Il Catalogo dei viventi 2007, 6 luglio 2011
SOFRI Adriano Trieste 1 agosto 1942. Scrittore. Insegnante. Leader politico. Detenuto a Pisa come mandante dell’omicidio Calabresi (17 maggio 1972)
SOFRI Adriano Trieste 1 agosto 1942. Scrittore. Insegnante. Leader politico. Detenuto a Pisa come mandante dell’omicidio Calabresi (17 maggio 1972). Pena sospesa per ragioni di salute. È stato arrestato, processato e condannato con sentenza definitiva a 22 anni di carcere in seguito alla confessione del pentito Leonardo Marino, già operaio Fiat, militante di Lotta continua, rapinatore per conto del partito. PRIMA Figlio di una triestina e di un militare meridionale. Studi alla Normale di Pisa. Nel marzo 63, Togliatti viene a Pisa a raccontare agli studenti il suo rientro in Italia e la svolta di Salerno. Dice: «Il generale MacFarlane si meravigliò con me che il Pci non volesse fare la rivoluzione». Sofri dal fondo della sala: «Ci voleva l’ingenuità d’un generale americano per pensare che un partito che si proclamava comunista volesse il comunismo». Togliatti: «Devi ancora crescere. Provaci tu, a fare la rivoluzione». Sofri, sempre dal fondo: «Ci proverò, ci proverò» • Nella primavera del 69 partono i primi scioperi spontanei alla Fiat. Il 9 aprile a Battipaglia la polizia aveva sparato sugli operai che protestavano per la chiusura del tabacchificio: due morti. L’11 aprile i sindacati indicono tre ore di sciopero, ma per quelli di Mirafiori non basta. Il 13 si fermano le ausiliarie, il 20 seguono i carrellisti, il 21 i gruisti, il 22 le grandi presse. Il 27 maggio il primo corteo interno percorre la Fiat, i capireparto sono insultati, derisi, costretti a sfilare. I ribelli di mezza Italia si precipitano a Torino. Tra loro, Sofri • Lotta continua come movimento politico nasce nell’autunno del 69 a Torino. Il primo numero del giornale esce il 1 novembre, settimanale, direttore responsabile Piergiorgio Bellocchio (poi Pio Baldelli, Pasolini, Adele Cambria, Pannella e soprattutto Giampiero Mighini che non concorda in nulla con quelli di Lc, ma vuole che il giornale continui a uscire: subirà per questo 26 processi e tre condanne). I costi erano stati coperti dalla vendita di un quadro regalato da Giovanni Pirelli (in uno degli articoli si prometteva, tra l’altro, di “sgonfiare” suo fratello Leopoldo, fabbricante di pneumatici). Fanno parte del movimento persone divenute poi illustri: Gad Lerner, Roberto Briglia (capo del servizio d’ordine milanese), Paolo Zaccagnini, Carlo Panella, Enrico Deaglio, Guido Viale, Marco Boato, Mauro Rostagno (poi assassinato), Luigi Manconi, Erri De Luca (capo del servizio d’ordine romano). Sofri ne diventa subito il capo indiscusso • Enrico Galmozzi, militante di Lc, poi tra i fondatori di Prima Linea: «Alla Breda i cortei interni erano talmente violenti che dovevamo intervenire io e Arialdo Lintrami, due terroristi, a strappare i capi dalle mani degli operai» (Aldo Cazzullo) • «Sofri aveva meno di trent’anni, ma mi sembrava un poco più anziano, come un ragazzo che si truccasse da vecchio. Piccolo, smilzo, lo sguardo febbrile, una carica inesauribile di intelligenza gelida che lo rendeva sideralmente lontano dagli altri capi di Lotta continua. Lo trovavo arrogante, gonfio di disprezzo per chi la pensava diverso, spesso pervaso da un odio politico così assoluto da farmi paura. Al tempo stesso, mi appariva tanto doppio e triplo che il mio giudizio su di lui risultava difficile da mettere a fuoco sino in fondo. E tutto si complicava alla luce di quegli occhi freddi o inespressivi, la spia di pensieri quasi tutti cattivi. Attorno a lui ribolliva il magma di Lotta continua, un piccolo mondo abitato da ragazzi e ragazze spesso del tutto speciali. Dei primi della classe che, per furore politico e spirito di fazione, si erano rinchiusi in un mondo irreale nel quale progettavano costruzioni fantastiche che, alla fine, li avrebbero travolti. Ma tutti erano comprimari che pesavano poco al confronto di Sofri. Lui era il monarca assoluto del reame di Lc. E anche un giudice inappellabile. Me ne resi conto di persona per un microscopico incidente che mi capitò nell’estate del 1971. Lotta continua aveva deciso di riunirsi a convegno in una città rischiosa per l’estremismo di sinistra, la placida, compatta e ostile Bologna. “Vai a vedere e racconta quel che succede” mi ordinò Alberto Ronchey, direttore della Stampa. Obbedii senza entusiasmo. Così, quel sabato 24 luglio entrai presto al Palasport con il mio quaderno e una cartocciata di pesche comprate a un banchetto politico che diffondeva a tutto volume Il cuore È uno zingaro cantato da Nicola Di Bari. Mi vide subito un dirigente che conoscevo, Franco Bolis, di Pavia, da poco coordinatore nazionale di Lc con Giorgio Pietrostefani, allora per niente famoso. Dal palco, Bolis mi chiese: “Hai pagato?”. Gli risposi di no, che non avevo versato la tassa prevista per la stampa borghese, ma in compenso mi ero comprato tanta della loro carta stampata: opuscoli, giornali, manifesti, cartoline. Bolis sembrava incline ad accontentarsi dei miei acquisti, pesche comprese. Ma alle sue spalle comparve un robustone per niente cordiale. Ringhiò: “Quella roba non conta. Paga. Devi pagare. Fatelo pagare. Almeno 50 o 100 mila lire” (un quotidiano, allora, costava 90 lire). “Non credo che pagherò” annunciai, piccato. Cominciò una contesa verbale che si trascinò per un pezzo, sino a quando si affacciò dal palco Sofri. Mi guardò ed emise la sentenza su di me: “Io mi sono già espresso su questo qui”. Non ci fu Cassazione né legittimo sospetto a salvarmi. Sofri aveva deciso e dovevo alzare i tacchi. Così, venni accompagnato alla porta con ruvida cortesia da un giovanotto in camicia verde e rettangolo rosso» (Giampaolo Pansa) • Il movimento, per finanziarsi, ricorre senza esitazione alle rapine (attività in cui si distingue anche Leonardo Marino). Molto presto, al suo interno, si forma una struttura parallela che teorizza, in contrasto con gli altri (tra cui Sofri), la violenza come pratica politica. IL DELITTO Il 12 dicembre 1969 sconosciuti piazzano bombe nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura di piazza Fontana. Le esplosioni provocano 16 morti e 88 feriti. Nell’ambito delle indagini, viene convocato in questura anche l’anarchico Pino Pinelli, ferroviere, capo-smistamento dello scalo Garibaldi. Il commissario Luigi Calabresi lo va a prelevare al circolo di via Scaldasole. Non c’È bisogno neanche di farlo salire in macchina: la 850 blu della polizia sta davanti e Pinelli segue dietro, a bordo del suo motorino Benelli, fino a via Fatebenefratelli. I due si conoscevano e anche abbastanza bene: a Natale, Calabresi aveva regalato a Pinelli il libro Mille milioni di uomini di Enrico Emanuelli (Mondadori, 1957) e ne aveva ricevuto in cambio l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters (Einaudi: la prima edizione italiana dell’antologia È del 1943). Pinelli venne interrogato per tre giorni dai poliziotti Panessa, Caracurta, Mainardi, Mucilli. Non c’erano difensori e l’interrogatorio era evidentemente illegale. La notte del terzo giorno, quella tra il 15 e il 16 dicembre, Pinelli volò dal balcone al quarto piano della questura. È ormai accertato che il commissario Calabresi non si trovava nella stanza. Tuttavia Lotta continua lo indicò subito come l’assassino, dando inizio a una campagna d’odio ossessiva e implacabile, con pubblicazione di foto e indirizzo e un’implicita e troppe volte esplicita istigazione a «far giustizia». Calabresi querelò il giornale — per pressioni, ha raccontato la moglie, soprattutto del ministero — e durante il processo (cominciato il 14 ottobre 1971) almeno mille militanti di Lc vennero in aula a gridare e insultarlo, a lanciargli monetine, a chiamarlo assassino. Il commissario aveva 32 anni, due figli piccoli, era romano, veniva da una famiglia medio-borghese, aveva studiato al San Leone Magno, s’era laureato in Legge con una tesi sulla mafia, aveva molta passione per il cinema e il teatro e persino qualche ambizione letteraria. Secondo quello che ha raccontato la moglie Gemma Capra, era convinto che le bombe di piazza Fontana fossero state messe da manovali di sinistra diretti da un cervello di destra. La mattina del 17 maggio 1972, mentre stava uscendo di casa (Milano, via Cherubini 6) ed era sul punto di prender posto nella sua 500, era stato ucciso da un uomo che gli aveva sparato due colpi di pistola da dietro, uno alla nuca e un altro alla schiena. Il commissario era morto poco dopo all’ospedale San Carlo. Il giorno dopo il giornale Lotta continua — ormai divenuto quotidiano — fece il titolo “Ucciso il commissario Calabresi, il maggiore responsabile della morte di Pinelli” (e non “Giustizia È fatta” come si dice in genere). Sofri, nel suo editoriale intitolato “La posizione di Lc” scrisse: «L’omicidio politico non È l’arma decisiva per l’emancipazione delle masse» anche se questo «non può indurci a deplorare l’uccisione» del commissario. Questa posizione, che non approvava esplicitamente l’omicidio provocò, molte proteste da parte dei lettori • Il processo Pinelli si chiuse nel 1975. Il giudice Gerardo D’Ambrosio sentenziò che non s’era trattato di suicidio e che non s’era trattato neanche di omicidio. Secondo il giudice, l’anarchico era caduto dal balcone a causa di un «malore attivo». I PROCESSI Nel 1988, essendo ancora insoluto il caso Calabresi, il venditore di frittelle Leonardo Marino (vedi), ex militante di Lotta continua, entrò in contatto col colonnello dei carabinieri Umberto Bonaventura. Costui venne a Bocca di Magra, dove viveva Marino, e restò con lui segretamente per almeno diciassette giorni (a partire dal 2 luglio). Alla fine Marino cominciò a deporre ufficialmente (19 luglio 1988). Si autodenunciava e indicava in Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani i mandanti dell’omicidio. Sofri gli avrebbe detto di procedere, alla fine di un comizio che si era svolto a Pisa il 13 maggio 1972. Pietrostefani sarebbe stato presente e consenziente e avrebbe poi organizzato l’azione. Marino diceva di aver accompagnato Ovidio Bompressi in via Cherubini con una 125 blu e che Bompressi aveva materialmente fatto fuoco sul commissario • «Fa molto caldo, e le immagini sono a colori, quando il 28 luglio del 1988 arrestano Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani e Ovidio Bompressi. Sono passati 16 anni dall’omicidio, e 12 dallo scioglimento di Lotta continua, il gruppo di cui Sofri e Pietrostefani erano dirigenti, e Bompressi semplice militante. Era stato di Lotta continua, operaio alla Fiat Mirafiori, officina 54, anche Leonardo Marino, l’uomo che li accusa. Dice di aver guidato l’auto, dice che Bompressi sparò al commissario, e che i due dirigenti furono i mandanti. Quando li arrestano, Sofri È insegnante all’Accademia di Belle arti a Firenze e scrittore, Pietrostefani manager delle Officine Reggiane, Bompressi libraio a Massa, la sua città. Marino vende crêpes e bibite col suo furgone, a Bocca di Magra. Il 27 novembre 1989 comincia a Milano il processo di primo grado, che durerà cinque mesi. Nell’aula, tutti i giorni per quei mesi, si incroceranno gli imputati e le vittime, i figli di Sofri e quelli di Calabresi. Il presidente È Manlio Minale, l’attuale procuratore della Repubblica. Sofri si impegna in una autodifesa non politica, tutta sui fatti, e con lui anche Pietrostefani e Bompressi. Il racconto di Marino contraddice quello dei testimoni oculari (avevano visto una donna al volante, e una meccanica diversa del fatto), ed È infarcito di sbagli: sul colore dell’auto, sull’itinerario di fuga. Nel corso degli interrogatori, condotti con mano ferma da Minale, viene fuori che Marino ha mentito su come e quando entrò in contatto coi carabinieri. Per 17 giorni risulta che venne sentito, in colloqui notturni, dal colonnello Bonaventura, uno specialista dell’antiterrorismo. Anche le accuse di Marino ai tre ex-compagni sono traballanti. Dice che Pietrostefani era presente a Pisa il 12 maggio 72, quando gli venne confermata la decisione di uccidere Calabresi, ma poi ritratta quando risulta senza dubbio che Pietrostefani era altrove. Non ricorda che il colloquio con Sofri, dopo un comizio, avvenne dopo un acquazzone. Nel corso degli anni Marino ha fatto anche il rapinatore, si È iscritto al Pci, ha raccontato dell’omicidio Calabresi a un ex-senatore del partito e al parroco. Sua moglie Antonia Bistolfi, cartomante, anche lei accennava a oscure minacce e fatti lontani parlando con un avvocato. Ognuno, dicono, all’insaputa dell’altro. Quando la posizione di Marino come accusatore sembra essere pregiudicata, il processo prende tutt’altra piega. I testimoni oculari e quelli della difesa vengono liquidati piuttosto sbrigativamente, e il 2 maggio 90 arriva la sentenza: 22 anni di condanna per Sofri, Bompressi e Pietrostefani, 11 anni a Marino. Sofri, come aveva annunciato, non impugna la sentenza. Ma il 15 maggio 91 comincia il processo d’appello, e anche lui È giudicato con gli altri. Si fanno nuove perizie balistiche. Molte prove sono state distrutte, compresa la Fiat 125 usata dagli assassini ( la polizia si giustificò per il fatto che aveva distrutto l’auto spiegando che non aveva pagato il bollo — ndr). Nel luglio, le condanne sono confermate. Un anno dopo, Sofri fa uno sciopero della fame, perché il giudizio in Cassazione È stato spostato dalla prima sezione, quella di Corrado Carnevale considerato un “ammazzasentenze”, alla sesta. Il presidente della Cassazione lo affida alle sezioni unite, come avviene assai raramente per i processi più delicati. Il 23 ottobre del 92 le sezioni unite annullano la sentenza d’appello, spiegando che la chiamata in correità di Marino non ha sufficienti riscontri. Un nuovo processo d’appello si fa ancora a Milano, e il 21 dicembre tutti gli imputati sono assolti. Anche Marino, che non viene creduto nemmeno nella sua autoaccusa. Le motivazioni della sentenza, depositate nel maggio 94, sono sorprendenti. È quella che molti tecnici chiamano “sentenza suicida”: centinaia di pagine sostengono la credibilità di Marino, e poi assolvono. Sembra costruita per essere demolita in Cassazione, e così avviene, proprio per le motivazioni incongruenti. Alla fine del 95, molto rapidamente e senza più grande attenzione da parte dell’opinione pubblica, un altro processo d’appello condanna gli imputati. Nel gennaio 97 la Cassazione conferma. Sofri viene arrestato e rinchiuso nel carcere di Pisa. Bompressi si costituisce. Pietrostefani si consegna pochi giorni dopo, tornando da Parigi. Nell’agosto del 99 la Corte d’appello di Venezia accoglie la richiesta di revisione del processo. Ma pochi mesi dopo il processo di revisione si conclude con una nuova conferma delle condanne, ribadita il 5 ottobre del 2000 dalla Cassazione. È l’ultimo atto di una vicenda giudiziaria lunga 12 anni, e ne sono passati 28 dalla morte di Luigi Calabresi. La memoria s’È ormai persa per strada. Salvo che per gli imputati e per le vittime. Sofri e Bompressi malconci in salute, Pietrostefani latitante, riparato a Parigi» (Fabrizio Ravelli). LA GRAZIA Il presidente Ciampi sembrava incline a concedergli la grazia con atto unilaterale (Sofri non l’ha mai chiesta e non intende chiederla), ma il ministro della Giustizia Castelli glielo ha impedito facendo sapere che non l’avrebbe controfirmata (sugli aspetti anche giuridici della questione che ha dato luogo a un conflitto istituzionale finito davanti alla Corte costituzionale, vedi BOMPRESSI Ovidio). Anche il presidente Napolitano sembra incline alla grazia. Il ministro della Giustizia Mastella, che dopo la sentenza della Consulta non potrebbe più opporsi, ha fatto sapere che sulla questione non ci sono comunque da parte sua pregiudizi politici. DAL CARCERE «Non farò bilanci di un anno in carcere. Un anno in carcere non vale niente. Non ho mai apprezzato tanto come ora un antico pensiero di mia madre: gli anni volano, ci sono certi pomeriggi che non passano mai. Quest’anno È volato. Non so se ce la farò a superare il prossimo pomeriggio» (Sofri dopo il primo anno di carcere) • «La misura della condanna che mi sono guadagnato - 22 anni, ridotti da appositi computisti a 19 anni, 9 mesi e 19 gioni - È per me priva di qualunque senso reale. È una cifra a mezzo fra certi numeri astronomici inconcepibili e una battuta di Totò» • «La vera forza politica di Lotta continua fu nel costituirsi come palestra di mimetismo. L’idea di allora, del 1968 e del 1969, era di uscire dai propri panni, l’idea di una grande rappresentazione teatrale, una grande incarnazione di altre parti, che gli studenti non fossero più studenti, che i figli di papà, che gli operai non fossero più operai, e che le figlie di papà si potessero sposare con gli operai. Come diceva quel brutto inno che si cantava: “Siamo operai, pastori sardi, immigrati turchi...”. Questo straordinario mimetismo sociale È diventato strada facendo il peggior vizio, la perdità dell’identità, una specie di mestieraccio che ti faceva mandare uno ad Augusta e fare il lavoro di operaio, e dopo due ore già si comportava come un operaio di Augusta e spiegava a un operaio di Augusta come si doveva fare l’operaio ad Augusta. La cosa che a un certo punto determinò la vera crisi di tutto il movimento era la tristezza delle persone, il senso di un fardello, di un peso addosso, l’idea che tutto questo avesse in qualche modo istigato la strage di piazza Fontana, l’idea che tutte queste lotte si svolgessero all’interno di un clima di cattiveria. Dall’altra parte c’era questa perdita di sé, che era poi anche il problema dei bravi attori. I bravi attori non hanno una vera vita, si trascinano per tutto il mattino in attesa del pomeriggio per recarsi finalmente a teatro e andare a cena. Carlo Cecchi mi ha raccontato di Eduardo che andava in camerino già nella tarda mattinata se la recita era la sera alle nove. Qualcuno una volta gli chiese: “Ma maestro, che fa qui a quest’ora?”. E lui rispose: “Guardo ’e ccartte”» • «Noi di Lotta Continua davamo pochissimo credito alle opinioni politiche di chiunque». COMMENTI «Siamo un paese strano. E abbiamo una Giustizia normale per un Paese strano. Sofri, dopo decenni di percorsi giudiziari, si vede confermata una condanna che si fonderebbe non su una prova certa, ma su una probabilità certa. Solo che la probabilità certa in italiano non esiste. Ma in Italia sì» (Giuseppe Pontiggia) • «Quella È gente che si considera al di sopra di tutto, di qualunque giudizio. Perché sono grandi intellettuali, perché frequentavano Moravia, perché facevano, e fanno parte di un circolo sostanzialmente elitario. Non È che loro non accettano la condanna, loro non accettano neanche di essere giudicati. Il solo fatto che qualcuno abbia la presunzione di esercitare un giudizio sulla loro storia, sulle loro vicende personali e umane per loro È intollerabile. A parte che ho sentito dire da persone insospettabili che Sofri non c’entra perché È intelligente. Siamo a Lombroso. Una discriminazione che più classista non si potrebbe». (Enrico Galmozzi, fondatore di Prima linea, a Massimo Fini) • «Del resto, io continuo anche a non sapere se, come e perché l’anarchico Pinelli si sarebbe spontaneamente buttato dalla finestra» (David Grieco, che nel 97 aveva proposto di farsi carico, condividendola a turno con altri, della condanna inflitta a Sofri, Bompressi e Pietrostefani) • «In un solo punto le esistenze di Calabresi, Pinelli e Sofri possono concordare: nel fallimento della giustizia. Luigi Calabresi chiedeva in tribunale la difesa della sua onorabilità. Non la ebbe. Il giudice che doveva pronunciarsi anticipò le sue convinzioni in privato e il processo si spense nella legittima suspicione. Licia Pinelli chiedeva a un tribunale come il marito fosse morto. Ne ha ricavato soltanto una sentenza che spiega il “malore attivo” dell’anarchico Pinelli. Soluzione degna di una commedia buffa, non di una sentenza, tantomeno della verità. Adriano Sofri È in carcere a Pisa. Ci resterà fino al 2019. È, alla fine di questi tragici trent’anni, il solo che, invocando per se stesso giustizia, chiede anche una verità per Luigi Calabresi» (Giuseppe D’Avanzo). LO SCRITTORE In questi anni di carcere, Sofri ha scritto molto: una breve, ma assai intensa, rubrica quotidiana sul Foglio, una collaborazione regolare con Repubblica, l’ultima pagina di Panorama. La voce che ci parla rivela un maestro di stile, di pietà e di passione civile, che si dice innocente del crimine che lo tiene in cella, ma che non respinge la responsabilità di aver detto, in quegli anni, quello che ha detto e di aver fatto quello che ha fatto. Tra i molti libri, segnaliamo la raccolta delle sue rubriche sul Foglio, Piccola posta (Sellerio, 99), un raro esempio di poesia in prosa. LA MALATTIA È stato in pericolo di vita per la rottura dell’esofago, avvenuta nella notte tra il 25 e il 26 novembre 2005. In prognosi riservata per molte settimane, gli È stata sospesa la pena per consentirgli di curarsi. A metà estate 2006 la sua firma È ricomparsa sui giornali. Deve tornare in carcere nel dicembre 2006. VITA PRIVATA Un matrimonio (finito) con Alessandra Peretti. La sua compagna È da molti anni Randi Krokaa, norvegese. Due figli, Luca e Nicola.