PIERO BIANUCCI, La Stampa 6/7/2011, 6 luglio 2011
Con la missione dell’Atlantis si chiude un’era
Decine di sonde viaggiano tra i pianeti, in orbita lavorano centinaia di satelliti artificiali e la Stazione spaziale internazionale è grande come uno stadio e pesa 400 tonnellate. E’ vero però che con la missione dell’Atlantis in partenza da Cape Canaveral l’8 luglio un’epoca si chiude. Anche l’ultimo shuttle finisce in un museo. Gli Stati Uniti non avranno più un accesso allo spazio. Per raggiungere la Stazione spaziale i loro astronauti dovranno dipendere dal vecchio cosmodromo di Baikonur, nel Kazakistan, e usare le Soyuz russe, i muli dello spazio. Muli perché tirano bene il loro carretto, sono resistenti e con poche pretese. Muli anche perché non hanno tanto bel garbo. Ne sa qualcosa il nostro astronauta Roberto Vittori, che dalla Soyuz è sceso pesto e stordito. A paragone, lo shuttle è una Ferrari. Ma le Ferrari costano care, e talvolta proprio nella tecnologia ultrasofisticata si nasconde un tallone di Achille. Due shuttle sono esplosi, nel 1986 il Challenger al decollo, nel 2003 il Columbia al rientro nell’atmosfera.
Il primo shuttle si staccò dalla rampa 39 A il 12 aprile 1981. Era il primo veicolo spaziale recuperabile. Il futuro. Sono passati trent’anni, ed è il passato. Almeno per qualche decennio si torna ai razzi usa-e-getta. Intanto altri attori occupano la scena delle stelle. La Cina lavora a missioni sulla Luna, l’India insegue, il Giappone lancia meravigliose sonde automatiche. Quanto all’Europa, prepara a Kourou nella Guyana francese, un accesso allo spazio di riserva, da usare con le Soyuz (dopo la dissoluzione dell’Urss, anche i russi a Baikonur sono ospiti paganti) e - un giorno - con un lanciatore europeo tipo Ariane 5 ma in grado di portare un equipaggio.
Lo spazio, per noi che l’avventura l’abbiamo vista fin dallo Sputnik del 1957, ha voluto dire tante cose. La Guerra fredda, prima di tutto. Per Usa e Urss lo spazio fu un’arena, un campo di battaglia, una guerra sublimata nella tecnologia. Certo, quei razzi diretti al cielo dovevano essere letti come missili che avrebbero potuto portare bombe atomiche sul Cremlino o sulla Casa Bianca. Era l’epoca in cui i generali teorizzavano la «mutua distruzione assicurata». Eppure, per una paradossale eterogenesi dei fini, 48 mila testate nucleari accumulate negli arsenali delle superpotenze hanno garantito il più lungo periodo di pace della storia.
L’acrobazia più audace fu lo sbarco sulla Luna. Armstrong e Aldrin, 20 luglio 1969. Poi altri 5 sbarchi fino al dicembre 1972: in totale 12 americani hanno calpestato la «spiaggia sporca» del nostro satellite (così parlò Aldrin) riportandone sulla Terra 382 chilogrammi di sassi che valgono più dei diamanti.
Proprio perché era una faccenda non scientifica ma politica e strategica, nella corsa alla Luna non c’era posto per il secondo arrivato. Dopo lo sbarco americano i sovietici abbandonarono la gara. Qui si verificò un altro miracolo: prima timidamente, poi sempre più esplicitamente, lo spazio da teatro bellico divenne scenario di pace. Tra le superpotenze iniziò la cooperazione, nel 1975 una Soyuz e un Apollo si congiunsero in orbita. I satelliti spia, assicurando il controllo delle mosse dell’avversario, permisero il disarmo nucleare con i trattati Salt.
Intanto, guardando la Terra dall’esterno, abbracciandola in un solo sguardo mentre - sfera azzurra con pennellate di bianco - campeggiava nel cielo nero della Luna, l’umanità prendeva consapevolezza della fragilità del proprio pianeta. La sensibilità ecologica contemporanea ha le sue radici nelle immagini che le missioni spaziali offrivano a tutti noi. In teoria lo sapevamo, ma c’era bisogno di vedere con i nostri occhi che la Terra è come un’astronave con risorse limitate, che finiranno presto se non sapremo amministrarle con saggezza.
Ero a Houston nel 1979 mentre si metteva a punto lo Shuttle. Un tecnico della Nasa mi mise tra le mani una piastrella dello scudo termico. Era leggera come l’espanso degli imballaggi. «E’ difficile fare un materiale così - disse sorridendo alla spiritosaggine che stava per tirar fuori - ma è ancora più difficile farle stare attaccate alla navetta». C’era poco da ridere. Il distacco delle piastrelle fu l’incubo dei trent’anni dell’era shuttle e la causa della fine del Columbia nel 2003.
Però quella navetta che lasciava la Terra - duemila tonnellate lievi come un gabbiano - era uno spettacolo da groppo alla gola, e il rombo, a sei chilometri dalla rampa, era ancora così potente da scuoterci il petto come un fuscello. Non era da meno l’atterraggio a motori spenti, come un aliante dall’aerodinamica goffa, un «mattone», dicevano i tecnici incrociando le dita. Ed esaltante, dicono gli astronauti che sul mattone hanno volato, era la palla di fuoco che avvolgeva la navetta a 90 chilometri di altezza durante il rientro, quando l’attrito con l’atmosfera scaldava a 3000 ˚C la pancia dell’astronave.
Ecco, tutto questo finisce. La malinconia è che non sappiamo se qualcosa ricomincerà.
Però l’ Economist sbaglia, l’era dello spazio non si chiude. Anzi, è nella nostra vita. Sono satelliti meteo a dirci che tempo farà (questo weekend vado al mare o resto a casa?), satelliti Gps a guidare la nostra auto alla meta con la precisione di 10 metri, satelliti per telecomunicazioni a farci vedere che cosa succede dall’altra parte del pianeta. Se il mondo è tutto qui e ora, sulla mia e tua scrivania, lo dobbiamo a quelle mirabili macchine che hanno vinto la forza di gravità.