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 2011  luglio 06 Mercoledì calendario

SCALFARI

Eugenio Civitavecchia (Roma) 6 aprile 1924 • È il più grande giornalista italiano del Novecento: ha partecipato da protagonista alla
fondazione dell’Espresso (con Arrigo Benedetti e Carlo Caracciolo), ha creato dal nulla un
quotidiano, la Repubblica, del tutto nuovo per linguaggio e formato (i
precedenti esperimenti col tabloid in Italia erano stati dei disastri). L’influenza esercitata da Scalfari e da Repubblica non solo sul giornalismo, ma
anche sulla politica, sulla cultura e sul costume italiano sono tali che si può prendere il 14 gennaio 1976 — primo numero del giornale — come una data ante quem e post quem scrivere la storia del nostro dopoguerra
• I capitali furono messi da Carlo Caracciolo, editore dell’Espresso, dalla Mondadori (che aveva il 50 percento), dallo stesso Scalfari
(poco più del 10 percento), da un piccolo nucleo di soci minori. La storia precedente di
Scalfari era molto semplice: aveva diretto l’Espresso, aveva firmato con Lino Jannuzzi un’inchiesta clamorosa sul Sifar, il piano Solo e le mire golpiste del generale De
Lorenzo (querelati tutti e due, condannati a 15 e 14 mesi di reclusione benché il pm Vittorio Occorsio, che aveva letto i fascicoli prima che il governo li
secretasse, avesse chiesto l’assoluzione), aveva pubblicato con Giuseppe Turani un saggio capitale sui poteri
di quegli anni (
Razza padrona, Feltrinelli 74: storia della borghesia di Stato, attraverso le enormi
ricchezze parassitarie accumulate con la nazionalizzazione dell’energia elettrica, e fino a Cefis. L’espressione “razza padrona” era entrata nel linguaggio comune), era stato prima consigliere comunale a
Milano (1963) e poi deputato del Psi in Parlamento (elezioni del 1968). Craxi
aveva manovrato per sabotarne la rielezione e da allora dato l’odio implacabile tra i due, un odio che superava le guerre interne al Psi e
aveva qualcosa di fisico, fino al punto che qualcuno diceva provassero
ripugnanza uno per l’altro
• Scalfari era affamato di potere. Fondò Repubblica dicendo che voleva dar voce alle classi produttrici del paese, gli
imprenditori e i lavoratori, contro le classi parassitarie che — evidentemente — votavano Dc. Mistica dell’eleganza, del calzino lungo, della upper class democratica oppure — secondo l’espressione dei nemici — capofila dei radical chic, seduttore delle dame rosse che si facevano belle
della loro larghezza di vedute continuando a frequentare i salotti dei padroni
e andando in vacanza a Cortina e a Saint-Tropez. In ogni caso, Scalfari pensava
a un giornale d’élite, che fosse comprato per secondo, senza la cronaca («niente vecchiette sotto il tram»), senza lo sport. Poche pagine, molti commenti, idee, chicche e possibilmente «cose che non hanno gli altri». Mise in circolo fin dal primo numero l’espressione “palazzo”, diventata anche questa lingua comune, per indicare l’insieme delle persone che contano. Siccome non s’intendeva affatto di quotidiani, credette che circondando di ragazzini un gruppo
di grandi firme (Sandro Viola, Fausto De Luca, Bocca, Aspesi, la Mafai, Peppino
Turani, Terzani) e qualche instancabile culo di pietra (Gianni Rocca) si
sarebbe fatto il prodotto che diceva lui, e magari a basso costo. Politicamente
si collocava in un’area sterminata che cominciava dai repubblicani e finiva con gli autonomi, cioÈ i lembi non clandestini del brigatismo. La sua origine di settimanalista
portava però nel mondo spento dei quotidiani una propensione al retroscena, alla
prospettiva, al passo lungo che i quotidianisti non avevano, un piglio diverso
nelle interviste, una sapienza grafica, una cultura fotografica (anche se
ancora invisibile perché all’inizio, di foto, Repubblica ne aveva davvero poche). La conoscenza dell’economia — in un mondo di professionisti, da questo punto di vista, quasi del tutto
analfabeti — illuminava le informazioni di una luce completamente nuova, anche se Scalfari
ne sapeva forse troppo: a suo tempo la presidenza del Consiglio gli aveva
bloccato una rubrica di commento sulla Borsa che teneva in televisione, perché gli operatori avevano protestato sostenendo che influenzava i corsi. Le grandi
relazioni potevano garantire — e avrebbero garantito — un flusso di informazioni riservate da far invidia a un servizio segreto.
Scalfari, al tavolo della riunione mattutina, faceva sentire la voce di questi
suoi informatori: per esempio il presidente della Repubblica Pertini, o il
presidente del Consiglio Cossiga o Forlani o Spadolini o soprattutto De Mita,
Enrico Cuccia, ministri a iosa, notabili democristiani come Bisaglia o Franco
Evangelisti — che cominciava sempre con un “ciao EugÈ” — i capi dei sindacati, i capi delle industrie e, insomma, tutto il potere
dispiegato che non vedeva l’ora di parlargli. Premendo un tasto del telefono, Scalfari ne faceva risuonare
le voci nella stanza dove i redattori ascoltavano rapiti e in perfetto silenzio
perché l’interlocutore dall’altra parte non capisse di non essere solo. La riunione — un rito su cui si È giustamente e a lungo favoleggiato — cominciava alle dieci e mezza del mattino e finiva dopo l’una. All’inizio, cappuccino e cornetto per tutti, poi analisi critica del giornale e
discussione che poteva finire su qualunque argomento, molto libera, anzi — con una parola adorata da Scalfari — molto “libertina”. Usare la parola “dirigere” per quel direttore È poco. Scalfari era tra l’altro un bellissimo uomo, alto, dritto, la barba bianca, la voce suadente e
certe volte addirittura cantante. I redattori — senza distinzioni di sesso o di età — ne erano, più che sedotti, soggiogati
• Il giornale andò male i primi due anni e si stava per chiuderlo quando Moro fu rapito e le
Brigate rosse scelsero Repubblica come veicolo della loro comunicazione. La
prima foto Br faceva vedere Moro prigioniero che teneva in mano Repubblica.
Scalfari, profittando della contemporanea crisi di Paese sera (che agli occhi
dei giovani di sinistra aveva perso ogni credibilità, essendo definito ormai con la qualifica spregiativa di “piciìsta”), imbarcò così il pubblico simpatizzante dei movimenti o comunque di sinistra, ma stufo del
grigiore del Pci. Repubblica profittò poi della crisi di copie e credibilità dell’Unità e mise nel suo lettorato un’importante quota di comunisti. Infine il Corriere della Sera (siamo nel 1981) fu
scoperto come propaggine della P2 e Scalfari (a cui era stata persino offerta
una quota di quel giornale e l’avrebbe presa se la redazione non si fosse sollevata contro quel tipo di
partnership) ci diede dentro con i valori della democrazia e la difesa delle
istituzioni repubblicane, e portò a casa perciò una bella fetta di pubblico borghese, benpensante, moderato nella sostanza, e
moderno nell’apparenza. Tra l’altro Repubblica, così nuova, così diversa, faceva trend ed era assai elegante averla sotto il braccio, un vero
prodotto di potere e di contropotere. Alla fine del 1981, con il giornale
ampiamente sopra le 200 mila copie, il problema economico era alle spalle
• Intanto Scalfari, esercitando la sua dote migliore, cioÈ l’attitudine al libertinaggio, ne aveva fatto un prodotto mai visto in Italia, un
giornale-opera d’arte. La cultura al centro, bloccata su due pagine (il famoso “paginone” di Rosellina Balbi), il fatto del giorno — fosse di Interni, Esteri o Spettacoli — piazzato in due-tre per dare luce a tutto il giornale, la 5 come pagina di
snodo tra l’avvio e la zona di riposo successiva, la 6 per i commenti con la vignetta di
Forattini al centro (aveva già fatto a Paese sera il Fanfani in forma di tappo, ma fece a Repubblica lo
scandaloso Berlinguer in pantofole). Scalfari capì presto che non si poteva sfuggire ai fatti, che la cronaca e lo sport ci
volevano, che tanto valeva puntare a essere non il secondo giornale, ma il
primo. E quindi: reclutamento di grandi firme, soprattutto di quelle che
fuggivano dal Corriere piduista. Pansa, Ronchey, Cavallari, Biagi, Arbasino,
(invano corteggiò Stille, che accoglieva in redazione esponendo cartelli di benvenuto). Intanto
Repubblica aveva imposto un nuovo modo di titolare, un nuovo modo di raccontare
lo sport (grazie al lavoro di Mario Sconcerti che fece venire Brera, Gianni
Clerici e Mario Fossati, e inventò Mura e la Audisio), un nuovo modo di porsi di fronte alla politica, che imparò presto che Scalfari andava trattato non come un giornalista qualunque da
irregimentare ma come un capo-partito, con cui si doveva scendere a patti.
Scalfari lo sapeva, era quello che voleva, e faceva politica dalla mattina alla
sera, cioÈ pilotava con sicurezza il giornale in un mare che era legittimo chiamare “aperto”, cioÈ non soggiogato meschinamente alle segreterie dei partiti, per niente vincolato
ai piccoli cabotaggi dei capibastone con cui si facevano e si fanno i conti
tutti i giorni. È memorabile, quanto alla forma, la sua pretesa che il giornale fosse bello, le
pagine armoniose, i titoli come versi, le notizie vicine coerenti una con l’altra. E, quanto alla sostanza, che i problemi venissero legati ai fatti e i
fatti avvinti a un personaggio. Molte volte — ma davvero molte — lo si È visto buttare via la pubblicità, con gran sgomento della Manzoni che gliela vendeva, e giustificarsi con queste
quattro parole: «Mi lorda il giornale»
• Nel 1986, quando Repubblica cominciò ad allegare fascicoli creando così un nuovo mercato (di fascicoli in edicola, a quel tempo, non c’era neanche l’ombra), superò il Corriere e divenne finalmente il primo. Al Corriere, che fece uscire Sette
il 12 settembre 1987, rispose col Venerdì, mandato in edicola il 30 ottobre. Si ragionava ormai in termini di centinaia
di migliaia di copie, di miliardi e miliardi di fatturato pubblicitario e di
giornali che potevano pesare anche un chilo. Al di là di tutto, la spiegazione del successo di Repubblica era semplice: il giornale
non aveva padroni, nel senso che i due azionisti (Mondadori e l’Espresso) erano editori, non avevano da riscuotere o da pagare pedaggi
particolari alla classe politica in altri settori dell’economia ed erano soggiogati anche loro dalla personalità dell’uomo, al cui volere e potere si inchinavano sempre. Scalfari aggiungeva
volentieri che una delle ragioni della forza di quell’impresa stava nelle sue dimensioni contenute, un fortino munitissimo e
inespugnabile dalle corazzate che incrociavano al largo (cioÈ la grande industria) perché non aveva porte che ne consentissero l’ingresso
• Nella battaglia tra Berlusconi e De Benedetti (finita nel 1991: vedi anche alla
voce CIARRAPICO Giuseppe), si schierò fin dal primo istante con De Benedetti. Partecipava con gioia da tifoso alla
sua incetta di Mondadori privilegiate, e nominava Luca Formenton con quella
certa piega delle labbra che designava i portatori (spiritualmente parlando) di
calzini corti. Dopo il lodo Ciarrapico, vendette anche lui il suo dieci per
cento e incassò una cifra mai accertata, ma che la voce comune indica in cento miliardi di
lire. L’ultimo giorno radunò la redazione e spiegò che la metafora del fortino doveva considerarsi sbagliata. Disse proprio: «Mi sono sbagliato». Non di fortino si doveva parlare, ma di capanna. Una capanna circondata da
grattacieli, che lo sviluppo della città avrebbe inevitabilmente spazzato via. Vendere era stato perciò un atto di prudenza e saggezza, che garantiva per il futuro la stessa libertà di cui il giornale aveva goduto in passato. La redazione accolse il discorso
con un silenzio assoluto e Scalfari, alzandosi in piedi e stirandosi
leggermente i fianchi, chiese sottovoce al fido Gianni Rocca: «Come mai non applaudono?»
• Ha abbandonato la direzione di Repubblica il 5 maggio 1996 (gli È subentrato Ezio Mauro), voci immediatamente successive di suoi tentativi di
reimpadronirsi del giornale o di fondarne un altro sono state seccamente
smentite. Scrive per Repubblica un grande editoriale la domenica. Umberto Eco
ha accettato di cedergli la metà del suo spazio sull’Espresso: tengono la rubrica in ultima pagina una settimana per uno (quella di
Scalfari si chiama “Il vetro soffiato”). Ha pubblicato libri di riflessioni, meditazioni o filosofia che hanno avuto
un esito, in termini di vendite e di accoglienza critica, incerto. Fece rumore
il rifiuto da parte di Roberto Calasso, editore della prestigiosa casa editrice
Adelphi, di stampare il suo
Incontro con Io, uscito poi per Rizzoli nel 94 • Ha raccontato la sua giovinezza in La sera andavamo in via Veneto (Mondadori, 1986). Nello Ajello l’ha riassunta così: «Un ritratto precoce di Eugenio Scalfari porta la firma di Italo Calvino. Nel
racconto autobiografico Gli avanguardisti a Mentone s’affaccia un compagno di liceo cui l’autore assegna un nomignolo di enigmatica origine: Biancone. È lui, Scalfari. Il liceo È l’Istituto G. D. Cassini di Sanremo. Lì Italo ed Eugenio stringono un sodalizio che si prolunga dopo le ore di scuola,
fra passeggiate, partite di biliardo e qualche discussione ironico-teologica
intorno all’esistenza e all’operato di Filippo (con questo pseudonimo chiamano Dio). Il primo, Calvino, È di padre sanremese. L’altro È “un mezzo-sangue calabrese” (così amerà definirsi) nato a Civitavecchia, la città di sua madre, e approdato a Sanremo quattordicenne, nel 38, quando papà Scalfari, Pietro, nativo di Vibo Valentia, È stato chiamato a dirigervi il Casinò. “Biancone ed io andavamo assai d’accordo, per quanto fossimo tipi differenti”, racconta Calvino. Lui scruta dentro di sé, con qualche ansia, la vocazione d’artista: la alterna, per ora, all’interesse per l’agronomia, respirato in famiglia. Scalfari, preso da un “amore di vita movimentata”, È più incline ad esercitare la sua “acutezza critica” sul terreno politico. Su ambedue, d’altronde, il fascismo esercita attrazione e ripulsa. Continueranno a consultarsi
e a confidarsi nei primi anni Quaranta, ma ormai prevalentemente per lettera.
Trasferitosi nella capitale — Calvino lo chiama con insistenza “l’uomo dell’Urbe” — Scalfari torna a Sanremo con la famiglia solo per le vacanze estive. Frequenta
Giurisprudenza e pubblica articoli sulla rivista del Guf Roma fascista. “Vedo che ti fai avanti ardimentoso e sicuro”, gli scrive nell’aprile del 42 l’amico di Sanremo che adesso abita a Torino. Collaborando ai giornali di regime,
il mezzo-sangue calabrese mostra d’aver preso a tal punto sul serio l’ideologia vigente, e il dovere di servirla con rigore ideale, da meritarsi l’espulsione dal Pnf, sigla che designa ormai un establishment frollato. Tira aria
di fronda sia nelle alte sfere che fra i goliardi. Durante l’ultimo soggiorno estivo nella cittadina ligure — l’ha raccontato Paolo Murialdi — Calvino e Scalfari decidono, con altri ragazzi, di fondare un Movimento
universitario liberale (Muil). Le radici dello Scalfari che conosciamo emergono
così dalla sua personale preistoria. Andranno, a fascismo caduto, in direzione del
partito liberale, una formazione politica che già si preannunzia povera di seguaci e divisa al suo interno. Ma ciò che distingue quell’ambiente È l’essere dotato di giornali ben fatti e di giornalisti autorevoli. Fra loro, pur
tra iniziali difficoltà, Scalfari s’avvia a diventare una figura familiare. È stato Mario Pannunzio a dar vita al quotidiano romano Risorgimento liberale,
solido antenato di ciò che sarà Il Mondo, e già legato a una scommessa: quella di armonizzare Croce con Salvemini. Un
settimanale milanese, L’Europeo, si pubblica dal 45, e lo dirige un gemello (quasi) di Pannunzio, Arrigo
Benedetti: professionalmente sono entrambi figli di quel Leo Longanesi che in
vario modo, con sdegno pubblico e segreto dolore, ormai ripudiano. Tra Roma e
Milano si aggira Scalfari: assunto — siamo nel 47 — dalla Banca Nazionale del Lavoro (ufficio estero). Con la nascita del Mondo,
49, l’ingresso del giovane bancario-giornalista nel gruppo più esclusivo della capitale può dirsi acquisito. Far parte di quella équipe, scrivere sul settimanale, cooperare alla sue iniziative — albeggiano i convegni del Mondo — significa legarsi a una sorta d’Olimpo, popolato da figure oracolari, artisti di gran nome e “begli spiriti”. Niccolò Carandini, Leone Cattani, Ugo La Malfa, Ernesto Rossi, Mario Ferrara, Panfilo
Gentile rientrano nella prima categoria. Oscillano fra la seconda e la terza,
nel clima svagato dei dopocena capitolini, Moravia e Brancati, Sandro De Feo,
Ercole Patti, Ennio Flaiano, Gian Gaspare Napolitano (per citarne appena
qualcuno). Ci sono poi i giovani talenti, coetanei di Scalfari: Forcella,
Compagna, De Caprariis, Ronchey, Antonio Cederna. In un’altra galleria di personaggi meno variegata ma di prestigio anche maggiore si
aggirerà Scalfari, quando nel 50 la sua banca lo trasferirà a Milano. Lì, i riti di una consorteria laico-finanziaria di enorme influenza vengono
officiati da Raffaele Mattioli e Adolfo Tino: due statue, ma dotte, eloquenti,
sarcastiche, vivacemente mimiche. Un altro ex dirigente del partito d’Azione, Mario Paggi — “Il Vate”, lo definiscono in molti, “l’Edward G. Robinson italiano” lo chiama Francesco Compagna scorgendo in lui una somiglianza con quel supremo
interprete di gialli hollywoodiani — accoglieva la domenica nel suo studio d’avvocato, in via Brera, finanzieri e intellettuali. In Camilla Cederna,
redattrice dell’Europeo, confluivano buon giornalismo e caustiche eleganze. Tradotte nei costumi
di Milano, le serate romane trascorse al caffÈ Rosati in via Veneto diventavano l’aperitivo da Cova, all’angolo di piazza della Scala con via Verdi. Chi si divide fra queste due cerchie
urbane, e vede la propria firma comparire sul Mondo e sull’Europeo, ha la sensazione d’aver centrato l’ambo del secolo. La vocazione di Scalfari per la carta stampata si nutre ora di
quella competenza specifica — l’economia — che segnerà un punto fermo, il primo di tanti, nella sua storia professionale. Vale qui la
pena di andare a ritroso con la memoria, guardando ai giornali d’un tempo da un angolo particolare: quello del lettore (potremmo definirlo un
martire) degli argomenti di economia e finanza. Sproloqui tecnicistici,
geremiadi illeggibili, sussiegose lezioni ex cathedra, irte comunicazioni
accademiche: così erano gli editoriali che la maggiore stampa dedicava a quella materia. Si
diceva allora nelle redazioni — il misfatto durò lunghi decenni — che i “pezzi” firmati da pur autorevoli scienziati come Libero Lenti o Ferdinando Di Fenizio
avrebbero potuto essere somministrati in farmacia ai sofferenti d’insonnia: ma forse neppure a loro, se si voleva evitargli sopori agitati.
Accadde però che da un certo momento in avanti, accostarsi all’economia sui giornali non fosse più un’incombenza desolante. Si cominciava ad assaporare quei temi con un inatteso
piacere dell’aneddotica, con sdegno o divertimento. Intorno all’universo dei numeri e alla meccanica degli interessi si disegnava un genere
letterario tutto da gustare. Il primo tentativo di sgranchire le ossa a Mammona
nel dominio della stampa italiana lo si deve a Ernesto Rossi, alla sua passione
impetuosa per la verità e ai luminosi paradossi di cui si pasceva il suo ingegno. Ma Scalfari ne ha
subito seguito l’esempio. Si È nutrito di quelle radici. Ha raccolto, partendo proprio dall’economia, il testimone sulla pista che conduce dal giornalismo prodotto da un’élite volutamente indecifrabile a quello di un più moderno gusto per le controversie politico-sociali, per la psicologia dei
maggiorenti e dei tycoons. Tutto È discutibile nel mondo della carta stampata: e le ammissioni e le esclusioni dal
Gotha dei media seguono, non soltanto in Italia, leggi bizzarre. Certi
movimenti del linguaggio vanno comunque registrati alla stregua di notizie. Per
quello che sono. Un’altra notizia si può enunziarla così: invece di limitarsi a scrivere sui giornali, Scalfari ha la mania di fondarli.
È equo pensare che questo requisito gli sia derivato in parte dalle
frequentazioni che siamo venuti elencando, fossero amici di gioventù o esempi di vita. Che tale inclinazione gli venga cioÈ, quasi un lascito, dall’album dei suoi “maggiori”, fra i quali abbiamo visto figurare — da Pannunzio a Benedetti — creatori di testate memorabili. Sembra il caso di aggiungere, rasentando l’ovvio, che il virus non era ignoto in Italia, se si pensa a Luigi Albertini che
inventò o reinventò il Corriere della Sera o ad Alfredo Frassati che creò La Stampa. Ma nel caso di Scalfari la tendenza s’È presentata in maniera recidiva o, come si dice oggi, “seriale”: l’Espresso (data di nascita 1955), prodotto in tandem con Arrigo Benedetti, e la
Repubblica. Nulla vieta di pensare a un tic. Sapendo però che ne esistono di peggiori»
• Sposato con Simonetta De Benedetti, figlia del Giulio De Benedetti che fu
direttore della Stampa (vedi PANSA Giampaolo: per lei erano le seconde nozze).
Ha due figlie: Enrica, fotografa (titolare con la mamma dell’agenzia Agf), e Donata, giornalista a Mediaset.