Il Catalogo dei viventi 2007, 6 luglio 2011
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Biografia di Paolo Villaggio (1)
Villaggio Paolo Genova 31 dicembre 1932-3 luglio 2017. Attore. Celebre per la saga di Fantozzi (cinque libri, dieci film, il primo nel 75). David di Donatello come miglior
protagonista per La voce della Luna (Fellini, 90), Nastro d’argento per Il segreto del bosco vecchio (Olmi, 93) • Attore in un centinaio e passa di film, scrittore di una quindicina di libri, «ha creato la più grande maschera comica dopo Totò, venduto milioni di libri, è il beniamino di un paio di generazioni. Se uno dice Fantozzi è una buffonata, Fellini sì che ha valorizzato Villaggio, lui se la prende. Se dice Fantozzi è come Gogol, magari risponde che è stato solo il lasciapassare per la fama e la ricchezza...» (Paolo D’Agostini) • Famiglia della borghesia colta (padre siciliano astronomo, madre veneziana laureata in Glottologia), esordì in tv con Quelli della domenica (68) dopo aver fatto l’impiegato alla Finsider di Genova e imparato il mestiere nella compagnia goliardica Baistrocchi, nel teatrino genovese di piazza Marsala, nel cabaret romano 7x8 e alla radio. Al cinema cominciò con Brancaleone alle crociate (Monicelli, 70) • «Villaggio è un nome di anagrafe. Vuol dire che il padre di mio padre, mio nonno, era un trovatello. E come alla maggior parte dei trovatelli siciliani gli fu imposto un nome inventato: Villaggio. Io, però, so come si chiama questo mio antenato (il padre di mio nonno), che era
ricchissimo e intelligentissimo, il quale, però, non ci ha voluto riconoscere. Io ho ereditato da lui la vivissima intelligenza che mi ritrovo. Ma ahimè non le strepitose ricchezze» (da un’intervista di Enzo Magrì del 71)
• «Più di Fracchia (“il personaggio che amo di più perché mi corrisponde... perché ha spessore psicologico, cioè una maggiore umanità...”) e del prof. Kranz, Fantozzi è il suo cavallo di battaglia. Fantozzi - all’inizio era Fantocci - è una maschera, la più grande dell’Italia moderna e postmoderna. è una vittima, al pari di Fracchia, dei mass media, del consumismo, della pubblicità televisiva, del classismo burocratico, ma anche un vendicatore dell’infelicità. Fondata sulle figure dell’iperbole surrealisica e della ripetizione meccanica con prestiti dalla tecnica dei cartoons (il regista Neri Parenti ha fatto con lui i suoi film migliori), la sua comicità tende al catastrofico e al mostruoso, non teme la sgradevolezza, l’antipatia, il cattivo gusto e ha spesso agganci precisi con la società italiana dagli anni 70 in poi e col mondo in cui viviamo. La sua è una buffoneria che, fingendo di colpire l’eccezione, vellica e vendica, “Il lessico fantozziano è entrato nella lingua comune degli italiani con la potenza di sfondamento di certi slogan pubblicitari” (Sandro Casazza). Tra le cause del suo successo c’è la sua funzione di parafulmine: è più sventurato e più cretino dello spettatore medio» (Morando Morandini)
• «Una volta mi ha invitato la Fondazione Cini, si parlava di scrittori italiani
tradotti in cirillico. è andato a parlare Evtuschenko e ha detto: l’unico autore degno di Gogol e Cecov è “Vigliacco”. L’unico a capire che parlava di me sono stato io. Mi sono avvicinato mentre Moravia mi guardava con una faccia terribile... Per essere considerato un grande ha dovuto fare film con Fellini, Monicelli, Olmi e Lina Wertmüller. Ma io penso che sarò ricordato per Fantozzi»
• «Fantozzi in realtà si chiama Bianchi. Al tempo in cui l’ho conosciuto, il suo ufficio era collocato in un sottoscala, questo Bianchi
aveva i baffi. Era un uomo che, penso, abbia fatto studi profondissimi per
riuscire a non pensare a niente per sei ore filate. Sono stato insieme con lui
per parecchi anni. Parlottavamo ma non sono riuscito mai a conoscerlo bene. Il
mio primo incontro con lui si è svolto in una stanzetta, in questo sottoscala che gli avevano assegnato come
ufficio. Quel giorno gli ho dato la mano dicendogli: “Permette?”. Lui si è alzato. Gli ho chiesto: “Ma perché si alza?”. E Bianchi-Fantozzi: “Credevo che volesse ballare”»
• «Fracchia era uno che lavorava con me all’Italsider. Si chiamava in realtà Verdina. Un uomo fisicamente mostruoso. Non brutto. Un tipo amaro. Calosce,
ombrello. Uno che si incavolava da matti. Che non sopportava le ingiustizie.
Urlava, imprecava. Diceva: “Qui bisogna parlare una volta per tutte. Bisogna andare dal capo, dirgli in
faccia quello che merita”. E noi: “Allora vai su a dirglielo”. Fracchia non esitava: “Ma certo che vado”. E gli crollava tutto addosso, Il nostro capo era un procuratore. Neppure un
direttore. Cercava persino di aiutare il Fracchia mettendolo a suo agio quando
entrava nel suo ufficio. Ma Fracchia veniva sempre colpito da “paralisi autocritica”. Naturalmente, quando Fracchia tornava da noi, nessuno gli diceva “Come è andata?”. Fracchia e Fantozzi sono due impiegati limite. Fracchia è uno che si incavola, mentre Fantozzi è uno che prende la vita come viene. Insomma sono i due aspetti della mia persona»
• Nel 92 ha ricevuto il Leone d’Oro alla carriera: «Poi lo vinsero anche Sordi e Gassman. Ma io fui una rottura assoluta. Era la
prima volta che si premiava un comico. Questo lo disse Gillo Pontecorvo» • «Quando ho vinto il Leone d’oro sono andato alle sette del mattino con mia moglie in gondola al ponte di
Rialto, siamo scesi e abbiamo bevuto due bicchierate di vino bianco, e le ho
detto: questo forse è il momento più felice della mia vita. Il successo è la cosa che appaga di più. Quelli che non ce la fanno diventano violenti: quelli della Curva che vanno
armati fino ai denti, della partita non gliene frega niente. La tv li inquadra
e loro sono ancora più violenti purché si parli di loro»
• «Dopo aver vinto il Leone d’oro grazie a Fellini ho cominciato a comportarmi in maniera diversa con i
colleghi, fingendo di non vederli. Entravo in un ristorante e salutavo cani e
porci ma non il tal attore. Io mi sentivo come Gary Cooper nei Lancieri del Bengala. Esco con una, un vero mostro, e mentre parlo quella m’interrompe: lei è proprio buffo. Buffo, cazzo, Gary Cooper buffo? Allora, purtroppo, io che
nascevo lanciere del Bengala mi sono rassegnato a far ridere» • «Io sono inappagato: mi piacerebbe aver vinto l’Oscar al posto di Benigni, vorrei avere i soldi di Berlusconi, essere fidanzato
con le veline. Alle veline non gliene frega un cazzo dei vecchi di successo,
vogliono i centravanti. Vorrei essere un centravanti» • «Ho una biografia particolare. Sono gemello. Era molto coraggioso mio fratello:
era lui che contestava. E io il più delle volte mi accodavo. Ma di mia iniziativa, basandomi soltanto su un gesto
personale, non ho mai detto platealmente di no» (da un’intervista di Luigi Vaccari) • «I miei genitori non volevano che facessi il chierichetto, soprattutto mia madre.
Diceva che mi avrebbero plagiato. Avevamo dieci anni io e mio fratello.
Facevamo i chierichetti di nascosto. Era il 43, stavamo a nervi, zona
Capolungo, il parroco era padre Riccardo, un inglese che si chiamava Brooks. Un
missionario che non vedeva l’ora di ripartire. La guerra l’aveva intrappolato. Mio fratello Piero, che poi è diventato il preside della Normale di Pisa, scampanellava fuori tempo, non
riusciva a memorizzare il rituale. Padre Riccardo ci strattonava. Piero una
volta che era nel pallone più completo, per l’emozione è svenuto, anche perché si andava digiuni per far la comunione. Io volevo soccorrerlo, ma padre
Riccardo fece un gesto feroce, come dire non perdiamo tempo si continua. Io lo
lasciai per terra. Negli anni seguenti padre Riccardo riuscì a partire per la Cina. Arrivò a Canton il giorno dell’ingresso delle truppe rivoluzionarie cinesi. Non si è avuta più notizia di lui»
• «Fare lo studente era un lavoro, un mestiere, una meraviglia assoluta. Non eri
sotto padrone, ma un uomo libero. Potevi stabilire il piano di studi e c’erano le vacanze» • «Mio padre voleva che facessi l’ingegnere. Quando ha espresso il desiderio che mio fratello e io facessimo
Matematica, ci siamo iscritti a Matematica. Mio fratello è diventato un autorevole professore. Io dopo un anno ho cambiato: sono andato a
finire a Legge. Poi ho trovato lavoro a bordo delle navi... Ma non è che abbia detto no a mio padre: sono scappato. è un aspetto non tanto nobile del mio carattere non saper dire no. è una malattia e ne ho sofferto a lungo»
• Sulle navi da crociera «non ero disposto a far divertire gli altri. Volevo divertirmi io, ma non mi
riusciva e comunicavo la mia insoddisfazione ai passeggeri. Fortunatamente ogni
tanto ne individuavo qualcuno che aveva lo spirito dell’animatore, lo raccattavo e mi salvavo. Le crociere si facevano d’estate nel Mediterraneo e d’inverno ai Caraibi. Ho passato sulle navi cinque anni. E ho avuto compagni
straordinari: Fabrizio De André lo era di giochi, di tutto...»
• «Avevo trovato un posto in una società consorella del Gruppo Iri e, eh, beh, d’estate quando mi hanno richiamato a bordo mi sono fintamente e biecamente
ammalato, e sono andato a fare una crociera di 15 giorni. Son tornato
abbronzato in maniera ripugnante, ma fortunatamente non mi hanno ucciso. Più che una disubbidienza è stata una truffa oscena nei riguardi del datore di lavoro: che poi era lo
Stato. Ho lasciato la società, perché avevo trovato un lavoro migliore: fare teatro-cabaret a Roma. Sono andato a
chiedere un’aspettativa e m’han detto di no, loro, e io ho detto: “Va bè, me ne frego”. E mi sono autolicenziato, perdendo il 50 per cento della liquidazione»
• «Non ho fatto Il portaborse di Daniele Lucchetti, con Nanni Moretti e Silvio Orlando: mi sarebbe piaciuto
molto, ma in quel momento avevo una bega con il produttore. Non ho fatto La carne di Marco Ferreri, che era un grande amico» • «Se dovessi ripercorrere tutto il percorso che ho fatto, scarterei il 60-70 per
cento... Non andrei in certi posti. Frequenterei meno certe persone. Mi farei
vedere poco. Non uscirei tanto la sera... Farei di più certe vacanze meravigliose in Corsica, dove, quando posso, vivo sulla barca...» • è sposato con Maura Albites (due figli) che conosce dal 54 e che seguì quando lei se ne andò a lavorare a Londra. Lì fece il guardarobiere in un night, poi l’agricoltore a Bedford in un campo di patate. Di quel periodo Maura ricorda solo
una sciarpa, «l’inizio del nostro amore»: «Aveva una sciarpa al collo che io gli portai via alla stazione di Charing Cross.
Quando gliela rimisi di slancio, agganciai dietro di lui anche un inglese di
passaggio. Non ce ne siamo accorti, all’inizio. Dopo un po’ sentiamo una voce: “Sorry, sto perdendo il treno”»
• Tifa per la Sampdoria.