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 2011  luglio 06 Mercoledì calendario

SOLERI

Ferruccio Firenze 6 novembre 1929. Attore • «È Arlecchino. Lo È dal 63, quando succedette a Marcello Moretti nell’Arlecchino servitore di due padroni di Strehler. Non che prima non avesse cercato di far altro. Anzi. Voleva fare l’attore-attore. Allievo di Orazio Costa all’Accademia, aveva recitato nella Favola del figlio cambiato di Pirandello e altri autori si erano offerti al suo ardore di neofita: Lorca,
Marivaux, Goldoni. Ma che tipo d’attore sarebbe potuto diventare? Per doti fisiche, corporatura, voce, si sarebbe
detto un caratterista; oppure, per stare alla distinzione dei ruoli del vecchio
teatro, un “secondo carattere”. Difficile andare oltre, difficile evadere dalle parti in cui la ruga s’innesta al sorriso. Soleri È stato “salvato” da Strehler. Ha detto: “Se non fosse stato per lui non so che cosa avrei fatto”. Ed eccolo perciò nel costume versicolore di Arlecchino, eccolo nel guizzo acrobatico di un
personaggio dominato da fame e astuzia, da paura e poesia. Ha imparato i
trucchi e i segreti del mestiere da Moretti, che si disegnava la maschera sulla
faccia, finché Amleto Sartori non riuscì a fargliene una di cuoio che valeva come una seconda pelle, poiché era morbida, non lo faceva sanguinare, non lo faceva sudare, respirava con lui.
Soleri ha ereditato anche la maschera. E con questo simbolo sacrale del suo
lavoro ha cominciato a fare Arlecchino: una volta, due, 1200 volte: al Piccolo
Teatro, ma anche in giro per il mondo, varcando ogni confine, spingendosi fino
in Cina. Soleri ha cominciato a viaggiare nella memoria delle generazioni come
una farfalla fragorosa, un lampo a toppe e losanghe, un coagulo di fantasia
popolare che si scioglieva in una risata liberatrice, lunga come i secoli da
cui discende. Col tempo, l’esaltazione ha cominciato a mescolarsi con la stanchezza e oggi Soleri fa ciò che Moretti aveva fatto con lui: ha cominciato a istruire un giovane, ha
trovato il suo successore. Si chiama Enrico Bonavera. Però per noi, per tutti noi, Arlecchino È ancora lui. Lo È stato anche per Strehler, che tuttavia, a volte, cercava di fargli fare anche
altro. Per esempio, quando preparava
I giganti della montagna di Pirandello voleva affidargli il personaggio del nano Qua Qua. “Va bene che sono piccolo, ma proprio nano!” gli rispose Soleri. “Ho capito, non lo vuoi fare”. “Non ho detto questo, vorrei capire perché”. Litigarono. Si lasciarono. Arlecchino sembrava aver perduto la sua anima. Ma
poi, nel 97, quando Strehler volle riprendere lo spettacolo, gli telefonò. Sembrava non fosse successo niente. Arlecchino era sempre lui. Se non È una condanna beata, che altro può essere?» (Osvaldo Guerrieri)
• «Quando ho debuttato ero ancora studente all’Accademia. Era una particina, dicevo una battuta o poco più. Era una commedia contemporanea, Le donne dell’uomo di Gennaro Pistilli, che non ha avuto molte riprese; ma la compagnia era buona,
stavo con Paola Borboni, con Giancarlo Sbragia, la regia era di Orazio Costa.
Una volta, credo al terzo anno, Orazio Costa mi chiamò “Arlecchino” e poco dopo mi diede quella parte in un saggio che facemmo. Io protestai, gli
dissi che ero toscano, non sapevo il dialetto veneziano e non conoscevo la
maschera. Lui mi disse di imparare il dialetto da Gastone Moschin, che era
allora mio compagno d’Accademia e poi mi assicurò che su Arlecchino sarebbe venuto ad aiutarmi Marcello Moretti, il primo
Arlecchino di Strehler, che aveva fatto un lavoro meraviglioso. Moretti fu
bloccato a Milano dalle prove del Piccolo, e arrivò solo alla generale. Io lo avvicinai e gli chiesi come gli sembravo. Lui mi
disse che il mio Arlecchino era assai diverso dal suo, ma non vedeva errori da
correggere. Fui deluso, pensai che gli ero sembrato tanto sbagliato da non
voler perdere tempo con me. E invece no, ne parlò a Strehler che dopo un po’ mi chiamò al Piccolo e finii per affiancarlo. La prima volta fu nel 61, in una tournée in America, perché le regole imponevano che ci fossero i sostituti perché recitavamo senza soste. Poi nel 63 Moretti morì, e io dovetti prendere il suo posto. Avevo un po’ paura. Chiesi anche a Strehler di cambiare, di non essere confinato in quella
parte. E lui mi disse che volentieri mi avrebbe fatto lavorare altrove, quando
non c’era da replicare il
Servitore di due padroni. Di fatto, dato che lo spettacolo si replicava quasi a ogni stagione, le
possibilità erano poche. Ma ho capito che noi attori dobbiamo lavorare per il teatro e per
il pubblico e dato che ho sempre avuto i riconoscimenti che potevo desiderare,
sono stato felice di continuare» (da un’intervista di Ugo Volli).