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 2011  luglio 06 Mercoledì calendario

ZEFFIRELLI

Franco (Gianfranco Corsi) Firenze 12 febbraio 1923. Regista. Tra i suoi film: Camping (57), La bisbetica domata (67), Romeo e Giulietta (68, David di Donatello e Nastro d’argento, nomination all’Oscar), Gesù di Nazareth (77), La traviata (83), Otello (86), Il giovane Toscanini (88), Amleto (90), Storia di una capinera (94), Jane Eyre (95). Come regista di prosa ha sfondato prima all’estero che in Italia. Nell’opera, fra i tanti allestimenti, due sono memorabili: la Bohème creata nel 63 alla Scala, che continua ad essere ripresa da 43 anni, e la mini Aida fatta a Busseto nel 2001 • è figlio di Ottorino Corsi e Alaide Garosi Cipriani: «Io sono un figlio dell’amore. Mio padre era sposato con un’altra donna, quando mi riconobbe ero già grande. Mamma aveva altri tre figli, un marito in sanatorio e un negozio di
moda in piazza della Repubblica. La mia nascita fu uno scandalo per tutta
Firenze. Mia madre ne morì, quando avevo sei anni» (da un’intervista di Aldo Cazzullo) • «Un’infanzia dolorosa vissuta nella Firenze del fascismo tra i cappelli di paglia e
il tè di alcune squisite ma perfide nobildonne inglesi. Si nasceva balilla, si
diventava avanguardisti e infine giovani fascisti. Però le marce e i discorsi che ascoltavo dall’altoparlante sotto le finestre del centralissimo atelier di mia madre mi
annoiavano da morire. Avevo meno di sei anni: quando sono stato in grado di
capire, la mia avversione alla violenza della dittatura è stata una presa di coscienza. I figli illegittimi in quegli anni avevano una
lettera secondo l’ordine alfabetico. Quando venne il mio turno toccava alla zeta, e giacché mia madre amava l’aria degli Zeffiretti di Mozart in
Così fan tutte, scelse proprio quel cognome. Fu il caso a decidere per Zeffirelli: l’impiegato dell’anagrafe infatti dimenticò di apporre i trattini sulle t. Ma il destino mi ha fatto un altro grande
regalo: l’incontro con le adorabili, e insieme terribili, lady che, alla morte di mia
madre, quando avevo appena sei anni, si sono occupate di me e della mia
educazione. Sono loro che mi hanno insegnato a vivere» (da un’intervista di Laura Delli Colli) • La storia della sua infanzia è raccontata in Un tè con Mussolini (99): «Sono cresciuto con due cugine di mio padre. Tre volte la settimana andavo a
lezione di inglese da una signora, Mary ’O Neill, che mi introdusse nel circolo degli anglosassoni di Firenze. C’era una ricca ebrea americana, impersonata nel film da Cher, che saldò il conto di mia madre solo dopo la sua morte, e mi consentì di studiare. E c’era la moglie dell’ex ambasciatore britannico a Roma, sino all’ultimo fiduciosa nel fascismo che aveva salvato l’Italia dai rossi. Mary invece mi iniziò alla democrazia. Gli altri miei maestri furono padre Coiro, priore di San
Marco, e un professore di diritto romano che frequentava il convento, Giorgio
La Pira. Fu lui a spiegarmi che l’aborto è un crimine e che i totalitarismi, fascismo nazismo comunismo, sono tutti
uguali, ma il comunismo è più pericoloso. Ricordo La Pira rimproverare il priore: “Perché citi Marx? C’è già tutto nel Vangelo!”»
• La Resistenza. «Andai in montagna da cattolico liberale e rischiai di essere ammazzato dai
comunisti. Li vidi fare cose orribili, assassinare un prete solo perché aveva benedetto le salme dei fascisti e gettare il suo corpo nella fossa che
usavano come latrina. Cose che non si dimenticano. Un giorno pretesero di
disarmarci. Ci salvò un gruppo di polacchi fuggiti dal campo di prigionia, che rifiutarono di
consegnare i fucili. Altrimenti mi avrebbero sparato alle spalle, com’erano soliti fare, per poi presentarmi come un caduto in battaglia»
• Nel 94 e nel 96 è stato eletto senatore per Forza Italia: «Per via della mia franchezza ho sempre suscitato un certo fastidio al
conformismo politico e culturale italiano. Dico quello che penso e sono spesso
stato confermato dalla Storia. Come il mio anticomunismo viscerale. Certamente
non sono ateo. So che c’è un’entità superiore che cerco attraverso gli anni di definire, che è sempre più presente. L’idea che Dio non esista è inaccettabile. Bisogna abituarsi ad accettare il nostro destino mortale.
Viviamo come se fossimo eterni, come se la morte non ci toccasse. Andiamo ai
funerali degli amici, dei parenti, con quell’atteggiamento distaccato come a dire “poverino, è toccata a lui”. Non pensando che un giorno toccherà a noi. Quando vado a un funerale penso al mio funerale. Non mi è pesato l’ostracismo in patria, perché comunque non ha danneggiato la mia carriera. Mi ha indispettito perché è un ostracismo ideologico. è stato manovrato dal possesso della cultura operato dai comunisti in questi
ultimi cinquanta anni. Siccome non ho mai nascosto quello che pensavo di loro e
di Stalin, allora venivo messo al bando» (da un’intervista di Gigi Marzullo)
• «Nel mio lavoro è implicita l’esigenza del comunicare. Non puoi andare a letto con qualcuno pensando ad altro,
e fare cinema vuole dire proprio questo: fare l’amore con il pubblico. La pressione arriva dall’immensità della macchina: ogni film è come muovere un esercito. Per questo ho sempre sognato di fare film piccoli,
agili e improvvisi, e forse un po’ mi è riuscito con un Un tè con Mussolini, dove ho rivisitato la mia adolescenza e l’orrendo periodo del fascismo. In tutti i miei film ci sono parti di me. Io sono
stato Mercuzio, Giulietta e Romeo. Sono stato Amleto, la Caterina della Bisbetica domata e il personaggio di Jeremy Irons in Callas Forever. In fondo ogni regista non fa che raccontare se stesso. Visconti diventava
tutti i suoi personaggi, anche i pescatori di Acitrezza. Tullio Serafin mi ha
fatto capire che per fare una buona regia lirica bisogna servire il
compositore, e non creare, come accade oggi, spettacoli in cui i registi si
compiacciono solo di se stessi. Si mette in scena Verdi, o Gounod, o Berg, e
tutte le produzioni sono uguali, vi riconosci il regista e non l’autore. La cantante bistrata, le luci psichedeliche, il seno nudo, gli specchi
sberluccicanti... Tanto per sbalordire il pubblico, che diventa sempre più estraniato dalla lirica. Giorgio La Pira mi ha impresso svolte fondamentali.
Veniva a giocare con noi ragazzi dai Frati di San Marco, a Firenze. Nel 43,
quando dovevamo arruolarci per Salò, ci disse: andate in montagna a fare la Resistenza, ma rammentate che fascismo,
comunismo e nazismo sono la stessa cosa. Per 40 anni, anche quand’era molto politicamente scorretto (oggi essere anticomunisti non fa più notizia), ho messo a rischio la mia carriera dicendo quello che pensavo contro
i vari Maselli & Company. Sono stato espulso dalla Società Autori Italiani, 97 voti contro 105, perché avevo attaccato in un’intervista l’omologazione politica del cinema nazionale. Fellini si defilò, Suso Cecchi D’Amico fu tra i pochi che votarono a mio favore. E per fortuna nel frattempo
trionfavo all’estero. Se fosse stato per gli italiani, a quest’ora languirei all’ospizio» (da un’intervista di Leonetta Bentivoglio)
• «La mia colpa è aver rifiutato di spargere il sale davanti alla statua dell’imperatore. Sa come facevano i primi cristiani, per sfuggire alle persecuzioni?
Rendevano omaggio formale al dio in terra; che nella nostra epoca è il comunismo, la sinistra. Prenda Luchino Visconti. Comunista lui? Io l’ho visto licenziare in tronco un cameriere e una cameriera che avevano
dimenticato di pettinare i suoi gatti persiani. Intendiamoci: fece benissimo»
• «Quando giravamo La terra trema vivevamo tra gente poverissima, la Sicilia del 47 era di una povertà medievale. Visconti prendeva il bagno caldo due volte al giorno, la mattina e
la sera, nell’acqua profumata con essenza di Penhaligon, il profumo che uso tuttora, Hammam
bouquet. Francesco Rosi e io, suoi assistenti, restavamo in piedi accanto alla
tinozza, a dare il resoconto della giornata e prendere ordini per il giorno
dopo. Poi il “comunista” Visconti ci congedava e cenava a letto, servito dal maggiordomo. Non dico abbia
sparso il sale per convenienza. Luchino era una sorta di Filippo Egalité, sensibile alle vibrazioni del tempo. Sparse il sale per farsi perdonare di
essere nato in una delle famiglie più aristocratiche e più autocratiche, i signori di Milano, imparentati con una delle famiglie più ricche, gli Erba»
• Su Romeo e Giulietta: «Quando mi proposero la tragedia di Shakespeare all’Old Vic, pensai a uno scherzo. Ero preoccupato ed eccitato allo stesso tempo.
Chiesi un consiglio a Visconti. “Sei matto — mi disse —, se fai fiasco ti rovini”. Lo disse con tanta passione che capii che dovevo accettare. Fu un trionfo.
Scrissero che un italiano era venuto a insegnare agli inglesi come si fa
Shakespeare» • Su Maria Callas: «Un fenomeno. La ricordo vestita da Norma, dietro le quinte, in attesa di entrare
in scena, mentre cicalava come una comare con la cameriera. Poi arrivava il
direttore di scena: “Signora, tocca a lei”. Varcava la quinta e come per incanto quella comare un po’ volgarotta diventava il personaggio che interpretava. Certe persone sono in
grado di vivere una doppia vita grazie a un apporto di energie che entrano in
loro a un richiamo, in un preciso momento, e le abbandonano soltanto quando non
hanno più bisogno di quella tensione creativa»
• Il più grande direttore d’orchestra con cui ha collaborato? «Carlos Kleiber. E poi Leonard Bernstein. Un anno furono miei ospiti a Positano
nello stesso periodo. Strana coppia. In quei giorni mi era arrivato il filmato
della Bohème della Scala, da rivedere insieme a Kleiber, che l’aveva diretta. Kleiber non voleva che altri assistessero alla proiezione e io
pregai Bernstein di lasciarci soli. Un paio di volte, con il pretesto di
versarsi un bicchiere di whisky, Bernstein entrò nella sala, fingendo di farlo in silenzio, ma in realtà con un rumore infernale. Verso la fine, quando nell’opera Mimì sta per morire, si sentì un singhiozzo disperato: era Bernstein, che guardava senza che noi ce ne
accorgessimo, nascosto nel buio. Diceva che quando l’opera arrivava a questo punto, anche lui non poteva fare a meno di piangere e
singhiozzare ripensando alla moglie morta. In realtà, voleva solo rompere le scatole»
• è tifoso della Fiorentina: «Nel 69, l’anno dello scudetto, andando allo stadio per vedere Fiorentina-Cagliari, ebbi un
incidente. Ero sulla Rolls-Royce di Gina Lollobrigida, che guidava come una
pazza. A lei non importava nulla del calcio, doveva fare un servizio
fotografico. Quando mi risvegliai dopo tre giorni di coma, la prima cosa che
dissi fu che dovevo andare allo stadio. Ingessato per mesi, riuscii a vedere l’ultima di campionato, in compagnia di Sarah Ferrati: questa volta, con un
autista più sicuro» (da un’intervista di Mauro Balestrazzi)
• Della propria omosessualità parla con discrezione. Molto critico verso i gay-pride e le altre forme di
esibizionismo: «Una parata di checche scatenate ha ben poco da spartire con gli omosessuali
veri. E sono tanti. Negli Stati Uniti, stando al Rapporto Kinsey, il 36 per
cento della popolazione avrebbe avuto, più o meno occasionalmente, quel genere di esperienze. In Italia siamo intorno al
10 per cento, in parte dichiarati, ma soprattutto sommersi, magari nascosti
sotto i tranquillizzanti panni del buon padre di famiglia. Una fetta importante
di elettorato che fa gola, che la sinistra tenta di conquistare con la solita
demagogia. Ma che certo, in grandissima parte, non si riconosce in quello zoo
di pagliacci osceni, in quelle baracconate offensive che sono quei cortei.
Michelangelo, Leonardo, Giulio Cesare - gente che ha vissuto virilmente il
problema - quei gay marciatori li prenderebbe a calci»
• «Perché lascia il Senato e il collegio di Catania? “Ho 77 anni, due legislature alle spalle, tanto lavoro in vista. Le battaglie
saranno tante, ci vuole carne fresca”. Lei però è tra i senatori più assenteisti. Forse anche questo ha contribuito alla sua decisione. “Ma caro! Ho avuto una salute pazzesca. Cinque operazioni, ventisei ore di
anestesia, una protesi americana sbagliata, il sistema nervoso scosso, ancora
traballo”. Eppure Zeffirelli si vede spesso in tv: “Mi portano lì in carrozzina, mi piazzano su una sedia, mi truccano e così appaio bello fresco. La verità è che giro ancora con le stampelle”» (Paolo Conti)
• Ha due figli adottati da adulti: Pippo, 50 anni, figlio di un vecchio amico
siciliano morto giovane e Luciano, 46 anni, orfano fin da bambino, conosciuto
sui set dove era un tuttofare. Il primo si occupa della gestione del patrimonio
economico e artistico di Zeffirelli, il secondo manda avanti la casa. Doveva
esserci anche una terza adozione per Adelina, dipendente 38enne del regista,
poi bloccata da problemi burocratici • è un antijuventino dei più accaniti: «Nell’83, fui querelato dalla Juventus e dal suo presidente di allora, Giampiero
Boniperti, per aver denunciato pubblicamente che la squadra bianconera aveva
vinto una buona metà dei suoi scudetti con la benevolenza e i pasticci degli arbitri. Avevo detto
anche che mi faceva rabbia vedere che questa società, considerata fra le migliori d’Europa, era costretta a sporcarsi le mani con traffici mafiosi. Condannato in
tutti i gradi di giudizio, nell’89 dovetti pagare 37 milioni di lire alla Juventus e al suo presidente. A
distanza di oltre vent’anni, posso dire con sommo piacere e animo grato che il tempo mi ha dato
clamorosamente ragione […] Considero serenamente la possibilità di ricorrere con tutti i mezzi legali per avere il rimborso di quei 37 milioni,
oltre agli interessi maturati. E mi aspetto anche le scuse del signor Boniperti» (Gazzetta dello Sport).