Il Catalogo dei viventi 2007, 6 luglio 2011
VALDUGA
Patrizia Castelfranco Veneto (Treviso) 20 maggio 1953. Poetessa. Tra i suoi libri: Medicamenta (Guanda, 82 — Premio Viareggio opera prima); Donna di dolori (Mondadori, 91), Corsia degli incurabili (Garzanti, 95), Cento quartine e altre storie d’amore (Einaudi, 97) • «“La letteratura deve avere un fondamento etico, altrimenti è solo intrattenimento. La grande letteratura deve avere una portata morale, il
che significa che deve insegnare qualcosa, deve commuovere e deve dare piacere:
ha una funzione conoscitiva, emotiva, erogena. Io credo, come Matte Blanco,
nell’emozione pensante e nel pensiero emozionato”. Matte Blanco è stato uno dei maggiori teorici postfreudiani della psicoanalisi, e Patrizia
Valduga lo considera un suo maestro, pur avendo studiato con Francesco Orlando
a Venezia. Poetessa ampiamente consacrata dalla critica, diverse traduzioni
alle spalle (da Molière, Mallarmé, Valéry, Shakespeare), Patrizia Valduga ha un rapporto di necessità con la parola poetica. E forse nel suo caso il fondamento etico ha qualcosa a
che vedere con questa necessità che l’ha portata via via a sperimentare, entro forme metriche per lo più classiche, i temi “esistenziali più roventi”: erotismo, dolore, colpa, pietà. Una “capacità di canto e di strazio”, ha scritto Luigi Baldacci. “Proust diceva che la letteratura insegna a fare l’unica vera esperienza, che è l’esperienza di noi stessi: migliora la vita interiore e i rapporti umani. Ecco,
questo è il suo fondamento morale”. Proust è una delle sue passioni di lettrice. Anzi, la passione per eccellenza, condivisa
con il compagno della sua vita, Giovanni Raboni. “Non riesco a godere di una storia, ma solo di un pensiero detto in bello stile”. Altra passione: Céline, il simbolo novecentesco di una controversa divaricazione tra biografia e
opera. “Non sono d’accordo: penso che Céline abbia voluto creare un personaggio. L’errore è quello di identificare chi dice io con l’autore. Céline è diventato purtroppo personaggio di se stesso. Per alcuni è nazista, per altri è comunista. Per me è uno dei maggiori scrittori”. Con Proust e con Beckett. “Sono i tre con cui riesco a stare per un tempo indefinito”. Perché alla fine quel che conta è lo stile: “Tutti e tre hanno uno stile perfettamente adeguato a quel che dicono: il
periodare ampio di Proust, la frase cardiaca e il ritmo frantumato di Céline, la precisione matematica e la perfezione impronunciabile di Beckett. Ecco
l’impegno della letteratura...”» (Paolo Di Stefano)
• «Non conosco i contemporanei, non mi interessano, non ne ho voglia. Il più grande narratore italiano del secondo 900 è Paolo Volponi, un uomo di altissima statura morale. Ma è stato anche senatore e sarebbe troppo facile dire che è stato un intellettuale impegnato» • «Ho avuto il privilegio di vivere per 24 anni con Raboni, da cui imparavo anche
quando stava zitto. Ho imparato che ci vuole l’orecchio, che la letteratura è piacere, i versi devono venir fuori da soli. In passato mi hanno attaccata
perché ho detto che Leopardi non è un grande poeta, mi hanno accusata di esibizionismo. In Italia non è possibile dire che Prati è il nostro maggior poeta romantico e che Leopardi è un aborto imbarazzante, che non è un poeta ma un filosofo, e che in lui non c’è un briciolo di piacere. Il piacere è mettere in successione ordinata il senso, il suono e il ritmo. Prima andavo a
letto solo con Raboni, in questo periodo vado a letto tutte le sere con Belli,
ho cominciato con Tasso, Marino...»
• «Si veste di nero da sempre. Una poetessa non può che vestire di nero, specie se esile e con una pelle color della porcellana...» (Paola Pollo) • «Ma va là. Altro che donna fatale: è una questione di praticità. Innanzitutto perché amo la monocromia e mettere insieme i colori è difficilissimo. Il nero è nero. Poi io ho sì una carnagione chiarissima ma ho pure un accenno di baffi alla tartara che
saltano fuori subito quando indosso altre tinte. Poi sono nervosissima e ho una
sudorazione terribile. Con il nero il problema è sempre risolto. E non si nota mai quando comincio a sudare come un cavallo.
Altra considerazione è che il nero non si sporca o per lo meno non si vede. Così puoi anche indossare gli stessi pantaloni per una settimana. Perché siamo sinceri, vestirsi di chiaro a Milano significa lavare e lavare e lavare.
Però, considerazioni pratiche a parte, ho tutta una mia cultura sul nero. Per
esempio: il nero più bello è quello del velluto di seta a quattro fili che si usava negli abiti degli anni
Venti e Quaranta. Ho scovato dei pezzi meravigliosi e sono la notte più nera. E poi mi piace comunque modulare la nerezza del nero: un raso nero è lucente, ha bagliori, riflessi che devi cogliere».