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 2011  luglio 06 Mercoledì calendario

VALENTINO

(Valentino Garavani) Voghera (Pavia) 11 maggio 1932. Stilista • «Adorato dalle principesse e dalle giovani dame di sangue blu, coccolato dalle
dive hollywoodiane di stampo yankee, idolatrato dalle signore che “almeno una volta nella vita sognano di possedere un suo abito”. E ancora, amato dalle modelle con velleità di reginette del bon ton, molto chiacchierato negli ambienti della finanza
nostrana e rilanciato dalle righe elogiative dei giornali internazionali.
Sfavillante carriera, costellata di grandeur e riconoscimenti, non ultimo l’American fashion Award, dato al Lincoln center dal Council of designers of
America» (Antonella Matarrese)
• «Quando ho iniziato a lavorare, a Parigi, i miei concorrenti erano due ragazzini
sconosciuti come me: Yves Saint-Laurent e Karl Lagerfeld. Anche loro, come me,
uscivano dalla scuola della Chambre syndicale de la couture. Io venni mandato a
fare pratica da Jacques Dessès, Saint-Laurent da monsieur Dior e Lagerfeld da Balmain. Dopo l’apprendistato tutti e tre ci siamo messi in proprio» (da un’intervista di Jacaranda Falck) • «Torre Menapace è un sobborgo periferico dove Voghera si stempera a settentrione nella campagna
piatta dei campi divisi da filari spettrali di gelsi, alberi mutilati per
fascine, che solo in estate concedono qualche rara foglia. T’amo pio bove e mite un sentimento di vigore e di pace, eccetera. Di lì vengono i Garavani. Lì c’era la cascina del nonno. Anche lui con quel nome da bambino, Valentino. Il
figlio, Mauro, sposa Teresa e si trasferisce in un caseggiato umbertino nel
centro di Voghera. Due piani, facciata giallastra vagamente neoclassica,
interno con appartamenti di ringhiera, di fronte il mercato coperto. Prima apre
una bottega da barbiere, poi passa al commercio all’ingrosso di articoli elettrici. Con questa seconda attività procura alla famiglia una certa agiatezza, una quasi ricchezza, almeno nei
parametri della provincia. Nel 25 la moglie dà alla luce Wanda. Sette anni dopo arriva Valentino. Già alle elementari, istituto De Amicis, il secondogenito Garavani disegna
distratto, sui libri di scuola, fiori e modelli di vestiti come fiori
capovolti. Studente con profitto non brillante del liceo classico Grattoni,
ruba ore ai compiti pomeridiani per frequentare un corso da figurinista a
Milano. Al ritorno, percorre a piedi la breve distanza che separa la stazione
da piazza Meardi. Si siede su una panchina e racconta agli amici. La moda è già una specie di religione. Vi si accosta con la devozione e la costanza di un
seminarista. La vocazione era stata precoce, a sei anni. “L’ultima figlia di Vittorio Emanuele III sposa il principe Luigi di Borbone Parma”. La radio di casa, in radica, pesante e massiccia come un cassettone, annuncia
il fidanzamento ufficiale. “Per la lieta circostanza”, aggiunge lo speaker, “Sua Altezza Reale indosserà un abito di lamé verde”. Lamé verde. Una formula, due parole, una scintilla che accende sogni infantili.
Sogni che nel negozio di tessuti della zia, in via Torino, si moltiplicano per
i nomi di stoffe francesi. Dentelle. Faille. Taffettà. Mousseline. Crêpe georgette. Fuori gli altri bambini giocano a pallone. Per lui le scarpe della
fantasia non hanno tacchetti, ma sono inglesi e fatte a mano. Conserva,
crescendo, l’aria un po’ infantile del paggetto. I maglioni di cachemire sono gli unici lussi di una
giovinezza senza vizi, strappati al padre con l’immancabile ed efficace intercessione materna. La stessa intercessione che gli
procura a diciotto anni il permesso di andare a Parigi. E centomila lire al
mese per viverci più che dignitosamente, comunque vada. Viene messo a bottega da Dessès. Da lui impara la costruzione tecnica, l’interpretazione della stoffa, il valore dei rapporti cromatici. Prende casa a
Saint-Germain-de-Prés. Di sera frequenta i foyer dei teatri, la danza è la sua seconda passione. Anche qui, zero improvvisazione. Studia i fondamenti
al Palais de Chaillot e debutta con successo in un balletto di Béla Bartók. In Italia canta, in un’estemporanea performance radiofonica,
La canzone di tutti, esordio senza seguito per una gola magari anche fine e intonata; ma già di poche parole. L’ambiente artistico della capitale francese lo attrae. Ivette Chauviré, celebre danzatrice, ammirata di sera, è la sua ispirazione diurna per i tagli leggiadri. Niente bohème. Detesta istintivamente tormenti e contrasti, tutto scorre liscio come seta.
Tanto che nemmeno il trucco mnemonico dei ricordi, così forte e frequente tra le persone arrivate, produce a posteriori aneddoti su
quel periodo. Casomai vanta occasioni. Jean Renoir lo nota e lo convoca sul set
di un suo film. Domani si gira. Vuole dargli una parte, un ruolo impegnativo,
anche se breve. “Domani non posso, grazie, maestro, ma è santa Caterina, patrona delle sarte”. Forse sente minacciata l’esclusività di un apprendistato preciso, pignolo, puntuale, una disciplina professionale
che ha assunto carattere devozionale. Passa a Guy Laroche. è giovane, gli permette di abbandonarsi al suo estro. Frequenta la Viscontessa de
Ribes. “Erano i tempi in cui le donne si cambiavano tre, quattro volte al giorno. Il
parrucchiere era importante come il calzolaio. Mentre la de Ribes si preparava,
io schizzavo le sue idee. Di solito indossava quei piccoli nulla neri che erano
tutto”. Gli rimane impresso il segno della semplicità cui un tocco, uno sbuffo, un fiocco, regala spettacolarità teatrale. Il lusso e la classe dei francesi. Resterà la sua cifra estetica. La donna che vuole vestire non deve passare inosservata.
In uno scampolo di vita normale incontra Giancarlo Giammetti, studente di
architettura. Toscano, solare quanto lui è lunare, di otto anni più giovane. Nasce un legame che diverrà sodalizio anche d’affari. Quando, alla fine degli anni Cinquanta, sente di avere l’arte da parte, vende i suoi cinquanta maglioni di cachemire in un’ultima puntata sulla Costa Azzurra e, neanche trentenne, si trasferisce a Roma.
Apre un atelier in via Condotti. Il padre ha messo ancora mano al portafoglio,
ma dietro il gesto che intacca la montagna di risparmi c’è l’impulso della madre. Un socio vogherese partecipa all’impresa nella miope illusione di immediati ritorni e presto si ritira. Bianco è il colore della collezione d’esordio. Prime difficoltà, e qualche servizio sui rotocalchi. Giammetti prende su di sé le mansioni organizzative e le pubbliche relazioni. In questo, il sognatore
silenzioso non ci sa fare. Gli anni Sessanta segnano l’inizio di un’ascesa costante» (Antonio Armano)
• «Sbarcato timidamente a New York, conosce Jackie Kennedy. Era un party di
beneficenza al Waldorf Astoria quando fu avvicinato da una gentile messaggera e
pregato di trasferirsi, con l’intera collezione, nell’appartamento privato della First Lady. La quale aveva ammirato a un ballo il
vestito di un’amica, che si era fatta un po’ pregare ma alla fine aveva rivelato: “è di un italiano, si chiama Valentino”. Comincia lì un’amicizia che ha quelle connotazioni sommesse, riservate, che circondano la vita
di questo stilista. Sempre in primo piano, osservato, fotografato, e sempre
silenzioso, segreto, irraggiungibile. Soltanto gli amici frequentano la sua
casa sulla via Appia, la villa a Gstaad, l’appartamento di New York. Il lavoro e quel girone infernale di fotografi,
giornalisti, modelle e art director che l’accompagna sono confinati in via Gregoriana, in un sontuoso palazzo del
Cinquecento che una volta apparteneva a Propaganda Fide e ha ospitato i
principi della Chiesa. Per istinto o per sapienza, questo singolare personaggio
ha scelto uno stile di vita che in qualche modo lo accomuna alle case regnanti
e si riassume in due regole fondamentali: mai mescolarsi con il popolo, pena la
fine di ogni mistero; mai dimostrarsi remoto e inaccessibile, pena la caduta di
ogni entusiasmo. Incoronato re per un trionfo che non conosce sconfitte
(perfino in Francia), Valentino non ha vita facile proprio in Italia» (Giusi Ferré)
• «Negli anni Settanta la concorrenza era rappresentata dai francesi. I miei miti
erano Dior e Jacques Fath. In Italia, invece, eravamo tutti più o meno allo stesso livello. C’erano Roberto Capucci e Simonetta Fabiani. Poi c’è stato il boom del prêt-à-porter italiano e sono arrivati Giorgio Armani e Gianni Versace. Infine c’è stato l’exploit di Gucci e Prada» • «Mi amano le americane. E lo dimostrano con quella schiettezza, quella sincerità che regola tutti i loro rapporti. Anch’io le adoro perché hanno riconosciuto il mio talento fin dagli esordi. La verità è che io ne vedo i difetti. Intuisco la durezza di questo capitalismo portato
alle estreme conseguenze, ma apprezzo il fascino della lotta combattuta ogni
giorno per essere i primi, i più grandi, i vincitori. Non si nascondono dietro le mezze parole e i gesti
prudenti. Creano i miti in una notte e li distruggono in un’ora di trasmissione televisiva. è questa specie di naivëte un po’ crudele che mi incanta»
• «Mi piace molto disegnare. E di solito comincio tardi, verso le 11,30 e poi vado
avanti fino alle otto o le nove di sera. Devo creare dieci collezioni all’anno. Un grande impegno. Disegno, vedo delle prove, guardo dei tessuti, ricevo
delle persone. Da quando esiste il prêt-à-porter non faccio più le prove se non eccezionalmente per alcuni attori, attrici, alcune mie amiche o
per delle giovanissime ragazze che amo vestire da sposa» (da un’intervista di Alain Elkann)
• «Io sono uno che disegna, non come tanti colleghi che non sanno neppure tenere la
matita in mano. Io disegno, disegno, disegno: le idee mi vengono così» (da un’intervista di Daniela Monti) • «Fare collezioni con molta forza e pensare sempre a quello che la gente vuole
portare davvero. I pezzi eccentrici magari affascinano, ma poi non c’è nessuno che spenda migliaia di euro per averli» • «Ammiro la fantasia di chi fa collezioni che vanno bene per allestire uno
spettacolo a teatro, ma quella roba non se la mette proprio nessuno. E non si
può, come anche tanti giovani fanno, attingere agli anni Cinquanta, Sessanta,
Settanta in continuazione: c’è chi, sugli anni Settanta, ci è campato quattro stagioni. E no, occorre dell’altro. Essere creativi vuol dire dare delle novità ma, arrivati al dunque, bisogna che i compratori alla sfilata dicano: ecco,
questo lo metto in boutique perché riuscirò a venderne dieci, perché una giacca fatta così e così si può indossare sull’abito da sera, sulle mutande, su qualsiasi cosa. è questo che le donne comprano, non vestiti che hanno bisogno delle istruzioni
per riuscire a infilarseli»
• «Il colore rosso è un colore che mi porto dietro dall’infanzia. Ha una tale vitalità e un tale fascino che amo vederlo non soltanto negli abiti, ma anche nelle
case, nei fiori, negli oggetti, nei dettagli. è il mio portafortuna. Una donna vestita di rosso non sbaglia mai: è un colore che dona, sta bene a tutte. è un colore forte ma al tempo stesso è un non colore, è neutro: come il nero, il marrone, il blu, il bianco. Non è il verde pallido, non è una tinta pastello. Dà molta energia, molto smalto. Il rosso è vita, passione, amore, è il rimedio contro la tristezza. Penso che una donna vestita di rosso,
soprattutto di sera, sia meravigliosa, è, tra la folla, la perfetta immagine dell’eroina»
• «Io credo che non sia necessario informare e dare dettagli sulla propria vita
privata. La gente ti accetta come sei, trovo che il resto non interessi. la
gente ti deve immaginare come ti vede e poi deduce quello che deve dedurre. Non
mi passerebbe mai per il cervello di fare un comunicato sulla mia vita privata.
Cosa mangi a colazione non interessa a tutto il mondo» (da un’intervista di Laura Laurenzi) • Ha una grande passione per i cani (carlini): «I miei cani non ispirano la mia moda, ma hanno comunque un gusto impeccabile. Lo
vedo tutti i giorni. Mentre lavoro e disegno nel mio atelier li trovo sempre
adagiati sui più raffinati e morbidi ritagli di cashmere. Hanno un forte senso del lusso e della
comodità» • A fine anni 90 ha venduto ad Hdp «per assicurare un futuro al nome Valentino»: «Un giorno mi fermerò anch’io, quindi dovrò trovare qualcuno che venga al mio posto. Ma per questa persona sarà più facile di quanto lo è stato per me: chi arriva a disegnare marchi famosi deve certo avere talento, ma
ha a disposizione un archivio straordinario, dove attingere di tutto»..