Il Catalogo dei viventi 2009, 6 luglio 2011
ECHAURREN
Pablio Roma 22 gennaio 1951. Pittore. Figlio del surrealista cileno Sebastian Matta
(1911-2002) • Considerato dalla critica internazionale un artista in grado di esprimersi a
pari livello in numerosi campi creativi, dalla pittura alla scultura, dalla
grafica al fumetto, dal cinema alla letteratura. «Le tele sono di grandi dimensioni e grondano colori forti, incubi, immagini
inquietanti. Si avviluppano corpi nudi, galleggiano bocche spalancate, si
inseguono occhi sbarrati o cani che azzannano uomini. Mostri divorano mostri in
una vorticosa mescolanza di interferenze fumettistiche, ruvidezza punk, echi
dell’immaginario colombiano» (Liliana Madeo)
• «Mi hanno sempre ossessionato l’idea del riempimento e la bellezza del mostruoso. Penso all’horror vacui dei mostri aggrovigliati sulle cattedrali gotiche. Non stanno lì per spaventare, semmai servono a confondere il Maligno. Hai mai notato che
hanno tutti una tripla fila di denti? L’immaginario mostruoso non mira a spaventare te, ma le tue paure. È esorcismo» (a Pericle Guaglianone) • «Ha esordito a 18 anni sotto la guida di Gianfranco Baruchello e di Arturo
Schwarz, a 19 ha partecipato alla Biennale di Parigi entrando in contatto con
Louis Aragon e Max Ernst e ha attraversato il mondo delle immagini lasciando
tracce profonde sulla nuova creatività con i suoi Quadratini, firmando le copertine dei testi guida della controcultura dell’editore Savelli, primo tra tutti Porci con le ali, e poi con le esperienze di Lotta Continua, Il Male, i fumetti di Alter Alter,
Linus, Frigidaire, le ceramiche» (Paolo Biamonte). Da piccolo «resta ben presto solo con la madre, l’attrice siciliana Angela Faranda, ma riceve dal padre distante lettere fatte di
giochi di parole e disegni. La sua stanza di bambino È piena di cose d’arte, dai disegni dei gatti “mito-lirici” di Victor Brauner alle immagini di Disney, dal poster di Guernica che gli
sembra un fumetto alle nere forme di una stampa di Mirò che creano bizzarre analogie con le orecchie di Topolino. Come scrive Claudia
Salaris, si può far risalire a queste prime impressioni quella abilità metamorfica che indurrà Pablo a contaminare il linguaggio delle avanguardie, specialmente del
dada-surrealismo, con l’immaginario dei cartoon. Il ragazzo vorrebbe fare il naturalista e colleziona
francobolli, farfalle, coleotteri, fossili, ma poi, sotto la suggestione degli
autori della Beat Generation, si fa crescere i capelli, incomincia a
frequentare il Piper, impara a suonare il basso, prende parte a dei complessini
e, nei ritagli di tempo, studia un po’ per realizzare i primi “quadratini”, acquerelli e smalti di piccole dimensioni ma pieni di estro. Finito a mala
pena il liceo al Giulio Cesare, conosce Gianfranco Baruchello, il quale lo
presenta ad Arturo Schwarz, che gli compra i primi “quadratini” e gli firma un contratto. In seguito tende a distinguersi dal padre, dice che
non voleva fare il pittore ma il bassista, ripete che i suoi lavori nulla hanno
a che fare con quelli di Matta, ma Renato Barilli, osservando le grandi tele
che realizza dopo la morte del padre, scrive che padre e figlio non sono uniti
soltanto da un Dna biologico ma anche da qualcosa di equivalente a livello
stilistico. Sono i molti altri elementi che accomunano padre e figlio: la
tendenza al gioco, l’ironia, l’autoironia, la leggerezza» (Costanzo Costantini)
• «Elenca, fra i suoi percorsi, il lavoro con persone chiuse in carcere o in
manicomio, le scoperte che ha potuto fare a fianco di sommi artigiani, i quadri
dipinti con Emilio Tadini, il fumetto fatto con Francesco De Gregori, i libri
scritti a quattro mani (ad esempio con il terrorista nero Fioravanti), un film
girato con due soci e un dialogo settimanale di gastroribellione con Luigi
Veronelli su Carta» (Madeo) • «Ritrovarmi in un negozio di chitarre elettriche È il mio sogno più ricorrente. Immerso in quell’odore magico di corde, del legno dei manici e di vernici plastiche. Forse perché vivo con i Ramones sempre in sottofondo. Li ascolterei all’infinito» (a Guaglianone) • «Fin da piccolo sentivo il bisogno di graficizzare tutto, di disegnare qualunque
cosa vedessi. Così, una volta, mio padre, che visitava spesso il deserto nordamericano ed era un
appassionato della cultura pellerossa, ha disegnato per me e mio fratello un
indiano con tanto di piume, diadema, frecce. Quello strano tipo ci affascinò. Per molto tempo non abbiamo fatto altro che scarabocchiare ritratti di
capitribù e scenette western. Una produzione cartacea impressionante: mia madre prima ha
lottato contro quel mare di fogli, poi si È rassegnata. Ci dava pacchi di carta per il pane, quella giallina che costava
poco. Perlomeno limitava il danno economico” [...]» (Antonella Ottolina). [Lauretta Colonnelli]