Il Catalogo dei viventi 2009, 6 luglio 2011
CLEMENTE
Francesco Napoli 23 marzo 1952. Artista. «Dipinge principalmente autoritratti, piacendosi molto» (Francesco Bonami). Fa parte del gruppo della Transavanguardia • «Ama sperimentare tecniche e materiali sempre differenti - miniatura, affresco,
pastello, mosaico, monotipo, litografia - e indagare ogni genere di tradizione» (Lea Mattarella) • «Nelle sue opere iniziali, dai grandi spazi bianchi non dipinti e dalle immagini
piccole, mette in scena quasi sempre se stesso. Le fattezze dell’artista, sotto forma di autoritratto o adombrate in quasi tutti i personaggi
dipinti, si ritrovano anche nelle opere successive» (I secoli dell’arte Electa) • «Se oggi è il loft di Broadway a parlare di Clemente attraverso i suoi quadri e i disegni,
trent’anni fa era la casa in via Calabritto a Napoli a essere letteralmente piena di
fotografie del giovanissimo Clemente. Foto volute ed esposte dai suoi genitori
(il padre, Lorenzo Clemente di Luca, è un magistrato), che stravedono per l’unico figlio e tengono dietro alle prime pulsioni artistiche pubblicandogli le
prime poesie di ragazzo. Per il resto, la vita di Clemente è eguale a quella di tanti altri figli della borghesia napoletana: il liceo all’Umberto, le vacanze a Capri, qualche sfottò in più del normale per la capigliatura nera e riccia modello pecorella e per una certa
timidezza nei rapporti con coetanei e coetanee. La facoltà di Architettura di Roma è il primo vero passo di Clemente sulla strada che lo porterà al successo. “Roma è stato il luogo determinante per tutto quello che ho fatto nella mia vita”, ricorda Clemente, “lì ho incontrato la prima persona che ha mostrato interesse per le cose che facevo
e mi ha insegnato a pensare”. Si tratta di Alighiero Boetti, artista torinese appartenente al movimento dell’arte povera. L’incontro con Boetti cancella dalla testa di Clemente qualsiasi idea di dedicarsi
agli studi di architettura (non li finirà mai) e gli fa conoscere un modo di vivere e di pensare legato al viaggiare.
Guidato da Boetti, Clemente va in Afghanistan e in India più volte, fermandosi per mesi nei due paesi. L’Oriente, in particolare l’India, l’induismo, i segni grafici legati a quel mondo cominciano a prendere forma nei
disegni che Clemente fa. Quando è a Roma vive in una casa in via Gramsci ai Parioli. Su tanti altri ha il
vantaggio non indifferente di poter contare sull’appoggio intellettuale e finanziario della famiglia. Ma il suo interesse non si
ferma all’Oriente. Da Ovest gli arrivano specifici richiami americani. “Tutto ciò che è stato legato alla beat generation ha contato nella mia vita: le poesie di Allen
Ginsberg, i quadri di Andy Warhol, la musica di Bob Dylan e Jimi Hendrix”, è il suo ricordo. Come in un’altra occasione ha spiegato che la sua passione per l’autoritratto comincia proprio in quegli anni, dopo un paio di “viaggi acidi”, il gioco in voga a Roma di intingere in una tazza di tè un francobollo che era stato immerso nell’lsd. Roma è anche la città dove incontra la donna della sua vita, Alba Primicerio, un’amalfitana con la quale ha messo al mondo quattro figli. Roma resta il luogo
dove incontra il suo primo gallerista, Gianenzo Sperone, si fa conoscere da
Achille Bonito Oliva che vede subito in lui un artista pieno di talento ed
entra in contatto con altri due italiani, Enzo Cucchi e Sandro Chia: è il terzetto della Transavanguardia. Con l’inizio del successo, una mostra a Colonia nel 1979 insieme a Cucchi e Chia, la
capitale italiana diventa solo un punto di passaggio per Clemente. Il quale non
ha mai abbandonato i viaggi in India, dove sceglie la città di Madras per aprire uno studio. Nel 1981 sbarca in America. “New York è un luogo di incontro dove si ha accesso facilmente a tutte le cose”. Cosa che è puntualmente accaduta, perché è proprio a New York che l’artista napoletano conosce il successo con la S maiuscola. Le porte più importanti si aprono una dopo l’altra: i suoi lavori vengono esposti dall’Università di Berkeley, in California, al Metropolitan Museum di New York, dall’Art Institute di Chicago al Museum of Modern Art di New York. Nella sua
produzione artistica, che appare con regolarità anche in tutti i paesi europei dove può contare su due mercanti d’arte amici, lo svizzero Bruno Bichofbergers e l’inglese Anthony D’Offay (negli Usa c’è Larry Gagosian), tornano costantemente gli autoritratti, che Clemente definisce
“una testimonianza del passare del tempo della fragilità dell’io”. Il coro dei consensi positivi sul suo lavoro è interrotto anche da qualche voce di dissenso. La più forte, quella che non perde occasione per chiedersi se davvero Clemente sia un
artista così bravo come viene sempre presentato è quella di Robert Hughes, il critico d’arte del settimanale “Time”. Sarà perché Clemente con il passare degli anni è sempre più presente ai party che contano (“Mi piace guardare e osservare”, è la sua spiegazione). Sarà perché al lavoro con la pittura aggiunge esibizioni come modello nel catalogo di un
creatore di moda o collaborazioni con il cinema. Sarà perfino perché in qualche periodo della sua vita è riuscito a esporre in tre gallerie contemporaneamente. Ma Hughes non gliene fa
passare una. Ricordandogli ogni contraddizione o gaffe: come due interviste a
distanza di un paio d’anni, la prima per dire “sono passato da una fase in cui mi sentivo vicino alla morte a una fase in cui
mi sento morto”, la seconda per contestare: “La gente che dice che c’è la morte nei miei quadri non sa che io non ho interesse nel tema della morte”. E sparando alto nei giudizi: “Con grande abilità, Clemente si serve delle affinità che ci sono tra un artista e un ciarlatano”» (Antonio Carlucci, 1999). [Lauretta Colonnelli]