Michele Anselmi, Il Riformista 6/7/2011, 6 luglio 2011
GENE HACKMAN IL DISOCCUPATO SI METTE A SCRIVERE ROMANZI WESTERN
Sentite questa storiella accaduta a Santa Fe, qualche tempo fa, neanche troppo. Passeggiando col cane, Gene Hackman si avvicina a una giovane assistente di regia che sta pilotando il traffico di camion e roulotte nei pressi di un vicolo. Girano un film. E l’attore, che da anni vive da quelle parti insieme alla seconda moglie, la pianista Betsy Arakawa, si fa sotto per scambiare quattro parole. Chiede se assumono dei figuranti. «No, mi dispiace signore, buongiorno» è la replica della ragazza.
Troppo giovane, evidentemente, per riconoscere l’ex detenuto on the road di Lo spaventapasseri, il tosto poliziotto “Popeye” Doyle di Il braccio violento della legge, il tormentato spione di La conversazione, il cowboy crepuscolare di Stringi i denti e vai, il detective malinconico di Bersaglio di notte, l’allenatore in rimonta di Colpo vincente, l’idealista fotoreporter di Sotto tiro, il rude agente Fbi di Mississippi Burning, il presidente sessuomane di Potere assoluto, il ladro romantico ma previdente di Heist - Il colpo. Solo per dire alcuni dei meravigliosi ruoli incarnati dall’attore di San Bernardino, classe 1930, due Oscar e una serie infinita di film.
Già: che fine ha fatto Gene Hackman? Scrive romanzi, perlopiù western a forti tinte, un po’ alla maniera di Louis L’Amour. Il suo nuovo, Payback at Morning Peak, titolo che sembra già pronto per un film, è appena uscito nelle librerie Usa. Magari non è un caso che sia ambientato nel New Mexico, proprio il posto dove s’è trasferito. Lontano da Hollywood. Il cinema che gli ha dato molto, se non tutto, sembra un ricordo. Ignora dove siano finite le due statuette ricevute nel corso della lunga carriera, e non si direbbe un atteggiamento civettuolo, anti-divistico. Unica debolezza: un manifesto di Errol Flynn, il suo attore preferito da sempre.
Stessa età di Clint Eastwood, il regista che gli fece vincere il secondo Oscar nel 1993 con Gli spietati, Hackman esibisce oggi una senile barba bianca, ma in realtà non si sente affatto in pensione. Semplicemente non gli va di interpretare parti da “great-grandfathers”, da bisnonni. L’ha confessato un mesetto fa in una spiritosa intervista a Time firmata da Belinda Luscombe.
Del resto, l’uomo non sembra troppo patire. Nel 2004 confessò in tv a Larry King di essere praticamente disoccupato. Risale proprio a quell’anno il suo ultimo film, la commediola di Donald Petrie Due candidati per una poltrona, dove fa un ex presidente al quale propongono di fare il sindaco di una ridente cittadina del Maine e invece perderà. Poi nulla. Pensare che il millennio, per Hackman, era cominciato bene: con Heartbreakers - Vizio di famiglia, Il colpo, I Tenenbaum, Dietro le linee nemiche, La giuria.
A pensarci bene, qualcosa del genere è successo a Sean Connery, anche lui sopra gli 80. Nel 2003, dopo aver girato l’impresentabile La leggenda degli uomini straordinari, l’ex 007 decise di chiuderla lì, con un semplice annuncio. I soldi non mancavano, e forse il cinema aveva smesso da tempo di riscaldare i suoi pensieri. Per entrambi sembra valere il detto: «Alcuni attori invecchiano, altri maturano». Ambedue hanno saputo intonarsi allo scorrere del tempo senza ricorrere, come Robert Redford o gli scomparsi Paul Newman e Tony Curtis, al chirurgo plastico, accettando i segni dell’età, pure divertendosi a spiazzare il pubblico: lo scozzese disfacendosi anzitempo del parrucchino d’ordinanza per farsi crescere due bei baffoni; il californiano reiventandosi a sorpresa come interprete di commedie buffe.
Poi, certo, è un altro il Gene Hackman che si ama. D’azione, burbero e roccioso, dai metodi spicci, dotato di sarcasmo, cattivo capace di redimersi, non importa che sia sbirro, generale, ladro, sceriffo, avvocato, criminale. Fateci caso: pur avendo studiato insieme a Dustin Hoffman, di sette anni più giovane, alla Pasadena Playhouse, Hackman sullo schermo non sembra mai preso dal sacro fuoco della recitazione, il “Metodo” gli fa un baffo, scivola dentro i suoi personaggi, inclusi i moralmente esecrabili, con naturalezza grintosa, un po’ alla maniera di Robert Duvall, di solo un anno più giovane e come lui eclettico, autorevole. Dovunque lo metti, sta bene. Come un tempo Burt Lancaster. E oggi Tommy Lee Jones, a cui diede la caccia nell’avvincente Uccidete la colomba bianca. Hackman farebbe una bella figura anche se leggesse l’elenco del telefono.
Pure nei film peggiori, e ce ne sono tra gli ottanta girati, l’attore porta una presenza che lascia il segno, un mix di autorevolezza e fisicità, carisma e ambiguità. Magari è merito della stazza (è alto 1 metro e 88), del naso importante, dello sguardo tagliente, della faccia “normale”, della voce tonante ben restituita in Italia dai due doppiatori ufficiali, Sergio Fiorentini e Renato Mori.
Poi, certo, la vita movimentata avrà contato. Leggenda vuole - ma la cosa è controversa - che a sedici anni si arruolò nei Marines finendo in Cina come operatore radio e al suo ritorno negli States collezionò una serie infinita di lavori umili. Il peggiore dei quali lo ricorda proprio a Time: «Fui assunto, insieme ad altri quattro ragazzi, per pulire le poltrone e gli arredi di pelle nel grattacielo della Chrysler a New York. Sempre di notte, un incubo».
Anche per questo odia girare nottetempo e alzarsi all’alba. Più comodo scrivere romanzi western. Payback at Morning Peak è il quarto, dopo Escape from Andersonville, Justice for None e Wake of the Perdido Star, nessuno dei quali pubblicato in Italia. L’incipit è intonato al cinema violento che l’ha reso famoso. Tornando a casa, il diciassette Jubal trova la madre morta, deve sparare al padre che sta atrocemente bruciando vivo e prova a salvare la sorella appena stuprata. «Volevo che Jubal sprofondasse in un buco nero, in modo da avere a disposizione 300 pagine per farlo uscire da lì. Magari ho esagerato un po’, ma era funzionale a risolvere il dilemma» ha spiegato a Time. Per la cronaca: politicamente democratico, una volta votò per il repubblicano Ronald Reagan. Nessuno è perfetto.