Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  luglio 06 Mercoledì calendario

AAA VENDESI ISOLE DELLA GRECIA

Alla fine, quello che sembrava un mito capace di competere con i leggendari coccodrilli bianchi nelle fogne di New York, pare essere diventato realtà: la Grecia sull’orlo del fallimento vende le sue isole. O almeno così pare, stando alla candidatura all’acquisto di tre di esse da parte di un imprenditore turco, intenzionato a comprare almeno tre delle sei isole messe in vendita (Lihnari, Kaltsonisi, Amorgos, Kardiotissa, Nafsika e Vouvalo) attraverso la società di costruzioni Fiyapi (ha sede a Istanbul). «L’obiettivo è quello di costruire un albergo e una villa simili a un progetto che stiamo portando avanti a Dikili (città dell’Egeo)».

Il prezzo complessivo dell’operazione, tutt’altro che proibitivo a fronte del potenziale di sfruttamento, oscilla tra i 3 e i 20 milioni di euro.

« Se saremo in grado di portare avanti l’operazione, potremo creare un ponte tra Turchia e Grecia», continua Fiyapi.

Insomma, la fantaeconomia al potere, anche se non vi è conferma ufficiale da parte greca dell’intenzione di vendere il proprio patrimonio demaniale, visto che a oggi la proposta parlava di leasing pluriennali su alcune aree di proprietà governativa per la costruzione e lo sfruttamento di infrastrutture. Gli ostacoli all’operazione, poi, non mancherebbero nemmeno in caso il governo Papandreou desse il via libera: primo, in Grecia non esiste il catasto e quindi il concetto stesso di proprietà immobiliare appare abbastanza opaco e secondo, vista la mai risolta disputa su Cipro, difficilmente i greci accetteranno di svendere le loro amate e decantate isole proprio ad Ankara, visti anche i contenziosi riguardo gli espropri compiuti dai turchi che pendono dinanzi alla Corte di giustizia europea.

Ma nel giorno in cui la Bce rendeva ufficialmente noto che continuerà ad accettare debito greco come collaterale per nuovi prestiti, a meno che le agenzie di rating non sanciscano ufficialmente il default ellenico, dalla Gran Bretagna si avanzava un ardito parallelo storico. Ospitato sulle colonne del Financial Times, infatti, l’ex rettore dell’università di Buckingham, Sir Martin Jacomb, sintetizzava così il suo pensiero: l’adozione dell’euro per la Grecia è stata catastrofica come fu per il meridione d’Italia l’introduzione della lira dopo l’unificazione 150 anni fa. In un ottimistico e costruttivo editoriale dal titolo «La Grecia non ha nessun futuro nell’eurozona», l’autore spiegava che con l’ingresso nella moneta unica la Grecia ha perso competitività sui mercati internazionali e il Paese si è impoverito perché non può più usare la leva della svalutazione. Lo stesso destino, sostiene Jacomb, «che colpì l’Italia meridionale in seguito all’unificazione e all’introduzione della lira. All’inizio del 19° secolo Napoli e la sua regione erano «relativamente sofisticate», scriveva l’ex rettore universitario ma l’economia del Mezzogiorno incominciò a cedere terreno rispetto a quella del Settentrione e con la successiva adozione della lira, la situazione peggiorò ulteriormente in quanto la regione perse lo strumento fondamentale della svalutazione per correggere gli squilibri competitivi.

«Questa tragedia economica dell’Italia meridionale, persiste», sottolinea l’autore, sostenendo dunque che l’unico modo per ridare competitività alla Grecia è «smantellare l’euro». Un’opzione da mettere sul piatto con leggerezza quest’ultima, ancorché un po’ drastica, soprattutto per chi vive e lavora in un paese che pur facendo parte dell’Ue - contro la quale, a ogni discussione sul budget comunitario, si strepita per vedersi garantito il rebate ottenuto negli anni Ottanta da Margaret Thatcher al vertice di Fontainebleu - non ha adottato l’euro, avendo comunque grandemente contribuito alla crisi finanziaria grazie a un sistema bancario completamente basato sulla leva.

Una lettura un po’ meno partigiana, ad esempio, la danno a Jp Morgan, dove l’analista Michael Cembalest paragona la crisi greca a quella messicana degli anni Ottanta, mettendo in parallelo quest’ultimo salvataggio con quello inutile verso Città del Messico tra il maggio e il settembre del 1986, prima della ristrutturazione del 1988. Ristrutturare, non smantellare.