo semplice. Finisce che lo stesso Giuffrè non sempre capisce che cosa gli scrive zu’ Binu. Come quella volta (marzo 2002), che riceve un pizzino con su scritto di non ringraziare lui (per avergli rivelato la presenza di
telecamere dei carabinieri nel casolare di Vicari dove si tenevano alcune
riunioni mafiose, salvandolo così da un blitz dei carabinieri), bensì «Nostro Signore Gesù Cristo». Giuffrè non ha potuto ringraziarlo perché non ha mai capito a chi si riferisse Provenzano • «Io i biglietti li conservavo per un arco di tempo di due anni per ricordarmi di
tutte le raccomandazioni che avevo fatto, e poi per verificare che la consegna
dei soldi era avvenuta. Anche Provenzano faceva così. Ogni anno facevamo una verifica» • In costante comunicazione con Provenzano, Giuffrè si occupa in modo sistematico delle estorsioni: «Ovvero le tangenti pagate dalle imprese. Una volta che veniva effettuata la gara
ed appaltato il lavoro, l’impresa aggiudicatrice si faceva mettere a posto prima di andare a lavorare
nella zona, cioè si recava da una persona di sua conoscenza e la pregava… dietro le quinte c’eravamo noi [...] Così mettevo le imprese a posto, ovvero davo la garanzia alla famiglia competente
per la zona che l’impresa era a sua disposizione». Tassa stabilita, il due per cento. «E per le forniture di materiali e mezzi, se non ne aveva, l’impresa si metteva a disposizione per prenderle nella zona»
• Quella volta che, per avere estratto per precauzione l’autoradio dalla macchina (dopo aver parcheggiato per partecipare a una riunione
di mafia a Termini Imerese) si fece sfottere da Giovanni Brusca e Leoluca
Bagarella: «Bravo, ma è così che controlli la tua zona?» • Approfittando della piena fiducia che Provenzano ripone in lui, intanto riesce
a far nominare a capo dei vari mandamenti uomini di sua fiducia, in modo da
crearsi una rete di alleanze che un giorno gli avrebbe assicurato la
successione a Provenzano. Tutto fila liscio, fino a quando Giuffrè non promuove come candidato a capo di Agrigento un uomo diverso da quello
voluto da Provenzano, che lo viene a sapere e non la prende bene. La nomina
definitiva non è stata ancora decisa quando Giuffrè viene arrestato
• 16 aprile 2002. Sono passati otto anni dall’inizio della latitanza, da un anno e mezzo Giuffrè vive in una villetta di campagna del comune di Vicari, tra Palermo e Agrigento.
Il suo ufficio (dove fissa appuntamenti e smista pizzini) è un ovile sito in località Massariazza, tra Vicari e Roccapalumba. Quel giorno si fa venire a prendere all’alba per andare al lavoro (su una jeep, da Carmelo Umina, nipote di Salvatore
Umina, capomafia di Vicari). Non sono ancora le sette, Giuffrè non ha ancora sistemato le sue cose, che arrivano i carabinieri per arrestarlo.
Si saprà che prima una telefonata anonima, poi un’altra, per rettificare la data, avevano avvertito la Compagnia dei carabinieri
di Termini Imerese che proprio quel giorno Giuffrè si sarebbe recato lì a quell’ora. Nella seconda telefonata l’interlocutore ha pure offerto in cambio ai carabinieri informazioni utili alla
cattura di un altro latitante se i carabinieri lasceranno perdere il marsupio
che Giuffrè porta sempre con sé con dentro centinaia di pizzini (offerta rifiutata)
• Due mesi dopo, il pentimento. Davanti al procuratore di Palermo, Pietro Grasso.
Quando gli viene rivelato che l’arresto è stato preceduto dalla soffiata, Giuffrè la ricollega al fatto che Domenico Virga (capo del mandamento di San Mauro
Castelverde) gli aveva dato un appuntamento e poi gli aveva chiesto di
rinviarlo proprio a quel 16 aprile. Per poi commentare: «Si può dire tutto e il contrario di tutto, perciò preferisco non dire niente. Mi secca perdermi in chiacchiere». Da allora in poi, concluderà le sue rivelazioni più complesse ai magistrati così: «E questi sono fatti, scienza, non fantascienza»
• Esattamente si pente il 16 giugno 2002, il giorno della santificazione di Padre
Pio, a cui è devoto. In aula dirà che, oltre a questo, è stato spinto anche da altri motivi: «Tra gli altri c’è che ho tentato di salvare la vita a diverse persone. Perché finché io ero libero, con la mia influenza ho cercato il più possibile di salvaguardare le possibili vittime di fatti delittuosi. Ma dopo il
mio arresto ho capito che per queste persone stava arrivando la loro ora». Per la cronaca diventa il «nuovo Buscetta» (primo superpentito di mafia, morto di cancro nel 2000)
• Aiutando gli inquirenti a decriptare i pizzini di Provenzano, spiega la strategia dell’inabissamento di Cosa Nostra sotto di lui («bisognava rendere invisibile Cosa Nostra per avere il tempo di riorganizzarsi
con calma»), e gli uomini che l’hanno attuata, per primi Pino Lipari e Tommaso Cannella (vedi schede): «Lipari e Cannella hanno aiutato Provenzano a rifarsi la verginità, perché dalle stragi era uscito con le ossa rotte. E giustamente lui doveva rifarsi un’immagine. Così questo gruppo è passato come quello di coloro che erano contro le stragi. Ma non è affatto così. Perché Provenzano nelle questioni politiche, negli omicidi politici, è il numero primo. Però adesso Lipari doveva rifargli l’immagine. Per non farlo arrestare, innanzitutto. E poi, per una questione
economica». Conferma anche nomi già fatti da Tommaso Buscetta, come Vito Ciancimino (già sindaco democristiano di Palermo, appartenente alla corrente andreottiana,
morto il 19 novembre 2002): «Provenzano ha curato i rapporti con tutti i poteri. E Ciancimino, in
particolare, era colui che intratteneva i rapporti con tutti [...] è stato l’uomo che ha avuto un ruolo in assoluto più importante per Provenzano [...] Erano sempre in perfetta sintonia, si
incontravano e si sedevano a ragionare [...] Riina e Provenzano sono dei
latitanti e non è che abbiano un gran livello di istruzione. Avevano bisogno dei loro contatti.
Ecco perché Ciancimino, ma anche Pino Lipari e Tommaso Cannella: loro, assieme a tante
persone insospettabili, hanno aiutato la scalata al potere dei corleonesi»
• Sulla differenza tra Provenzano e Riina: «Provenzano ha una parte di Cosa Nostra che è un pochino cosa sua, una cosa sua riservata. Provenzano, insomma, viene
condizionato da Pino Lipari e da Masino Cannella, mentre Totò Riina è più malandrino e agisce spesso d’impulso, come faceva suo cognato Luchino Bagarella. E questo lo ha portato a
fare degli errori che ha pagato a caro prezzo» • Il 7 novembre 2002, anche lui, interrogato dal procuratore Grasso, fa il nome
di Andreotti: «Noi usavamo un nomignolo di un politico nostro influente di allora — parlando dei primi anni Ottanta —, ‘u Gobbo, e quando si parlava del Gobbo si parlava di Andreotti». Ma i politici sono «persone equivoche, viscide, che fanno il doppio gioco», e quando entrano nel mirino dei magistrati «si scantano» (“hanno paura”). Così Andreotti, che fece dei «passi indietro» (riferendosi alle sue iniziative legislative contro Cosa nostra): «Andreotti si è fatto la verginità a discapito nostro». Nell’87, quando Riina era ormai insoddisfatto della Dc, decise di «acchiappare il toro per le corna, come era abitudine sua, con una certa
irruenza, e decide di cambiare rotta». Cioè di passare ai socialisti, rivolgendosi innanzitutto a Craxi e Martelli
(segretario e vicesegretario del partito). «Solo che purtroppo la strategia non gli è riuscita». Secondo Giuffrè, Martelli diede delle garanzie, ma poi fu abbandonato «per un fatto ben preciso, che era un drogato». Riferendosi così alla storia di uno spinello trovato durante un viaggio collettivo in Kenya a
cui aveva partecipato Martelli, e quando il magistrato gli contesta che lo
spinello apparteneva a un’altra persona della comitiva, Giuffrè risponde: «Noi non ci credevamo... era tutta una messinscena per giustificare». Quando poi, da ministro della Giustizia, Martelli nominò Giovanni Falcone direttore del Dipartimento degli affari penali, entrò nel mirino di Cosa Nostra: «Doveva essere ucciso... In quel periodo si erano fatti discorsi su Martelli e De
Gennaro [...] Poi magari i discorsi non si sono fatti. Però ’
u signor Martelli penso che deve stare sempre attento [...] Anche Andreotti
doveva essere ucciso» • L’8 novembre racconta invece di quando Bernardo Provenzano agganciò i vertici di Forza Italia per presentare le sue richieste: «Provenzano era interessato alla revisione della legislazione antimafia: in
particolare alla revisione dell’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario, alla revisione dei processi, alla revisione della
legislazione sui collaboratori di giustizia, sul sequestro dei beni, e più in generale all’alleggerimento della pressione della magistratura». Nel gennaio 93, fu Provenzano in persona ad assicurargli che i nuovi referenti
politici nell’arco di dieci anni avrebbero fatto ottenere questi risultati. «Vi sono state due fasi. Quella dell’acquisizione delle “garanzie” e quella della ricerca dei referenti “giusti” sul territorio per le varie elezioni, candidati almeno apparentemente “puliti”, che non dovevano essere sotto inchiesta della magistratura, e quindi non
potevano avere alcun timore a portare avanti la politica che interessava a Cosa
nostra». Le garanzie politiche, secondo Giuffrè, furono date da Marcello Dell’Utri. In risposta al procuratore Grasso che gli chiede perché si rivolsero a Berlusconi: «Signor procuratore, Berlusconi era conosciuto come imprenditore e per le sue
emittenti. è una persona abbastanza capace di portare avanti un pochino le sorti dell’Italia». Su Vittorio Mangano, il presunto boss assunto come stalliere da Berlusconi ad
Arcore (morto di cancro il 23 luglio 2000): «Sin da allora sapevamo il discorso dello stalliere, sapevamo di Mangano che era
alle dipendenze di Berlusconi, insomma sapevamo già da tempo che c’era un certo contatto tra Cosa nostra e Berlusconi, grazie alla persona che
aveva direttamente in casa»
• «Forza Italia non l’abbiamo fatta salire noi, il popolo era stufo della Dc e allora ha trovato in
Forza Italia un’ancora a cui afferrarsi. E noi furbi, abbiamo cercato di prendere la palla al
balzo. Tutti Forza Italia» • Quando fu arrestato pendevano su di lui quattro condanne definitive per 13 anni
e 4 mesi di reclusione (per associazione mafiosa e reati collegati). Il resto è arrivato dopo. Assolto con la formula dubitativa dall’accusa di concorso nelle stragi di Capaci e via D’Amelio (in quanto detenuto al momento dei fatti), su impugnazione del pm nel
2003 la Cassazione ha annullato la sentenza rinviando gli atti per un nuovo
giudizio alla Corte d’Assise d’Appello, che nel 2006 lo ha condannato a venti anni di reclusione (sentenza
confermata in Cassazione il 18 settembre 2008). Nel 2004 è stato condannato in via definitiva a 15 anni di reclusione per concorso nell’omicidio dei fratelli Giuseppe e Salvatore Sceusa, strangolati nel 91. Al
processo, Giuffrè ebbe a dire: «Ho partecipato manualmente a quell’omicidio. Ogni omicidio è un errore, e io ne ho commessi anche altri... C’è quello che colpisce di più e quello che colpisce di meno. Questi due imprenditori non avevano chiesto la
dovuta autorizzazione e non avevano pagato la dovuta tangente per effettuare
dei lavori in una certa zona. Oggi non mi sembra un motivo valido per eliminare
due vite umane» (i giudici gli hanno concesso la circostanza attenuante prevista per i
collaboratori di giustizia, ma non le attenuanti generiche, vista l’estrema gravità dei fatti, la personalità dell’imputato e la tardività della confessione). Nel 2005 è stato condannato in via definitiva a 17 anni di reclusione per l’omicidio dei fratelli Salvatore e Giuseppe Savoca, e del figlio di quest’ultimo, Andrea (ammazzati nel 91, vedi MADONIA Salvatore), e a 15 anni di
reclusione per gli omicidi di Benedetto Bonanno, Antonino Bonanno e Isidoro Carlino, per soppressione di
cadavere e detenzione e porto di armi (in Palermo, ottobre-novembre 1991 e in
Misilmeri, 17 febbraio 1992)
• «Nel mondo ci sono vari poteri. Imprenditoriale, economico, politico [...] per
funzionare devono essere tutti collegati tra loro. Perché altrimenti il marchingegno non funziona. è l’unione che fa la pericolosità» (Antonino Giuffrè). [Paola Bellone]