Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  luglio 06 Mercoledì calendario

BELFIORE

Domenico Giojosa Jonica (Reggio Calabria) 4 agosto 1952. Detto Mimmo. ’ndranghetista. Organizzò l’assassinio del procuratore di Torino Bruno Caccia (26 giugno 1983). Detenuto dal
1983, condannato all’ergastolo, per questo e per altri omicidi • Operante a Torino, alla fine degli anni Settanta, in combutta col cognato
Placido Barresi. Clan specializzato nei sequestri di persona (specialità dei calabresi), riciclaggio del denaro attraverso il Banco dei Pegni, varie
società finanziarie e la gioielleria Corsi di via Roma. Testa di legno per l’intestazione dei beni il Franco Gonella titolare del bar Monique davanti alla
Procura (Monique era il nome della moglie, Monique Delville), luogo perfetto
per la raccolta delle informazioni. Belfiore abitava in un rustico del castello
di San Sebastiano Po, fuori Torino, posizione dominante sulla sommità di una collina. Tutto intorno un parco. Gliel’aveva trovato lo stesso Gonella
• Non si segnalano conflitti con il clan dei catanesi, allora dominante in città, perché le due organizzazioni si divisero il territorio. Gli accordi si stipulavano al
ristorante Tre Lampioni di Orbassano oppure, in Torino, alla gioielleria Corsi
o al bar Antonella di via Pisa (così nell’89 i giudici della Corte d’Appello) • I calabresi, se arrestati, stavano in galera poco, grazie alla compiacenza di
troppi magistrati. Quando, il 29 ottobre 1982, fu preso Barresi, il cognato di
Belfiore, non vi fu invece modo di convincere il procuratore Caccia a una
qualche indulgenza. Il pentito Roberto Miano: «Non era possibile corrompere Caccia… Caccia non poteva essere comprato [...] ed era accanito contro la delinquenza
organizzata e molte volte esagerava perché si appellava anche contro gli imputati che erano scarcerati per motivi di
salute». Belfiore decide dunque di provvedere: non appena ha un minuto libero «al posto di andare a fare niente», comincia a “filare” Caccia, cioè a seguirlo. Un pentito riferirà poi la seguente osservazione dello stesso Belfiore: «I magistrati si comportavano come pazzi, perché mentre nei momenti di ufficio erano guardinghi, dopo un’ora che sono a casa, li vedi magari». Caccia, infatti, a cui è stata assegnata la scorta, non rinunciava la sera a portar fuori il cagnolino
• Belfiore chiama dalla Calabria «due che vengono uccidono e se ne vanno». Costoro, la sera del 26 giugno 1983, a bordo di una Fiat 128 rubata di color
verde, vanno ad aspettarlo sotto casa, in via Sommacampagna, zona residenziale
ai piedi della collina. Sono a volto scoperto. Quando alle undici e mezza
Caccia esce dal portone, l’autista gli spara con la pistola dal finestrino e l’altro scende per finirlo con svariati colpi in testa. Mentre sgommano per
andarsene il sicario seduto al posto del passeggero fa il gesto della pistola
con la mano e grida «bang! bang! bang!» ai quattro passanti che hanno visto tutto per ammonirli a non parlare. Il
magistrato arrivò all’ospedale cadavere
• L’idea che l’omicidio potesse avere una matrice brigatista viene scartata subito. Gli stessi
bierre, alla sbarra a Torino in quel momento, leggono un proclama in cui
accusano polizia e magistratura di voler deviare l’andamento del processo e «nascondere le contraddizioni aperte dalle faide feroci tra le varie mafie
politiche — economiche della città» (11 luglio 1983) • La verità viene fuori grazie a Francesco Miano, capo dei catanesi, detenuto alle Vallette
e addetto a funzioni di scrivano. Agenti dei servizi gli chiedono se sarebbe
disposto a interrogare discretamente sul delitto i suoi compagni di carcere.
Miano accetta, a suo dire per non essere incriminato anche di quell’assassinio «così come si verificava per tutti i fatti delittuosi avvenuti in Torino e periferia
negli ultimi sei anni». Procede nascondendo un registratore nella camicia. Lo stesso Belfiore gli
confessa il delitto e precisa di aver messo in programma, a suo tempo, anche la
soppressione del giudice Sorbello e del pm Maddalena, progetti andati poi a
monte. Miano si fece poi trasferire ad altro carcere, ma suo fratello Santo
venne ammazzato per ritorsione in piazza Corpus Domini a Torino. Al processo,
il pentito catanese Carmelo Giuffrida disse: «Le persone che a mio avviso hanno commesso l’omicidio vantano protezioni e amicizie anche tra le autorità dello Stato ed anche tra i magistrati». Gli esecutori del delitto non sono mai stati presi, secondo Giuseppe Belfiore,
fratello di Mimmo, neanche Mimmo li conosceva «perché non vuole saperlo». Il castelletto di San Sebastiano Po, confiscato e assegnato al comune, nel
2006 era ancora nella disponibilità della famiglia di Mimmo Belfiore: padre, moglie e una cognata (vedova bianca di
mafia) spiegarono di non poter andare altrove. Dove avrebbero infatti sistemato
il loro gregge di duecento capre?