Il Catalogo dei viventi 2009, 6 luglio 2011
GIUDICI
Giovanni Le Grazie di Portovenere (La Spezia) 26 giugno 1924. Poeta • «L’abilità metrica e il camaleontismo formale di Giudici non hanno eguali nella sua
generazione» (Alfonso Berardinelli). «Scrive poesie come se scrivesse un solo, unico, lungo romanzo. Il protagonista
del romanzo è Giudici stesso, nella parte di un uomo comune, che sta in disparte, spesso
ingenuo, a volte pauroso, a disagio, imbarazzato. A Giovanni Giudici non è stato dato tutto quello che è di Giudici. A differenza di tanti suoi colleghi (colti, eruditi, tecnicamente
preparati) Giudici ha un dono che a un certo punto della storia letteraria
recente è parso un vizio vergognoso. Giudici sa scrivere poesie musicali, sa cantare, ha
ritmo naturale, talento puro. Però di questo dono non ha mai abusato, a quel suo diletto ha sempre fatto
corrispondere un autocastigo. Come diceva Capote, quando Dio ti dà il dono di scrivere ti dà anche una frusta con la quale flagellarti. Questo fa di Giudici il poeta
italiano più moderno e antico allo stesso tempo. I suoi versi si ricordano come si ricordano
le parole delle canzoni» (Antonio D’Orrico)
• Perse molto presto la madre, Alberta Giuseppina Fortunato: «Avevo tre anni e cinque mesi. Non posso ricordare le reazioni immediate. Ho
memoria di un vestito a quadretti, del fatto che andava a scuola, faceva la
maestra, e io le chiedevo se mi portava un pezzetto di gesso perché pasticciavo su una piccola lavagna. Siccome insegnava, non stavo molto con lei.
L’ho percepita perché vedevo su di me sguardi compassionevoli: questo bambino senza la mamma... Ma
non ero diverso dagli altri bambini, facevo le cose che facevano i bambini
della mia età. Poi ho avuto una matrigna che è stata buonissima. Ho avvertito la sua assenza, quasi dovendomi vergognare di
non avere la mamma mentre tutti parlavano della loro. La maestra chiedeva: “Descrivete la vostra mamma”. E io che cazzo descrivevo? Non volevo nemmeno che si sapesse» (a Luigi Vaccari)
• «Io ho sempre lavorato: ho fatto il cronista di bianca, di nera, sono stato il più giovane capocronista di Roma. Di un giornale scassato, si intende. Ho lavorato
anche alla Questura di Roma, all’ufficio stampa e dal momento che non c’era poi tanto da fare, ne approfittai per scrivere la tesi di laurea. Sono stato
anche direttore di una rivista, “Mondo occidentale”, un po’ filo-atlantica, ma io cercavo di barcamenarmi in modo obiettivo. Poi quando c’è stato qualche funzionario d’ambasciata che voleva indicarmi con insistenza quello che dovevo fare, allora
sono andato a Ivrea. In Olivetti venni assunto da Adriano, che era uno che dava
a tutti del lei. Non mi aveva preso per fare l’intellettuale dell’azienda, ma per fare un giornale: “Comunità di fabbrica”. Avevo un bel legame con questi operai piemontesi, che mi sentivano come uno di
loro. Io in effetti sono un popolano che ha fatto l’università»
• «Si definisce un ligure diseducato a Roma, dove, dopo la “deportazione” in collegio, visse con la nuova famiglia paterna per altri ventitré anni, fino al 56, e poi redento a Milano. Ma nel quadrangolo
Liguria-Roma-Milano, poi di nuovo (e definitivamente) Liguria, c’è una sacca temporale trascorsa in Piemonte, lavorando a vario titolo per la
Olivetti. Era stato prima nella biblioteca dell’Azienda, a Ivrea, quella sorta di “moderna Atene periclèa”, così la definirà, irta d’intellettuali “adrianèi”, come venivano chiamati i seguaci del patron, l’ingegnere Adriano. Lui, che esordiva allora come poeta, avrebbe ricordato con
epigrammatica ironia le serate trascorse all’hotel Dora, il principale della cittadina, “dove s’affacciano a quest’ora/gli uomini di successo”, e il locale circolo del cinema, sulle cui poltrone “educatamente s’attedia/il pubblico di gente intelligente/più della media”. Vi incontra tanti nuovi amici, da Pampaloni a Fortini, da Ludovico Zorzi a
Paolo Volponi, ma non si riconosce del tutto nell’ideologia dominante in quella città-fabbrica. E più tardi, sentendosi catalogare come un “olivettiano”, obietterà di considerarsi soltanto “un intellettuale che lavora alla Olivetti”» (Nello Ajello)
• Sposato con Marina Bernardi, due figli • Nel 2000 Mondadori pubblica I versi della vita (Meridiani) che ne raccoglie l’intera opera poetica. Da ultimo ha pubblicato Vaga lingua strana (Garzanti, 2003) raccolta di poesie di grandi autori da lui tradotte, da
Tommaso d’Aquino a Milton, Coleridge, Dickinson, Pound, Eliot, Plath e altri.