Il Catalogo dei viventi 2007, 6 luglio 2011
SERVILLO
Toni Afragola (Caserta) 1959. Regista. Attore. Nastro d’argento e David di Donatello per Le conseguenze dell’amore (Sorrentino, 2004) • «È un caso più unico che raro nel teatro italiano. Spirito avventuroso, scoprì la sua vocazione negli anni della nuova scena partenopea, quelli di Falso
Movimento di Martone, Annibale Ruccello e Enzo Moscato. L’avvio nelle cantine delle avanguardie gli ha impresso una spregiudicatezza di
sguardo e un’estraneità ai conformismi che ha pochi paragoni. Un segno libero che ha influito molto
sulla sua originale fisionomia d’attore. La sua interpretazione cupa e geniale nel film di Paolo Sorrentino
Le conseguenze dell’amore È stata accolta dalla critica internazionale in modo trionfale, tanto che È stato definito (lo ha fatto il massimo giornale inglese) il miglior attore
italiano. Ma al tempo stesso È un regista profondamente rispettoso della tradizione, limpido e lineare nelle
sue interpretazioni dei testi, allergico a sovrastrutture “ammodernanti”» (Leonetta Bentivoglio) • «Se fosse nato a New York, invece che a Caserta, sarebbe una star. Un
collezionista di premi teatrali e di riconoscimenti illustri. Si definisce un “efferato dilettante” ma È un vero stakanovista. Ha cominciato nelle cantine dell’avanguardia e in vent’anni È arrivato a riempire i teatri di tutta Italia grazie soltanto al passaparola.
Perché qualsiasi cosa Servillo porti in scena, un’opera lirica o Eduardo, un MoliÈre o uno sconosciuto, il pubblico È sicuro di partecipare a una festa» (Curzio Maltese)
• «Da uomo di teatro non disdegno affatto le risate del pubblico. MoliÈre era un formidabile comico eppure il Tartufo È una grande tragedia. Non penso che ci sia nulla di innovativo nel censurare la
comicità nei classici. Una commedia di Eduardo o di Goldoni, un’opera di Rossini e secondo me anche i drammi di Cechov devono farti ridere e
piangere. In Italia un teatro borghese non esiste perché non esiste una vera borghesia. Basta guardarsi intorno, vedere a che punto
siamo arrivati. Quello che esiste e anzi invade ogni fenomeno storico italiano È il suo riflesso sulla famiglia. Era così per i piccolo borghesi di Eduardo che scoprivano il benessere negli anni
Cinquanta e Sessanta come per i distretti industriali veneti che racconta
Trevisan, proiettati in pochi anni da una cultura contadina a un iper
consumismo. Con gli anni mi sono convinto che il teatro È essenzialmente espressione del pensiero attraverso la parola. Ed È conflitto, dubbio. Una certa avanguardia senza dubbi, che pretendeva di
prescindere dal testo, in realtà fuggiva dal conflitto. Pretendeva d’imporre una verità rivelata, un rito sacro spacciato per innovazione. Diciamola tutta, era un’avanguardia un po’ fascista»
• «Famiglia piccolo borghese, gente che lavorava. L’unico spunto È che mio padre aveva uno stuolo di fratelli gaudenti che andavano spesso al
cinema e a teatro e in famiglia se ne parlava spesso. Io ho cominciato il
teatro alla fine degli anni Settanta, quando i gruppi si mettevano insieme e
significava progetti, scambi, studio, sperimentazione. Lo consiglio a tutti,
anche se allora c’era un clima ideologico favorevole a lavorare in gruppo, oggi lo spettacolo
ignobile dei sentimenti e delle idee soprattutto in tv provoca un desiderio
mimetico: il sogno È quello di diventare come qualcun altro»
• «Il napoletano ha un comportamento sociale recitato, si muove naturalmente tra
credere e non credere, mostra un totale abbandono alle cose e
contemporaneamente ne prende le distanze. Non È questa l’arte dell’attore? Vivere a Napoli per un attore È nutriente. Napoli È una capitale nelle arti, È endemico alla città, ma tutto andrebbe affrontato con meno trionfalismi e più concretezza. Credo che Napoli, come il resto del paese, non sia immune dalle
responsabilità di una borghesia annebbiata che non va oltre il proprio naso» (da un’intervista di Maria Pia Fusco).