Il Catalogo dei viventi 2009, 6 luglio 2011
CONDELLO
Pasquale Archi (Reggio Calabria) 24 settembre 1950. ‘Ndranghetista, capo-bastone dell’omonima cosca, al vertice del raggruppamento delle cosche Imerti, Buda,
Serraino, Rosmini, Fontana, Saraceno, Araniti • Inserito nell’elenco dei trenta latitanti più pericolosi ricercati dalla Direzione centrale della polizia criminale
(latitante dal 28 novembre 1990), fu arrestato il 18 marzo 2008 • Detto il Supremo (per la cronaca “Il Provenzano della ’ndrangheta”) • Totale delle pene inflitte a suo carico, tra condanne per associazione mafiosa
e reati collegati (omicidi, estorsioni e altro): 4 ergastoli e 20 anni di
reclusione. Tra i delitti eccellenti che gli furono addebitati: concorso nell’omicidio di Paolo De Stefano, commesso il 13 ottobre 1985 (ergastolo); concorso
nell’omicidio di Lodovico Ligato, commesso in Bacale di Pellaro, frazione di Reggio
Calabria, il 27 agosto 1989 (ergastolo, sentenza definitiva il 27 novembre
1998); concorso nell’omicidio di Pasquale Libri, in Reggio Calabria, il 18 settembre 1988 (30 anni di
reclusione), nel tentato omicidio di Domenico Libri, in Reggio Calabria il 17
marzo 1989 (13 anni e 4 mesi di reclusione) (condanne definitive il 26 giugno
2002). Fu condannato per associazione mafiosa, nel ruolo di capo, l’8 giugno 1994 (a 12 anni di reclusione) e il 3 aprile 2001 (a 8 anni di
reclusione) (sentenze confermate dalla Cassazione). L’ultima condanna all’ergastolo, per omicidi vari, diventò definitiva il 15 giugno 2005 (il Condello si vide rigettare anche il
riconoscimento dell’istituto della continuazione tra i vari delitti, chiesto al fine di beneficiare
dell’esclusione dall’isolamento diurno, perché, come osservò la Corte, i giudici di merito, errando, si erano dimenticati di
infliggerglielo, quindi l’imputato non aveva nessun interesse a chiederlo)
• Fece carriera come braccio destro del boss Paolo De Stefano fino al 1985.
Secondo le dichiarazioni del pentito Giacomo Lauro fu lui a uccidere, su
mandato di De Stefano, Antonio Macrì, «il capo dei capi» della ’ndrangheta (definizione di Lauro), il vecchio padrino che si opponeva al
rinnovamento della ’ndrangheta, voluto invece da don Mommo Piromalli, boss di Gioia Tauro (il 20
gennaio 1975, all’uscita della vittima da un circolo di bocce). L’omicidio rientra nella prima guerra di mafia, che si concluse con il
consolidamento del potere dei De Stefano: «La supremazia che il gruppo De Stefano aveva acquisito dopo la prima guerra di
mafia aveva ingenerato in tutti gli alleati il timore di essere sopraffatti» (Ferdinando Guarino, funzionario di polizia di Reggio). Pasquale Condello
allora si mise in proprio e si alleò con la famiglia Imerti. Era il 1985, scoppiava la seconda guerra di mafia
(omicidi nel biennio 1985-86, a Reggio e provincia: 314, in media uno ogni due
giorni)
• «Centinaia e centinaia di morti si contavano ogni anno, con cadenza anche
quotidiana; il centro, la periferia, ogni sito della città era possibile teatro, in ogni momento del giorno o della notte, di quel tragico
gioco al massacro. Il tutto con un’ostentata sicumera e, talora, anche con una spettacolarità di esecuzione da far impallidire il ricordo della Chicago anni Trenta» (richiesta per l’applicazione di misure cautelari, procedimento penale n. 104/95 r.g.n.r. a
carico di Rosmini Bruno ed altri)
• Condello, che istituì il suo quartier generale nella zona di Archi, prima regno incontrastato dei De
Stefano, per sottrarsi agli agguati della cosca nemica si chiuse in un bunker,
protetto dai suoi uomini più fidati. Non riuscendo a uccidere lui, i De Stefano provarono a uccidere Antonio
Imerti, detto “Nano feroce”, che per miracolo sopravvisse all’esplosione di un’autobomba (11 ottobre 1985, Villa San Giovanni, morirono le sue due guardie del
corpo). Due giorni dopo la vendetta di Condello, con l’assassinio di Paolo De Stefano. Il 13 gennaio 1986 toccò al fratello di Condello, Domenico Francesco, e il 22 marzo seguente, a Pasquale
Modafferi, già consigliere personale di Paolo De Stefano, passato, dopo la morte di questi, al
clan Condello-Imerti (gli spararono mentre stava seduto a guardare la
televisione, s’erano fatti aprire la porta dalla moglie con la scusa che dovevano consegnare un
capretto vivo, dono di Pasqua). Il pentito Lauro, “consigliori” dei Condello: «L’eliminazione di Pasquale Modafferi fu un duro colpo per la nostra
organizzazione, dal momento che era lui in persona a mantenere i rapporti con
gli uomini politici a noi vicini ed in particolare a Piero Battaglia». Piero Battaglia, democristiano, due volte sindaco di Reggio, a metà degli anni Sessanta e nell’89 (Mario Guarino).
Omicidio di Pasquale Libri Alleato dei De Stefano, fu ucciso alle 9,30 del 18 settembre 1988, all’interno della Casa Circondariale di Reggio, mentre stava scendendo i gradini del
cortile della sezione “Cellulare” (destinata ai detenuti dell’area destefaniana, mentre quella “Camerotti” era destinata ai detenuti dell’area contrapposta), da un unico colpo d’arma da fuoco che lo colpì in pieno viso, all’altezza della narice sinistra, esploso a mezzo di fucile di precisione da killer
appostati sul terrazzo di uno stabile in costruzione, di fronte al cortile.
Esecutore materiale Lombardo Giuseppe (reo confesso). Il Condello fu condannato
per concorso nell’omicidio a 30 anni di carcere (secondo la sentenza avrebbe indirizzato la mira
del Lombardo con un cannocchiale).
Tentato omicidio di Domenico Libri Alleato dei De Stefano, entrò nel mirino dei nemici alle 8,45 del 17 marzo 1989 davanti al portone principale
della Corte di Assise di Reggio, dov’era stato tradotto in ambulanza, dal carcere, per un processo in cui era
imputato. Si abbassò appena in tempo per non essere centrato dal colpo esploso da una carabina a 120
metri di distanza, per mano di qualcuno nascosto dietro il cassone telonato di
un autocarro (stessa arma usata per uccidere il fratello Pasquale). Dell’omicidio si autoaccusò Giuseppe Lombardo, che a sua volta chiamò in correità il Condello, spiegando che «la guerra di mafia si era scatenata perché dopo l’uccisione di Paolo De Stefano e di Francesco Condello, Pasquale Condello aveva
incontrato Domenico Libri all’interno delle carceri di RC, dove entrambi erano detenuti, ed aveva manifestato
a costui la sua intenzione di “tamponare la situazione per evitare il peggio” e che il Libri aveva, invece, riferito ai Tegano, per farseli alleati, tutt’altra cosa, e che, quindi, il Condello voleva vendicare il fratello uccidendoli
tutti» (Cass. 26 giugno 2002, che inflisse al Condello la pena di 13 anni e 4 mesi di
reclusione).
Omicidio di Lodovico Ligato. La decisione di eliminarlo fu presa in una riunione nel cimitero di Catona («Dove c’è seppellita mia nonna», come dichiarò il pentito Giuseppe Lombardo, esecutore materiale del delitto). Fu ucciso la
sera del 27 agosto 1989, nella sua villa di Bocale di Pollaro, frazione di
Reggio Calabria, dove si trovava in vacanza. Era appena uscito dal cancello per
accompagnare due ospiti alla loro autovettura, quando fu aggredito da due
killer, che lo ammazzarono con 35 colpi di pistola. «Chi ha ordito il delitto», dicono i pm nella richiesta di misura cautelare «aveva necessità in quel particolare momento di un fatto clamoroso e dirompente, che, nella
simbologia mafiosa, fosse espressione di forza e, al tempo stesso, fosse capace
di recidere significativi legami degli avversari. Aveva bisogno di un fatto
nuovo che, segnando un salto di qualità, fosse tale da condizionare definitivamente, se non di decidere subito, le
sorti del conflitto. Era giunto il momento di accedere a quel livello
politico-istituzionale al quale, prima di allora, nessuno aveva mai osato in
provincia. Ma perché proprio l’ex Presidente delle Ferrovie dello Stato, l’uomo tanto potente che l’intera Reggio-politica aveva ammirato, rispettato e temuto?». Lodovico Ligato era stato eletto deputato nel 79 e nell’83 in quota Dc. Membro della commissione Trasporti e relatore della legge di
riforma delle Ferrovie, nell’85 era stato nominato presidente delle FS, ma nell’88 si era trovato coinvolto nello scandalo detto delle «lenzuola d’oro» (dal tipo di forniture assicurate all’imprenditore avellinese Antonio Stibia), e nella storia di una tangente di 100
milioni in contanti (confezionata in sacchetti da farmacia), consegnata,
secondo le accuse, da Bruno De Mico, titolare della società milanese Codemi. Lasciata la presidenza delle Fs, Ligato era rientrato in
Calabria, dove contava ancora molti seguaci e si era dato da fare costituendo
numerose società intestate a parenti stretti. è risultanza processuale che il Ligato fosse solidale rispetto agli interessi del
gruppo destefaniano (dal quale aveva ricevuto appoggio nel successo elettorale
del 79, ricambiato con il sostegno al successo elettorale - alle consultazioni
amministrative del 1980 — dell’avvocato. Giorgio De Stefano, cugino di Paolo De Stefano). Nel frattempo l’emanazione del cosiddetto decreto Reggio (che prevedeva la realizzazione di
grandi opere nella città) aveva destato il timore degli antidestefaniani di essere pregiudicati nella
spartizione degli illeciti profitti prospettati. Da qui la decisione del
delitto, per cui il Condello, in concorso con i capi alleati, fu condannato all’ergastolo
• Nell’agosto 1991 l’avvocato Giorgio De Stefano (il cugino di Paolo De Stefano eletto nelle
consultazioni amministrative del 1980, in quota Dc) e Pasquale Condello
siglarono la pace. «Più che una pace fu un patto di non belligeranza: la guerra si concluse senza
vincitori né vinti, ma con la volontà unanime di mettere da parte le armi per concentrarsi sui grandi traffici di
droga» (Nicola Gratteri, Antonio Nicaso). Secondo il pentito Gaetano Costa, la ’ndrangheta cambiò anche nome, diventando “Cosa Nuova” (sull’esempio di Cosa Nostra)
• Con la pace di Reggio Calabria il territorio di Reggio fu suddiviso in tredici
comprensori (ognuno assegnato a una diversa famiglia coinvolta nei due
schieramenti), con la creazione di tre grandi zone, Nord, Centro e Sud (la zona
Nord presidiata dal raggruppamento Condello-Saraceno-Imerti). I capi delle
famiglie si strutturarono in un organo di vertice che valse a superare la
storica mancanza di direzione unitaria. Secondo le risultanze di alcune
intercettazioni questo organo si chiama “Provincia”, non è un permanente (a differenza della commissione di Cosa Nostra), e interviene
nella soluzione delle questioni più delicate, vincolando le singole ‘ndrine, che per il resto sono autonome
• «Alla nuova camera di controllo spetterebbe il compito di rappresentare l’intera organizzazione di fronte ad altri consorzi criminali e mantenere contatti
con le logge massoniche, i politici collusi e istituzioni deviate, al fine di
massimizzare i profitti della ‘ndrangheta nella sfera politica ed economica». Nel processo “Condello + 202”, andarono tutti assolti dall’accusa di far parte di Cosa Nuova, perché i giudici, pur ammettendone l’esistenza, dissero che l’organo centrale non aveva nessuna incidenza sugli affari delle singole ‘ndrine (Cass. 10 aprile 2002)
• Secondo gli ultimi rapporti del ROS (precedenti alla sua cattura), dopo la pax
mafiosa del 1991, Condello continuò la sua opera di mediazione garantendo ai Tegano la propria neutralità nel contrasto col fronte destefaniano, che a sua volta, consolidando l’alleanza coi Latella, Labate e Libri, cercava nel frattempo di contrastare il
suo potere crescente in tutta la Regione: «[La sua opera criminale] si è manifestata in maniera sempre più qualificata, distinguendosi non solo per le oggettive capacità di mediazione e pacificazione… ma anche per la sua comprovata attitudine a penetrare il tessuto economico
reggino, non solo in fase predatoria (estorsione, usura e rapine), ma
addirittura attraverso forme di compartecipazione e di diretta ingerenza
(appalti pubblici) mediante espressioni imprenditoriali di propria e diretta
emanazione, come le società “Sor. Nova.” di Ionetti Alfredo ed “Edil Primavera” di Alampi Matteo, individuati in maniera oggettiva dal R.O.S.»
• Fu arrestato la sera del 18 marzo 2008, in un appartamento nel rione Pellaro in
via Torrente Filici. Vano il tentativo di sottrarsi al blitz nascondendosi al
secondo piano dello stabile. Raggiunto dai militari svelò lui stesso dove deteneva la pistola. Capelli e baffi grigi, giubbotto nero e
pantaloni griffati, abitava in un alloggio confortevole, non di lusso. Due
bottiglie di champagne francese sul tavolo, negli armadi solo abiti firmati.
Sotto sequestro finirono numerosi pizzini usati per comunicare con gli
affiliati, dello stesso genere di quelli intercettati durante le indagini. «Bernardo Provenzano in confronto era un dilettante», il commento di un investigatore. «Non c’entro niente con queste inchieste, con la guerra di mafia e con le nove
ordinanze che avete emesso nei miei confronti», le sue parole. Insieme con lui furono trovati il nipote, Giandomenico
Condello, di anni 28, e il genero, Giovanni Barillà di 30, anche loro arrestati, così come il proprietario dell’appartamento, Antonino Chillà, cugino di Salvatore Pellegrino, ucciso in un agguato il 5 luglio 2007 a Gioia
Tauro (quest’ultimo detto “l’Uomo mitra”, perché si era presentato al funerale di una vittima della faida con la famiglia nemica
dei Gioffré, armato di mitra, facendo scappare tutti i partecipanti). Era uscito dal
carcere l’ultima volta nel 1988, pagando una cauzione di 100 milioni
• Dopo l’arresto i pm Salvatore Boemi, Giuseppe Lombardo e Domenico Galletta chiesero di
escludere sua moglie, Maria Morabito, dall’esercizio della patria potestà sulla figlia di 16 anni, usata per fare arrivare alcuni pizzini nel rifugio del
padre. Lombardo: «Ai figli dei latitanti viene perfino insegnato a non chiamare papà il loro genitore. Devono abituarsi a usare nomi diversi perché i grandi insegnano loro che potrebbero essere intercettati e portare gli
inquirenti a scoprire il nascondiglio dei latitanti» (Paola Ciccioli).