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 2011  luglio 06 Mercoledì calendario

DONDERO

Mario Milano 6 maggio 1928. Fotografo. «Il colore distrae. Fotografare una guerra a colori mi pare immorale» • Fece dire a Gianni Berengo Gardin: «L’ho conosciuto, voglio imitarlo. Anche nei vestiti» • «Uno dei più bravi fotografi italiani del dopoguerra, uno dei fondatori del fotogiornalismo;
di più: è un maestro. Il suo modo di fotografare non assomiglia a quello di nessun altro.
Possiede uno sguardo unico, caldo e umano, colto e intelligente. Ogni suo
scatto è un momento di vita sensibile. Sia nel ritratto di Pasolini, insieme alla madre
nella sua casa borghese a Roma, sia nel reportage di guerra o nella foto in un
ospedale afgano di un uomo colpito da una mina, le immagini di Dondero
possiedono qualcosa di assoluto, di assolutamente relativo. Ha una faccia da
chansonnier francese, ricorda Yves Montand; la sua voce è pastosa e suadente. Quando inizia a raccontare, incanta: staresti delle
settimane ad ascoltarlo» (Marco Belpoliti)
• «Per i suoi ottant’anni gli amici gli hanno fatto un dono: hanno raccolto le foto degli scrittori
che ha fissato nel corso di più di mezzo secolo. C’è di tutto. Ma c’è anche l’immagine che ha fatto il giro del mondo da cui Alain Robbe-Grillet dice sia nato
ufficialmente il nouveau roman» (Antonio Gnoli) • «Stavo facendo, insieme a Giancarlo Marmori, un reportage per L’Illustrazione italiana. Era il 1959. Eravamo all’interno dei locali delle edizioni Minuit e c’erano diversi scrittori che discutevano. A me venne l’idea di portarli fuori e di fotografarli. C’erano, tra gli altri, Claude Simon, Alain Robbe-Grillet, Nathalie Sarraute, e
Samuel Beckett, del quale era nota l’allergia a farsi ritrarre o intervistare. Li feci sistemare in modo che non
sembrasse l’istantanea di una squadra di calcio e venne fuori questa foto di gruppo molto
particolare. Robbe-Grillet scrisse che quell’immagine era all’origine del nouveau roman, poi seguirono alcune tesi di laurea e io divenni, mio
malgrado, il fotografo che aveva immortalato la grande letteratura. Quella
immagine mi ha inseguito tutta la vita. Mentre la foto che scattai
clandestinamente a Panagulis, durante il processo in Grecia, non ha avuto
eguale fortuna»
• A 16 anni, dopo essere stato tra i partigiani nella brigata Cesare Battisti,
tornò a Milano per fare il giornalista: collaborazioni a all’Avanti! e all’Unità, poi entrò a Milano sera come cronista di nera. «Avevo capito che per fare quel mestiere bisognava saper fotografare. Allora sono
andato in una agenzia fotografica e ho provato a imparare i rudimenti. Filippo
Gaia me li ha insegnati, ma la mia università è stata al Jamaica. Giuseppe Trevisani, grafico che aveva lavorato con Vittorini,
al Politecnico, e che poi disegnerà la gabbia de il Manifesto, mi aveva proposto di entrare a Le Ore, una rivista
di fotogiornalismo. Questo fu il mio passaggio: raccontare con la macchina
fotografica e non più con le parole. Il primo servizio lo realizzai durante la rivolta al manicomio
criminale di Reggio Emilia. Grazie alla mia esperienza di nera riuscii a
introdurmi nell’edificio; avevo imparato a superare la mia timidezza»
• Ha collaborato con le principali testate giornalistiche italiane e straniere, da
Epoca a Le Monde, dall’Illustrazione italiana a Le Nouvel Observateur. Alla fine del 1954, per ragioni
sentimentali e famigliari, si trasferì a Parigi e ci rimase per trent’anni • «Ho sempre avuto un’enorme curiosità per la fotografia in bianco e nero della scuola francese. Life non è mai stata un mio modello, troppo levigata, troppo controllata. Mi interessava
la sobrietà feroce della fotografia europea, tedesca, spagnola, ma anche l’ironia dei fotografi africani, così pieni di poesia» • «Non è che a me le persone interessano per fotografarle, mi interessano perché esistono» • «La semplicità è il risultato di un percorso, più che un inizio». [Lauretta Colonnelli]