Il Catalogo dei viventi 2007, 6 luglio 2011
SALVATORES
Gabriele Napoli 30 luglio 1950. Regista. Tra i suoi film: Kamikazen (87), Marrakech Express (89), Turné (90), Mediterraneo (91, David di Donatello miglior film, Oscar miglior film straniero, Nastro d’argento per la regia); Puerto Escondido (92); Sud (93); Nirvana (97), Io non ho paura (2003) • Diploma all’Accademia d’arte drammatica del Piccolo Teatro di Milano, nel 72 è stato tra i fondatori del Teatro dell’Elfo per il quale ha realizzato, in dieci anni, ventuno spettacoli. Dopo il
successo del musical tratto da Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare, nell’83 ha girato il suo primo lungometraggio (stesso titolo) • «Trasferito a Milano con la famiglia da piccolo, era destinato a diventare
avvocato, proprio come suo padre Renato. Ci prova, ma non ce la fa a obbedire
fino in fondo: “Cominciai a fare spettacolo a scuola, da ragazzo. Al liceo, già nel 67, le interrogazioni di greco erano state cancellate e sostituite con
rappresentazioni di gruppo. Una volta, recitammo l’ultimo atto dell’Antigone: la professoressa è uscita dalla classe indignata”. Alla facoltà di Giurisprudenza della Statale, “arrivai nel Sessantotto, a 18 anni, incontrai quello che è stato per tanti di noi un fratello maggiore: Mario Capanna, allora capo
indiscusso del Movimento studentesco. Era più grande, aveva un modo di fare protettivo e rassicurante. Mio padre aveva perso
la sua sfida: avevo i capelli così lunghi e mi vestivo così strano che lui, se dovevamo uscire insieme, sceglieva di camminare sul
marciapiede opposto, non ce la faceva a starmi vicino. La musica di Jimi
Hendrix, vera reincarnazione di Mozart, Frank Zappa e i film di allora, dal
Laureato a Il pane e le rose, insieme all’immensa energia umana che ti trasmetteva il movimento, mi portarono verso la
politica rivoluzionaria, verso un estremismo anche esistenziale. è stato un passaggio breve, ma forte: per un soffio, tanti di noi, mi metto io
per primo, non sono finiti nella lotta armata, nel terrorismo o nell’eroina. è un caso, un destino, un rimescolamento di carte: il confine era sottilissimo.
Forse, mi hanno salvato proprio il rock, la chitarra elettrica, gli
spettacolini che organizzavamo fra noi. Ci dividemmo, a ripensarci oggi, fra
chi scelse l’impegno e chi la fantasia, il sogno, una diversa utopia, la voglia di fuga di un’intera generazione, la stessa che ho poi raccontato con i miei film”. Il teatro in fabbrica, in strada, nei manicomi: nei primi anni Settanta, a
Milano, i ragazzi borghesi dei licei e delle università cercano di scomporre e ridefinire classi e identità. La città della Scala — dove i contestatori, come si chiamavano allora, lanciano uova contro le signore
in pelliccia alla prima — inventa il teatro aperto, la nuova cultura affiora dalle rappresentazioni
improvvisate, dalle rivisitazioni dei testi classici. “Avevamo un’idea militante del teatro popolare, mettevamo in scena la cronaca, le favole,
piombavamo nelle fabbriche occupate con i nostri costumi e le nostre canzoni,
erano gli anni in cui l’Italia scopriva Brecht, il Living Theatre. La mia prima sala prove? Al centro
sociale Leoncavallo”. Nel 72, Salvatores fonda il Teatro dell’Elfo: “Avevo 22 anni, ero un extraparlamentare affascinato dalla non violenza di
Gandhi, iscritto a Lotta continua, pensavo che la libertà di esprimersi in teatro fosse un diritto di tutti. Ero anche un piccolo
imprenditore: dovetti subire, senza fiatare, l’esproprio proletario degli incassi di una settimana. Erano i nostri ragazzi che
si portavano via la nostra cassa. Cose che capitavano allora. Il mio film del
cuore resterà per sempre
Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri, con Gian Maria Volonté, il più grande di tutti. L’ho conosciuto al Locarno, l’albergo liberty dietro via Ripetta, la notte amava parlare e perdere tempo,
sembrava avesse addosso l’impegno che metteva nella politica e nelle sue interpretazioni. Fra i miei primi
flash sulla città ci sono anche le immagini di Monicelli, Scola, Scarpelli che giocano a carte — sempre di mercoledì — alla trattoria Otello alla Concordia, in via della Croce. Eravamo all’inizio degli anni Ottanta. Noi, invece, non siamo mai diventati un gruppo, non
abbiamo cercato né avuto maestri. Siamo arrivati troppo tardi, troppo giovani per essere — come capitò a Bertolucci — assistente di Pasolini. Moretti lo ha teorizzato, alla fine dei Settanta, con
il suo super 8,
Io sono un autarchico, manifesto di un nuovo modo di intendere il cinema. Lui, la Archibugi, Faenza,
Mazzacurati, Piccioni, io stesso: siamo dei solitari”» (da un’intervista di Barbara Palombelli) • «Il suo percorso è un misto di strategie “all’americana” e di indifferenza ai rischi. “Irrequietezza personale. Se faccio una cosa che viene bene devo fare qualcosa di
diverso. Dopo il successo di Mediterraneo, vissuto con l’impressione di dover restituire qualcosa, ho fatto Sud per mettermi alla prova”» (Paolo D’Agostini) • «Io elaboro poco quello che faccio. Il mio approccio, non tanto alla vita dove
cerco di programmare tutto perché ho paura, è da improvvisatore: quello che mi piace al momento. Non amo la definizione di
autore. Che il regista racconti solo la sua visione della vita. Il cinema è un fatto collettivo: io ho il piacere di suonare con gli altri. Se Miles Davis
chiama Coltrane, sa che gli cambierà la musica. Ho il piacere della messa in scena, senza rigidità. Questo mi è stato rimproverato. Ricordo un dibattito ai tempi di
Turné. A lei che cosa piace, mi chiedono, e io rispondo: raccontare storie. Due
cinefili si sono dati di gomito con l’aria di dire: risposta sbagliata» • «L’importante è smettere di mandare all’estero le immagini di un’Italia che appartiene al passato. I film italiani che hanno avuto successo all’estero, negli ultimi anni, sono Il postino, Nuovo cinema Paradiso e il mio Mediterraneo: in comune hanno il sole, il mare, il passato e la nostalgia. Con Mediterraneo avevo voluto parlare di una generazione, la mia, ma so bene che all’estero è piaciuto perché era ambientato su un’isola. Insistere su questa strada sarebbe sciocco: gli italiani non sono certo
quelli dello stereotipo che piace all’estero; io sono cresciuto ascoltando Jimi Hendrix, mica Peppino Di Capri» • «Quando faccio un film è come se stessi preparando una cena. Se non viene nessuno ci rimani male, puoi
mangiare da solo ma non è la stessa cosa. Non è calcolo, è una convinzione intima» • «Si è sempre detto che sono il regista del viaggio, ma prima di Marrakech Express avevo viaggiato pochissimo» • «Il mio rapporto con Diego Abatantuono è di croce e delizia. Ha una personalità talmente forte che bisogna contenerlo perché il film non vada nella direzione che intende lui. Ma quando gli metti dei
limiti esprime una forza incredibile» • Sta con la scenografa Rita Rabassini, ex moglie di Diego Abatantuono: «La loro storia era già finita. Ed è stata necessaria molta maturità, molta intelligenza. Diego e io siamo complementari. Lui molto estroverso, io
introverso, talvolta ipocondriaco» (da un’intervista di Alain Elkann) • Tifa per l’Inter.