Il Catalogo dei viventi 2007, 6 luglio 2011
ZOLA Gianfranco Oliena (Nuoro) 5 luglio 1966. Ex calciatore. Dal 2006 consulente tecnico dell’Under 21 • Con il Napoli ha vinto lo scudetto 90, con il Parma la coppa Uefa 95, con il Chelsea la coppa delle Coppe 98
ZOLA Gianfranco Oliena (Nuoro) 5 luglio 1966. Ex calciatore. Dal 2006 consulente tecnico dell’Under 21 • Con il Napoli ha vinto lo scudetto 90, con il Parma la coppa Uefa 95, con il Chelsea la coppa delle Coppe 98. Con la Nazionale (35 presenze, 8 gol) ha ottenuto il secondo posto ai Mondiali 94 (giocando solo pochi minuti nell’ottavo contro la Nigeria, fu pure espulso ingiustamente) ed ha partecipato agli Europei 96 (contro la Germania sbagliò un rigore che ci costò l’eliminazione al primo turno). Ha chiuso la carriera nel Cagliari (che nel 2004 aveva riportato in serie A). 6° nella classifica del Pallone d’Oro 95, 15° nel 97, nomination anche nel 1999 • «Per i supporter londinesi è una leggenda. è arrivato al Chelsea nel novembre 96, da Parma. Tre stagioni in Emilia, dopo le quattro di Napoli. Nel Napoli di Maradona che lo chiamava “Zolin”. Dopo alcune stagioni tra i dilettanti (prima Nuorese poi Torres), l’esordio tra i professionisti è stato con il botto: il secondo scudetto partenopeo, al quale contribuisce sostituendo proprio l’argentino quando fa le bizze. Le stazioni della carriera di Zola ricordano una sorta di viaggio di formazione, una faticosa scalata, una meritata conquista. Un Gran Tour dai campetti brulli e gibbosi delle categorie inferiori agli stadi della Premiership, eleganti come salotti. Oliena, il paese dove è nato, è immerso nella Barbagia nuorese ai piedi del Monte Corrasi, “il più bello che Dio abbia mai creato”, parola di Salvatore Satta. Il calcio come passione, non come professione, almeno fino a quando Luciano Moggi non lo ha chiamato a Napoli» (Lorenzo Amuso) • «Io sono rimasto il ragazzino di Oliena, quello a cui la maglia arrivava sulle ginocchia. Tamburino sardo non m’è mai piaciuto. Sardo va bene, tamburino no. Sono già piccolo di mio, i diminutivi non li digerisco. Sa quale fu la prima frase di Maradona, quando arrivai al Napoli? Finalmente ce n’è uno più basso di me» (da un’intervista di Gianni Mura) • «Gullit mi aveva messo a centrocampo, dicendomi che i difensori inglesi uno col mio fisico se lo mangiavano a colazione. Il centrocampo inglese è un’idea vaga, spesso è scavalcata dai lanci lunghi dei difensori. La prima volta che Gullit mi ha messo di punta ho fatto due gol e punta sono rimasto. A Stamford Bridge ognuno arrivava con la sua macchina, prima della partita. Come alla Nuorese, la mia era una Renault 9 bianca. Dalla serie C in su, in Italia allo stadio si arriva tutti insieme, sul pullman. Ridevo perché mi sembrava di aver fatto tanta strada per ritrovarmi al punto di partenza. Oppure, ridevo perché in Inghilterra ho scoperto che i ritiri non servono a niente, quando un giocatore sa gestirsi. Le cose sono chiarissime, nel rispetto dei ruoli. I tifosi non aggrediscono i giocatori contestandogli la discoteca o il pub, non è compito loro. Per quello c’è l’allenatore. Ai tifosi basta che si dia tutto sul campo. Se si perde, battono ugualmente le mani» • «Da noi la domenica sera in tivù non si vede il calcio ma l’autopsia del calcio. Attenzione, non voglio fare l’anglofilo a tutti i costi, anzi dico che il calcio italiano è superiore a quello inglese, ma la cultura calcistica no, ma la vivibilità degli stadi no. Si è sempre giocato per vincere, anche da bambini, ma oggi in Italia sono tutti incazzati» • «Da bambino sentivo dire che i gatti hanno sette vite. Con gli amici ne ho buttati un po’ giù dal tetto» • «Non studiavo volentieri, avevo in testa solo il pallone. Comunque se sono fatto così è perché così mi ha voluto mio padre. Gli piaceva il calcio, non era giocatore. Rispettare le regole, rispettare gli avversari, quante volte me l’ha detto» • «Se c’è una cosa di cui mi sento parzialmente vittima è la scarsa attenzione del calcio italiano verso la Sardegna. Ho fatto una gavetta lunghissima, sono arrivato in A che avevo quasi 24 anni. C’era stata un’offerta del Torino quando ne avevo 13, troppo giovane per muovermi da casa, poi Giovanni Maria Mele detto Zomeddu, il mio primo maestro di calcio, ha provato a segnalarmi all’Atalanta, alla Lazio, alla Sampdoria, al Cagliari, ricevendo sempre la stessa risposta: è troppo piccolo, è troppo gracile, non ci interessa» • «Zomeddu insegnava matematica e fisica, tipo sergente di ferro. Mi ha fatto piangere un sacco di volte, ma sempre a fin di bene. Voleva che crescessi internamente. Se non sai affrontare situazioni così, meglio che torni a vendere gazzose con tuo padre. Così mi diceva. Però mi diceva anche che le mie finte di corpo gli ricordavano quelle di Boskov» • «Amarezze? Sono legate alla Nazionale. Nel 94 speravo di giocare prima, stavo bene, con la Nigeria appena entro l’arbitro mi butta fuori senza che avessi fatto fallo. Tre turni di squalifica. E l’arbitro radiato pochi mesi dopo perché si vendeva le partite. Comincio a sperare negli Europei del 96, ma sbaglio il rigore con la Germania, mi assumo tutta la responsabilità dell’eliminazione, che forse non era tutta mia. Giorni nerissimi. I sogni, o si realizzano o si spezzano. E vivere coi loro cocci è difficile. C’è una curiosità, sia a Boston sia a Manchester avevo la maglia numero 21. Quando arrivo al Chelsea, trovo l’armadietto numero 21 e dentro un paio di scarpe della mia misura con scritto 21 sotto la suola. L’armadietto non l’ho mai usato e le scarpe le ho bruciate» • «Tornare al Cagliari è stato come rimettersi in discussione completamente. è stata una serata al Casinò, una notte in cui ho puntato tanto. C’erano in ballo la mia credibilità e la mia carriera. Sapevo che la gente avrebbe apprezzato il mio ritorno, la rinuncia alla Champions League e ai denari del Qatar, ma fino a quando?».