Il Catalogo dei viventi 2007, 6 luglio 2011
TRAPATTONI
Giovanni Cusano Milanino (Milano) 17 marzo 1939. Ex calciatore. Allenatore. Nel 2006-2007
direttore generale del Salisburgo. «Ho dei dubbi su due certezze» • Da giocatore ha vinto con il Milan due scudetti (62, 68), due coppe dei
Campioni (63, 69), una coppa Intercontinentale (69), una coppa Italia (67), una
coppa delle Coppe (68). In Nazionale 17 presenze e un gol. 8° nella classifica del Pallone d’oro 63. Da allenatore ha vinto con la Juventus sei scudetti (77, 78, 81, 82, 84,
86), una coppa dei Campioni (85), due coppe Uefa (77, 93), una coppa delle
Coppe (84), una coppa Intercontinentale (86), una Supercoppa europea (85), due
coppe Italia (79, 83); con l’Inter ha vinto uno scudetto (89) e una coppa Uefa (91), con il Bayern Monaco un
campionato tedesco (97), con il Benfica un campionato portoghese (2005). Dal
2000 al 2004 ha allenato la Nazionale: eliminata negli ottavi dei Mondiali 2002
da un golden gol della Corea del sud (e dall’arbitro Moreno), nel primo turno degli Europei 2004 per differenza reti (e per
una probabile combine tra Svezia e Danimarca). Nel 2005-2006 è stato sulla panchina dello Stoccarda (esonerato a febbraio). Ha guidato anche
Milan, Fiorentina, Cagliari
• «Quando nacque, alle 0.45 di venerdì 17 marzo 39, in via 24 maggio, a Cusano Milanino, era il quinto figlio — l’ultimo dopo Antonio, Maria, Elisabetta, Angela — di Francesco, operaio alla Gerli, e Romilde Bassani. Fu chiamato Giovanni
Luciano Giuseppe. Giovanni era il nome del nonno paterno. I suoi genitori
venivano da Barbata, un villaggio di contadini del Bergamasco, dal bel nome
longobardo, e si erano trasferiti a Cusano in cerca di lavoro» (Claudio Gregori)
• Licenza di terza media e passato da operaio in tipografia (d’estate alla chiusura delle scuole riparava anche i ferri da stiro), iniziò a dare i calci a un pallone di budella di maiale imbottito di stoffe. «A me mancava il tiro. Arrivavo là davanti sempre stanco. Avessi avuto il tiro di Bertini, sarei stato un altro
giocatore» • La carriera d’allenatore cominciò il 10 aprile 74: «San Siro, coppa Coppe: tra il Milan e la finale c’era il “tremendo” Borussia Moenchengladbach. Reduce da 5 ko consecutivi in campionato, Cesare
Maldini s’era dimesso e la panchina affidata al suo secondo, Giovanni Trapattoni, allievo
di Nereo Rocco, famoso perché in Nazionale era il mediano che aveva annullato Pelé (che onestamente quel giorno stava male). Il Milan stracciò i tedeschi (2-0) e si parlò di “mago Trap”. I rossoneri si qualificarono limitando i danni al ritorno (0-1), poi in finale
s’inchinarono al Magdeburgo. Trap aveva 35 anni. In panchina per la verità c’era già stato: 90’ da terzo per sostituire il titolare squalificato (Rocco) e il “vice” ammalato (Maldini). Peccato fosse il 20 maggio 73, la fatal Verona, giorno del
sorpasso storico della Juve. “Capii subito che eravamo cotti”, disse. Nessuno gli imputò la disfatta, anche se gli rimproverarono di aver ritardato il cambio
Turone-Rosato. Rocco lo difese. Lo stesso Rocco che, anni dopo, appreso del “sì” alla Juve, per un po’ non gli rivolgerà la parola. Offeso. Dimenticata in fretta quella parentesi, l’anno dopo il Milan fu suo per le ultime sei giornate di campionato e, appunto,
la Coppa delle Coppe. Così, quattro giorni dopo il Borussia, Trap ripetè il debutto a San Siro, ma in campionato (0-0 con il Napoli). Il presidente
Buticchi gli aveva promesso: “Se mi porta la coppa, il prossimo anno la panchina è sua”. Fu di parola: persa la finale, la panchina 74-75 fu affidata a Giagnoni e
Trapattoni tornò vice, per poi essere promosso titolare nel campionato successivo. Trap non si
trovava bene. I conflitti tra Rivera e Rocco lo costringevano a scelte non
sempre sue. E lui aveva voglia d’indipendenza. Del suo carattere s’era accorto Giampiero Boniperti. Che fissò con lui un appuntamento in un motel tra Torino e Milano e lo convinse. Arrivato
alla Juve nell’estate 76, si presentò subito con un indimenticabile “sarò breve e circonciso”. Aveva dimenticato di aggiungere “vincente”. Dieci anni di bianconero lo consacrarono allenatore più titolato d’Italia, irraggiungibile dal primo trofeo europeo juventino (la coppa Uefa) e
dallo scudetto dei 51 punti, tutto nella stagione del debutto. Non ci credevano
in troppi: Trap in fondo s’era presentato con due acquisti non più giovani (Boninsegna e Benetti) al posto di Anastasi e Capello, rinunciando al
regista. Inventò invece una Juve atletica e spettacolare: trasformò Tardelli in centrocampista, regalò all’Italia di Bearzot nove titolari e rispose pazientemente alle telefonate di prima
mattina dell’Avvocato che non gli aveva regalato il decimo azzurro (Paolo Rossi) “perché siamo in cassa integrazione”. Agnelli non ordinava ma, se voleva qualcuno in campo, gli chiedeva: “Perché quell’ala sinistra non gioca mai?”. Al primo ciclo seguì il secondo, arricchito con Platini e Boniek e l’Intercontinentale. Con la rabbia per la finale di coppa dei Campioni persa con l’Amburgo: “Quel giorno ho scoperto la zona: quando ho visto uno dei suoi profeti, Happel,
mettere Rolff fisso su Platini”. E con il dolore per l’Heysel. Dopo dieci anni, però, Trap non sopportava più di essere identificato con la Juve. Andò via. Destinazione: l’Inter di Ernesto Pellegrini. Stagione 86-87. Firmò per cinque anni, durante i quali soffrì per l’ascesa e i successi — sulla sponda milanista — di Sacchi, simbolo di un calcio opposto al suo. Il Milan vinse la sfida a
distanza, ma Trap realizzò un’altra stagione-record (58 punti nell’88-89) e conquistò la coppa Uefa. Non fu facile perché i “senatori” si opposero: un giorno Altobelli, sostituito con Ciocci, gli lanciò in faccia la fascia di capitano. Trap, che sentiva che anni dopo da un altro
centravanti interista gli sarebbe arrivata una bottiglia di plastica, fece
finta di niente. Il nuovo simbolo fu Matthäus, col quale improvvisava scenette in partita. “Mister, all’attacke”, gridava il tedesco. E lui rispondeva: “Stai lì che è meglio”. Con Brehme e Klinsmann nacque il mito dei panzer. Dopo Borussia e Amburgo, il
filo rosso con i tedeschi non era ancora finito qui
• Chiuso con l’Inter, fu inevitabile il ritorno a Torino dov’era fallito l’esperimento Maifredi. “Restaurazione”, scrissero. Ma non fu come la prima volta. Dal 91-94 conquistò soltanto la coppa Uefa contro il Borussia Dortmund. Visse male quel periodo. “Non sei più giudicato su basi tecniche. Sono le esigenze dello show a decretare il
successo. Il Milan è il prodotto di un’abile propaganda”. Fece in tempo a lanciare Del Piero. Juve e Boniperti si lasciarono e lui
accettò l’offerta del Bayern, primo italiano della storia
• 1994-95: da Giuan a Ciofanni. Eliminato in coppa di Germania dai dilettanti,
perse Bundesliga e Champions e tornò in Italia per rimettersi in discussione. Al Cagliari. Scese nelle miniere del
Sulcis per schierarsi con i minatori, amò (ricambiato) questa terra, ma il 13 febbraio 96, dopo l’1-4 con la “sua” Juve, per la prima volta disse “mi dimetto”. Dopo essere stato, per la prima volta, ultimo in un campionato, lui che su 689
panchine italiane è stato al primo posto 217 volte. Beckenbauer lo richiamò a Monaco. Imparò la lingua “anche se — disse — ogni tanto ho problemi col futuro passivo”, e in tedesco imparò a vincere: scudetto, coppa di Germania, coppa di Lega. Erano le SturmTrappen
anticipate sulla Gazzetta dalla vignetta del compianto Bonvi che disegnò un passo dell’oca al ritmo di ein, zwei, trap!. Quasi anticipando il Trap-rap, sfogo dedicato
a tutti gli Strunz dello spogliatoio che l’avevano fatto incazzare. La Germania applaudì. Conquistata
• Instancabile animale da panchina, lasciato il Bayern si trasferì in quella Fiorentina che anni prima l’aveva odiato perché juventino. Con i gol di Batistuta sfiorò lo scudetto nel 99 ed espugnò Wembley contro l’Arsenal in Champions. Chiuse nel 2000 e si sarebbe dedicato di più ai nipotini se all’Europeo Trezeguet non avesse segnato il golden gol e Zoff non si fosse dimesso
dopo le critiche di Berlusconi. Cominciò l’epoca della Nazionale» (Fabio Licari)
• Che non fu una grande epoca: brutta figura nel Mondiale giocato in
Corea-Giappone (2002), pessima nell’Europeo portoghese (2004). Di quell’esperienza restano nella memoria soprattutto i riti scaramantici dell’acqua santa versata sul terreno di gioco per propiziarsi il Signore. E due
convocazioni, reclamate a gran voce dal popolo e negate: quella di Baggio nel
2002 e quella di Gilardino nel 2004 • «Come Giulio Andreotti, non ama le scelte estreme. è difensivista quando serve, ed è offensivista quando serve. Ma non è mai soltanto, radicalmente, difensivista. E non è mai, radicalmente, offensivista […] Come nella politica della Prima Repubblica, il calcio di Trapattoni
democristianamente media e trattiene, non ama le contrapposizioni accentuate,
le durezze e le spigolosità dell’urto frontale» (Pierlugi Battista) • Associa le parole con tale libertà da essere diventato un caso letterario: «Questo qui è domenicalmente abbastanza appurabile», «Caratterialmente abbiamo dimostrato che alla base c’è anche il carattere», «C’è maggior carne al fuoco al nostro arco, anche se l’arco lancia le frecce», «Non è più come prima: una volta i giocatori della Lituania giocavano le renne ai piedi», «I coreani? Corrono come ciclisti cinesi», «La palla non è sempre tonda, a volte c’è dentro il coniglio», ecc.