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 2011  luglio 06 Mercoledì calendario

SCACCIA

Mario Roma 26 dicembre 1919. Attore • «Ha interpretato un numero imprecisato di personaggi, e fra questi,
magistralmente, quattro grandi avari della Storia del Teatro: Euclione (Aulularia di Plauto), in varie edizioni, “perfino in forma rock, dove i ragazzi cantavano il prologo in latino”; Arpagone (L’avaro di Molière); Shylock (Il mercante di Venezia di Shakespeare); Jeronimus (Magia rossa di Michel de Ghelderode)» (Luigi Vaccari) • «La mia vita è stata tutta un atto di generosità. Fino alla dissipazione. Nel mio lavoro, artisticamente. E come energie: non
solo fisiche, anche spirituali. Ho dato agli altri il meglio di me. Gli attori
veri, ma sono pochi, sono quasi tutti prodighi. Si risparmia chi non è un autentico attore: dosa le forze, calcola tutto. Io rispetto i compagni di
scena, i giovani in particolare: cerco di favorirli, do la battuta... Ho
dissipato anche tutti i miei guadagni; e ho guadagnato tanto. Non sono
attaccato al denaro e alla roba. Ho vivo il sentimento della morte. A 22 anni,
sottotenente di complemento di fanteria, dovevo morire in guerra. Quando gli
americani sono sbarcati in Sicilia, a Gela, sono stato preso in pieno dallo
spostamento d’aria di una granata e sbalzato lontano in una buca, dove sono rimasto aspettando
la fine della battaglia. Mi sono salvato per miracolo. Questo episodio ha
segnato un po’ la mia vita. Mi sono sentito un sopravvissuto: tutto quello che è venuto dopo, mi è stato regalato. Ho donato con troppa generosità, senza badare a chi. Spesso la vita è talmente cattiva che, anziché ringraziamenti, ho ricevuto odio da chi avevo beneficato. Ma in fondo sono
contento di essere un prodigo. Alla fine l’avaro non ha nulla, perché si muore. A chi lascerà il suo tesoro? Ho delle strane avarizie. Mi fregano 50 lire, impazzisco. Poi,
magari, un momento dopo butto via centinaia di migliaia di lire. Mi prendono un
libro, soffro maledettamente... Ho queste strane manifestazioni... Ma non sono
forme di avarizia. O lo sono?»
• «Tanto tempo fa me ne andai dal Teatro di Roma, perché in disaccordo col trattamento: ero diventato quasi un metalmeccanico. Una
volta, in un Misura per misura con Vannucchi, arrivai a dire alle abbonate glaciali del giovedì santo “Battetemi le mani, stronze, e andate perché chiudono i sepolcri”. Il Teatro di Genova non volle più saperne di me. Sono docile, ma per il lavoro divento una belva. Ero adorato da
Macario cui facevo da spalla, però quando protestai per gli orari di scena che adottava per sue strategie con le
donne, non mi volle più bene. Sono salito sulla scena per la prima volta a 3-4 anni. Mia zia,
filodrammatica, aveva bisogno di una bambina, e io avevo i capelli lunghi.
Molto più tardi Diego Fabbri mi portò nella sua compagnia. Certo, il mestiere è tutto e la fortuna aiuta, ma non basta: per il teatro mi sono venduto la casa
più volte. Maestri? Intanto Pelosini, grande dicitore di versi all’Accademia, e sono cresciuto con Randone, Benassi, Tofano, Cimara... L’avvento della regia da noi arrivò tardi. La figura-guida fu Visconti, raffinato, capace di farti vedere un
Delitto e castigo bellissimo senza Dostoevskij. A diffondere la qualità è stato Strehler. Per la drammaturgia il decollo è venuto con autori americani e inglesi, anche se un ultimo grande è Bernhard. Il pubblico? Non esiste più. Batte le mani a tutto, indifferentemente. Quando il teatro era teatro, il
contatto era umano. Al Burghteater di Vienna, Albertazzi e io in Amleto non avemmo alcun riscontro durante la recita, ma alla fine ci fu un applauso
interminabile» (da un’intervista di Rodolfo Di Giammarco).