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 2011  luglio 06 Mercoledì calendario

CAPUCCI

Roberto Roma 2 dicembre 1930. Stilista. «Se potessi, abolirei il termine moda dal vocabolario. Essere alla moda è già essere fuori moda» • «Il sarto-artista italiano che ha reso le forme atemporali, estranee ai revival e
alle voghe, il filo conduttore di una produzione, incantevole e stupefacente,
fatta di sperimentazione e volumi scultorei. Per queste prerogative Capucci
appartiene, al pari di Cristobal Balenciaga e pochi altri, alla categoria dei
grandi sarti architetti. Come scriveva Cecil Beaton a proposito di Balenciaga,
Capucci: “non fa parte di nessuna cricca, non fa il gioco di nessuno, ma solo il proprio;
rifiuta energicamente di commercializzare se stesso e il suo talento, concede
poca attenzione ai mutamenti stagionali della moda, e persegue una creazione
solitaria di valori che gli hanno meritato il rispetto, l’ammirazione e la protezione di coloro che sono in grado di apprezzare la sua non
comune genialità”» (Sofia Gnoli)
• «Non è una battuta la sua: “Di moda non mi intendo affatto”. Di moda non si intende e non la pratica Roberto Capucci, che niente ha a che
vedere con gli stilisti, con la saga del made in Italy, con la furia delle
sfilate e la routine delle passerelle. Capucci è un esteta e un artista, completamente fuori dal giro: il giro commerciale dei
vestiti, il mercato bizzoso dell’apparire, la smania del marchio obbligato e della griffe. Non firma piastrelle,
mutande, occhiali da sole lui; alle cinture e alle borse preferisce la
solitudine rarefatta della creazione e del pezzo unico. La ribalta che gli
spetta è quella del museo, non la passerella volubile assediata dai flash, non la
vetrina della boutique per
fashion victims» (Laura Laurenzi) • «Attività iniziata nel 1951 con un memorabile debutto a Firenze. Per costruire i suoi
ingegnosi involucri che rifiutano la quotidianità, nell’atelier di via Gregoriana tratta i tessuti come metallo, fondendo seta,
plastica, paglia, alluminio, grani di rosario. Ne nascono soffici corazze,
pezzi unici, crisalidi luminose, ali di plissé, costruzioni realizzate in materiali rari, mikado, ermesino, taffetas o Meryl
Nexten, una speciale fibra cava» (Donata Righetti) • «A soli vent’anni aprì nella Città Eterna, grazie all’aiuto della giornalista Maria Foschini, il suo primo atelier. Maria Foschini — racconta — mi aiutò a uscire allo scoperto e mi spronava, perché io avevo davvero tutti contro; non avevo ancora vent’anni, lei almeno sessantadue. Mia madre diceva “ma cosa fai con quella vecchia signora?” e il marito di lei “e tu con quel ragazzino?”»
• «Ho studiato Belle Arti e per caso, invece di fare lo scultore o lo scenografo,
ho fatto moda. Mi interessava la moda da un punto di vista creativo, ma poi
odiavo le scadenze, gli orari, le collezioni. Ho fatto parte del mondo della
moda quando si sfilava ancora a Palazzo Pitti. Dal 1960 al 1966 andai a Parigi.
I giornalisti mi dicevano che ormai avevo avuto tutto a Roma, avevo vestito le
donne più belle e famose, l’America mi aveva dato un Oscar. Furono tutti molto accoglienti e gentili con me.
Ho fatto lo sbaglio di tornare in Italia dopo solo sei anni. Avrei dovuto
chiudere Roma e tenere aperto Parigi. Ma vi furono dei problemi tra mio
fratello Fabrizio e sua moglie, mia madre si occupò della loro figlia, insomma un concorso di circostanze mi fece tornare»
• «I miei vestiti non sono abbigliamento, sono da guardare, deve esserci creatività, invenzione. So che i miei abiti sono difficili da capire, da indossare, ma
perché smettere? Io non soffro di gelosie per gli altri sarti. Voglio fare da sempre
il contrario degli altri e andare avanti per la mia strada. I miei vestiti non
piacciono alle donne perché non sono affatto sexy e io non voglio che lo siano» • «La cliente più sexy? Silvana Mangano. Quando arrivò la prima volta, per gli abiti di Teorema di Pier Paolo Pasolini, ero talmente emozionato che non riuscivo a parlare.
Magra, pallida, senza un filo di trucco, solo con la fede e una borsa di
coccodrillo. Avvolta nella magia del silenzio. Non ho mai più visto una donna così sensuale, e ho avuto la fortuna di farle una trentina di vestiti. Con Sofia
Loren, invece non funzionò. Lei indossava gli abiti di Christian Dior e voleva tre vestiti di Capucci. Un
onore per me. Mi chiese di provarli nella sua villa a Marino, andai e trovai i
paparazzi. “Facciamoci una foto insieme” disse. “No grazie signora, non amo questa pubblicità”. Il nostro rapporto finì lì. Andò anche peggio con Anna Magnani. Arrivò con in braccio il suo bassotto, Lillina. E io, per rispetto al personaggio, le
feci trovare le sei
vendeuse dell’atelier, tutte con una tunica nera e cinque fili di perle, allineate per
riceverla. Lei le guardò con un’aria arrabbiata e brontolò: “Tutte ’ste donne non mi piacciono. Questo non è l’ambiente per me”. Ci fu il gelo. Non fiatai. Lei si fece prendere le misure e ordinò cinque vestiti. Appena uscì, chiamai la direttrice nella mia stanza e avvertii: “Non mettete in prova i vestiti della signora Magnani, non li faremo mai”. In compenso non ho mai perso un suo film e la considero la più grande attrice italiana»
• Nel 1996 mostra memorabile al Teatro Farnese di Parma, poi portata in giro per
il mondo (anche a Palazzo Colonna a Roma) • Nel 2007 è stato inaugurato a Villa Bardini (Firenze) un museo a lui dedicato: «A Roma non c’era posto per me; nessuno m’ha offerto un luogo per la mia Fondazione. Qui, invece, mi hanno steso un
tappeto rosso. La mia attività è iniziata proprio a Firenze, nel 1951, e mi piace che il mio archivio stia in
questa villa, restaurata e gestita dalla Fondazione Cassa di Risparmio.
Esporremo a rotazione 40 dei 400 abiti che costituiscono la mia memoria; in più, ci sono 22 mila schizzi, 20 quaderni di bozzetti, 150 audiovisivi, 40 mila
foto, 50 mila articoli. Insomma, è tutta la mia vita» (Fabio Isman).
[aeb]