Il Catalogo dei viventi 2009, 6 luglio 2011
DEL PEZZO
Lucio Napoli 13 dicembre 1933. Pittore. Scultore • «Prima di dedicarsi alla neometafisica, è stato un artista pop significativo» (Corriere della Sera) • «Devo sfatare una leggenda: io e altri artisti della mia generazione (Adami,
Tadini, Pozzati, Festa, Schifano, Volpini) non siamo stati influenzati dalla
Pop Art americana, con la quale, come europei, avevamo poco da spartire.
Piuttosto, abbiamo sempre formato una variante, in qualche caso anticipatoria,
casomai più vicina agli approcci degli artisti inglesi che già da qualche anno prima (1954-58) conducevano un’originale rilettura dei segni urbani e pubblicitari, con particolare riferimento
a Paolozzi e a Tilson. Per quanto mi riguarda, la svolta del mio lavoro si
svolgeva in quegli anni, 1958 circa, su un versante vicino alla cultura
americana, non certo a Rauschenberg, Johns, Oldenburg, ma, piuttosto, invece, a
una matrice letteraria (apprezzavo il realismo di Dos Passos e di Faulkner,
mentre snobbavo il pastiche sentimentale di Moravia) e musicale (jazz). In
pittura, il faro era Ben Shahn, con implicazioni di fotografia documentaria.
Comunque, per me e per qualche mio compagno d’avanguardia, il vero motore della svolta fu Enrico Baj. In una sua memorabile
visita a Napoli, durante una passeggiata sul Vesuvio in cui firmammo anche un
manifesto pseudo-nucleare, mi rimproverò di non prendere in considerazione abbastanza la nostra realtà culturale partenopea. Io avevo guardato al barocco, ai quadri monumentali di
frutta e verdura e di pesci del Seicento: quadri intrisi di colore, di materia,
coi cavolfiori ricoperti di goccioline d’acqua e i banchi delle pescherie gremiti di polipi e di cefali ancora guizzanti
e con l’occhio lucido. Era questo il panorama che ci affascinava. Mettevamo sulla tela
gomitoli di colature di smalti lucidi e grumi di materia grondante, ignari di
Fautrier e Tápies. Allora ecco la folgorazione: basta riferimenti barocchi e sprazzi materici
gratuiti. Le nostre icone popolari stavano lì, sotto i nostri occhi: nelle chiese e per strada, nelle edicole di devozione
popolare; negli stracci, nelle bandiere della miseria che allietavano i vicoli.
Quindi mi dedicai a queste panoplie di ex-voto, immerse nel magma della vita
quotidiana. I modelli li avevo già lì, sotto gli occhi, non restava che trasferirli sulla tela. Poi l’arrivo a Milano e la constatazione che, venendo da un cultura diversa, tutti gli
altri erano più europei, più internazionali. Quegli anni furono proficui, soprattutto elaborando la
tradizione napoletana e guardando, contemporaneamente, a quello che l’attualità proponeva: Burri, Manzoni, Fontana. Credo, allora, che il mio contributo
popolare fossero gli ex-voto veri inseriti nei quadri, popolati da una materia
impregnata di rottami barocchi e frammenti di realtà vissute: niente enfasi per il consumismo, Coca-Cola o Volkswagen e più attenzione alla cultura popolare. A Milano, io avevo fatto subito capo ad
Arturo Schwarz, fine intenditore, sensibile alle avanguardie, che esponeva
Duchamp, Spoerri, Cornell, César, artisti di riferimento e di sostegno alle mie ricerche. Milano mi andava
stretta, mi sembrava provinciale; si parlava di New York, di Londra, di Parigi.
In seguito prevalse la voglia di guardare meglio alla culla delle avanguardie
storiche europee, al Surrealismo: Man Ray, Max Ernst, Giacometti. Poi, una
fortunata combinazione: a Parigi si liberava uno spazio bellissimo. Così mi trasferii nella Ville Lumière per ben 15 anni. Nel 64, alla Biennale di Venezia, esplose la Pop Art, ma io
ero già andato a Parigi per fare un bagno di cultura europea ed ero passato a un’altra ricerca, questa volta per vedere meglio le radici delle avanguardie
italiane, Futurismo e Metafisica: una ricerca più attenta alla magia della pittura e che cercava di differenziarsi dando un
impulso decisivo alla caratterizzazione di un filone tutto nostro. A Parigi,
dopo il 1963, ho fatto la riscoperta delle mie radici, peraltro filtrate
attraverso la cultura parigina che mi ha dato molto in esperienza e
riconoscimenti. In quegli anni, artisti come Duchamp o Man Ray erano vivi e
operanti, e determinavano gran parte delle ricerche dei giovani della mia
generazione. Ricordo, in proposito, un episodio divertente. Ero in ottimi
rapporti con Ileana Sonnabend, che allora era la testa di ponte dell’arte americana a Parigi. La gallerista e mercante presentava Rauschenberg,
Warhol e Dine a un pubblico ancora timido. Con Baj facemmo, nel mio studio, una
mostra dedicata alla Gioconda, in omaggio a Duchamp. Venne anche il maestro e
rimase stupito quando vide che oltre trenta artisti si erano presentati con
altrettante Gioconda, più o meno contraffatte. Vennero anche la Sonnabend e Warhol con i Velvet
Underground e tutta la sua corte dei miracoli. Questa era la Pop art. La mia
non aveva nulla di americano, ma era autenticamente popolare»
• Dal 1979 vive e lavora a Milano. Nel 2000 tornò a Napoli per realizzare alcuni rilievi in ceramica e in bronzo per la
metropolitana, riprendendo gli oggetti evocati dalla pittura metafisica di De
Chirico, Morandi, Carrà (birilli, squadre, busti o teste di manichini, uova, bersagli) creando pezzi
tridimensionali in legno e di colori brillanti e uniformi, di citazione pop.
[Lauretta Colonnelli]