Il Catalogo dei viventi 2007, 6 luglio 2011
ROSSI Vasco Zocca (Modena) 7 febbraio 1952. Cantante. Autore. Tra i suoi più grandi successi: Albachiara (79), Colpa d’Alfredo (80), Vado al massimo (presentata nell’82 al Festival di Sanremo), Vita spericolata (Sanremo 83), Bollicine (vincitrice del Festivalbar 83), C’è chi dice no (87), Liberi liberi (89), Gli spari sopra (93)
ROSSI Vasco Zocca (Modena) 7 febbraio 1952. Cantante. Autore. Tra i suoi più grandi successi: Albachiara (79), Colpa d’Alfredo (80), Vado al massimo (presentata nell’82 al Festival di Sanremo), Vita spericolata (Sanremo 83), Bollicine (vincitrice del Festivalbar 83), C’è chi dice no (87), Liberi liberi (89), Gli spari sopra (93). «Non sono un drogato, ma neppure un borghese travestito da balordo» • Dalla “laudatio” scritta da Marco Santagata (anche lui originario di Zocca) per il conferimento del diploma accademico honoris causa alla Iulm di Milano (2005: «Appena l’ho saputo mi sono scaraventato a telefonare alla mamma poverina, ci teneva tanto a quel foglio di carta»): «Se restiamo fermi ai contenuti, agli argomenti e ai cosiddetti messaggi le canzoni di Vasco non dicono molto. Quanto ai messaggi, sembrano proprio latitare, in parallelo con la latitanza del cosiddetto impegno, politico e sociale. Edmondo Berselli ha scritto che Vasco è “brutalmente privo di memoria”, cioè di spessore storico politico; aggiungerei che è altrettanto privo di prospettiva utopica o anche solo di inquietudini metafisiche. [...] Vasco in realtà canta per sé e di sé. Di sé adesso, oggi, e in tutta la successione di oggi che è stata la sua vita. Le sue sono canzoni vissute. E perciò vogliono un ascoltatore che le riviva. Con un termine preso dalla mia disciplina accademica, la Critica letteraria, le chiamerei canzoni creaturali. Confessioni senza infingimenti, senza abbellimenti, senza idillio. Perfino la canzone più idillica che Vasco abbia scritto, Albachiara, si chiude con una immagine antidilliaca. Azzardo un abbozzo di collocazione storica: quella di Vasco è una specie di terza via tra le canzoni festivaliere, retoriche e convenzionali, e le canzoni poesie dei cantautori, che parlano della realtà inglobando un punto di vista etico o politico. Queste, le canzoni dei cantautori, sollecitano ovviamente il coinvolgimento emotivo dell’ascoltatore, ma nello stesso tempo cercano anche, se non soprattutto, il suo assenso razionale. Le canzoni di Vasco provocano invece un effetto di rispecchiamento. [...] Vasco non è immobile, fissato per sempre nell’immagine che ha dato di sé negli anni Ottanta: il fondo ribellistico nel corso degli anni si è progressivamente tramutato in disillusione, pur attenuata da qualche concessione al “politico”, tra virgolette. Eppure, non sono cambiati né il tono, pessimista e doloroso, né la sostanza, creaturale, delle cose che dice. Il successo e la maturità non lo hanno intaccato. [...] Così come è rimasto se stesso, riconoscibile, il suo linguaggio poetico. La sostanza privata delle sue canzoni si riflette nella forma dei testi: che non è la forma ordinata e razionale dei cantautori, ma una specie di flusso di coscienza o monologo interiore, fatto di parole che si ripetono, di frasi che restano in sospeso, spesso con un effetto di “parlato”. Probabilmente queste caratteristiche formali sono alcune delle più notevoli e influenti innovazioni introdotte da Vasco nello stile delle canzoni contemporanee» • «Com’è che si arriva dal bambino canterino, capelli biondi con la banana, primo classificato al concorso Usignolo d’oro 65 di Modena (con la canzone Come nelle fiabe) al rocker che vuole una vita spericolata e si attira gli insulti di benpensanti e custodi della morale, per diventare intorno a 50 anni la più grande rockstar italiana? Molto, è vero, ha aiutato il fattore ambientale, il Grande Paese della musica italiana che corre lungo la Via Emilia, terra ricca di concorsi (dallo Zecchino d’oro a Castrocaro), di balere, discoteche, scantinati del rock demenziale; in cui si sa come si comincia, poi si può diventare Nilla Pizzi o Ligabue, Raul Casadei o gli Skiantos, Caterina Caselli o Gianni Morandi. O appunto Vasco Rossi. Già, ma chi è davvero Vasco Rossi? Lui, il Blasco, ripete sempre che ha avuto molti problemi con le etichette che i giornali gli affibbiavano. Per esempio, “il rocker di Zocca” lo mandava in bestia. “Meglio provocautore — dice — o sennò, per farla più semplice, diciamo rockstar”. Anche la parola mito gli fa un po’ rabbia: sulla prima pagina del supertascabile Mondadori, uno dei Miti appunto, contenente una scelta delle sue canzoni, facendo la dedica a un amico scriveva: “Mito? No, una leggenda, oh yeah!”» (Ranieri Polese) • «Sono cresciuto con De André: lui, Guccini e Bennato sono stati i miti della mia adolescenza. Ricordo ancora l’ansia con cui aspettavo ogni nuovo album. Amavo moltissimo anche Lucio Battisti, a differenza degli altri non faceva canzoni politiche ma questo non toglie niente alla sua bravura: io anche punto più sui temi esistenziali che su quelli politici, eppure non credo di essere un cantante disimpegnato» • «Sono nato in una famiglia modesta, che si accontentava di poco. Mio padre faceva il camionista, non c’era da scialare. Quando lui è morto, nel 79, ero con un piede sul palco e l’altro all’università, fuori corso. è stato un momento terribile. Da lì sono scaturite la rabbia, la cattiveria, la grinta che hanno alimentato il mio talento. E la creatività, che a me viene solo quando sono con le spalle al muro» • «“Scrissi Vado al massimo e sfidai Sanremo perché non avevo scelta” racconta “perché tutto stava andando da cani, ero nella merda fino al collo. Se fossi tornato a Zocca da perdente mi avrebbero fatto a fette”. Ci tornò l’anno dopo con Vita spericolata, il suo manifesto. “Mi dissi, se vogliamo uscire dall’Emilia e entrare in Italia dobbiamo passare per Sanremo”. Ma dall’Emilia, in fondo, non è mai uscito. Gli anni in cui era un dj di Punto Radio sono ancora lì dietro. Ricorda ancora quando invitò Zero a suonare a Zocca. “Avevo da poco scoperto Springsteen, ma mi piaceva anche Renato. Vennero in quindici a vederlo, ma lui fece uno spettacolo come se ce ne fossero diecimila. Alla radio passavamo Madame ogni dieci minuti, e l’anno dopo tornò da star”. Le sue “fughe” da Zocca sono rimaste leggendarie: “Avevo voglia di evadere, ma non ce la feci. Fuggii a Modena, volevo andare a Milano, ma per qualche ragione rimasi bloccato a Bologna”. Dentro il suo stupore esistenziale — la provincia è rassicurante quando si naviga nell’incertezza — ciondola come un rocker di razza. è finito in manette per droga nell’84, come Keith Richards o come i tanti molestatori di lolite degli anni 50, da Buddy Holly a Chuck Berry. Se non fosse la compagna Laura Schmidt a tenerlo al guinzaglio (quando può) lui ne combinerebbe di tutti i colori (le lolite che lo adorano). Spiriti spericolati come Vasco hanno bisogno di stare nel nido per non cacciarsi nei guai. Non è un concetto inedito per un rocker» (Giuseppe Videtti) • «Sul palco provo un’emozione profonda, un attacco di brividi che però devi tenere sotto controllo, sei tu che devi gestire la situazione. L’attimo prima è un attimo di panico totale, che per magia quando comincia la musica si trasforma... sono abituato, ma tutte le volte ricapita... bisogna che ti dimentichi la responsabilità. Io faccio degli incubi nei mesi precedenti: quello ricorrente è che mi dimentico le parole, è una cretinata, ma è così, le parole sono fondamentali. Cerco di scaricare la tensione con tutti i miei riti, faccio stretching, per non pensare, me ne sto in camerino da solo, mi scrivo la scaletta, perché voglio entrarci proprio dentro, l’ordine è fondamentale. Bisogna arrivare alla scaletta perfetta. Io poi parto il giorno prima del concerto, mi chiudo negli alberghi, non voglio neanche ricevere telefonate perché qualsiasi cosa mi può innervosire, voglio arrivare calmissimo sul palco. E poi c’è la preoccupazione di essere in forma... è uno sforzo enorme, perché il mio concerto è molto energetico, mi preparo, faccio un po’ di footing. Non tanto, ma almeno mezz’ora al giorno per fare il fiato. Io sono quel genere lì, il rock è una cosa fisica. Due ore prima smetto anche di fumare, che per me è incredibile. Quando non sono in concerto - e può passare tanto tempo - quello è il momento in cui devo fare i conti con me stesso, con tutti i casini della mia vita privata. è dura, io sarei tentato di stare sempre sul palco, lì tutto funziona, e invece la vita è tutta diversa. A me piacciono basso, batteria e chitarra: sono il mio sogno. Non riusciamo mai a realizzarlo perché non siamo un gruppo di ragazzini, però la voglia c’è sempre. In quello che scrivo io parto sempre dal testo, o meglio è il testo che divide la musica e a volte fa la melodia, io parto con la chitarra, un giro di accordi, e penso a una frase che mi viene in mente, non parto da un concetto, da un argomento, parto dalla prima frase, e poi cerco di andare avanti, spesso avviene giocando, ti lasci andare, a volte ho cominciato con frasi che nemmeno io capivo dove sarebbero andate a parare. Poi arriva la frase che dà il senso a tutto. Di sicuro scrivo più con l’istinto che con la ragione. Un tempo pensavo che questa capacità mi venisse dal fatto che da piccolo leggevo i giornalini, ora leggo dei libri, chissà che non cambi... scherzi a parte, ho sempre cercato di scrivere come mangio. Vengo da un paesino di montagna, quando tornavo a casa dopo l’università e magari usavo una parola strana, mi dicevano: hai mangiato un vocabolario? Fino agli anni Novanta, vivevo solo di musica, era tutto molto chiaro: le canzoni venivano, avevo successo. Poi ho scelto di costruire un nucleo familiare, con una compagna e un figlio voluto, Luca, e questo mi ha messo in un’altra condizione: è ovvio che sul palco non è come stare a casa in pantofole davanti a un figlio, ma l’ho voluto io e ancora oggi cerco di difendere questa nuova prospettiva. Anche se costa fatica e a volte sembra più facile mollare. Stare lontano dal palco, per uno come me, significa fare i conti con la solitudine. Mi mette in discussione: mi ritrovo di fronte al me stesso reale, che non è quello del palco. Poi, si sa, il rapporto col figlio arricchisce molto, prima capivo di meno. E ti mette anche un po’ in riga: è solo quando si ha un figlio che si smette di essere figli. è un rapporto fantastico, mi spiace di non averlo avuto con gli altri due, che sono cresciuti con le loro madri. Le famiglie sono la base della società, mio padre non lo vedevo quasi mai, perché faceva il camionista e stava sempre in giro, ma è stato importante avere un padre e una madre. Credo di essere stato molto fortunato, e mi sono potuto permettere un’altra vita perché avevo tutto quello che desideravo, prendo quello che c’è andando avanti. Quando non sarò più in sintonia col cuore della gente allora sarà diverso. Nella vita invece è una sfida continua, ho fatto molti errori, ne faccio ancora, ma cerco di imparare. Sono sempre in cerca di equilibrio: alterno ancora momenti d’ansia, irrequietezza, a una straordinaria esaltazione» (da un’intervista di Gino Castaldo) • «Avevo una vocina... poi con 150 concerti all’anno sui palchi della Pianura Padana si è allenata. La funzione sviluppa l’organo. La voce è cresciuta per disperazione, perché a fianco avevo Solieri che suonava la chitarra troppo forte… In scena è lecito provocare. Tutta la mia vita artistica questo è stata. Non ero nato per fare la rock star. Ma era troppo divertente raccontare le verità scomode, il nostro malessere negato (sto bene, sto bene), mandare a quel paese quelli che pretendono di insegnarci come dobbiamo vivere, dire tutto quello che penso di lei a una donna che non vedrò più... Il mio primo maestro di provocazione è stato Fred Buscaglione, che ironia feroce... Poi Jannacci e De Andrè» (da un’intervista di Mario Luzzatto Fegiz) • «Io ci ho messo anima e corpo dall’inizio. Dal 78 sono vissuto sui palchi, poi ho rallentato per mettere a posto la mia vita personale. Ma sacrifici non ne ho fatti: la musica è la mia più grande passione, per vent’anni ho pensato solo a scriver canzoni, cantarle alla gente e farmi accettare. Con le canzoni ho raccontato quel che mi succedeva o che avrei voluto essere, provocando la coscienza di tutti compresa la mia. Più che altro, mi hanno voluto vedere come un capro espiatorio. Io provocatoriamente ho sempre espresso l’amore per la vita vissuta intensamente, ho rifiutato l’idea di un lavoro comodo e sicuro: molti ragazzini lo fanno anche oggi. è chiaro che facendo uso di anfetamine ero pronto a bruciare la mia vita. Sono partito che dovevo risolvere i miei problemi fondamentali: cioè il sentirmi inutile a vent’anni, il venire da un paese senza prospettive, l’aver problemi economici: e pensavo che nel mondo delle rockstar si sarebbero tutti risolti. Non avevo niente da perdere, e volevo arrivare lì. Però poi se vuoi continuare a vivere devi gestirti: ho dovuto cominciare a prepararmi fisicamente ai concerti, con ginnastica e jogging. E ho anche capito che Mick Jagger, con quelle gambette lì, non ha mai corso. Sono belle anche l’immaturità, l’incoscienza, l’entusiasmo e l’energia che hai a vent’anni. Un po’ di incoscienza ci vuole sempre: se pensi troppo, non fai mai nulla. Io ho sempre pensato a come cadere, prima di buttarmi» (da un’intervista di Marinella Venegoni) • «Non mi sono invece mai stancato del rock. C’è stato un momento in cui non mi venivano più le canzoni, quello sì. Un brutto periodo, dall’86 all’88. Venivo dal rutilante periodo 80-84 in cui avevo esagerato un po’ con tutte le sostanze, poi di colpo smisi e finii in depressione. Mi sono sbloccato, cercando di smitizzare il processo creativo e buttando giù quello che mi veniva, senza necessariamente dover scrivere delle vite spericolate» • «Sono un provocatore, non sono un profeta, né un eroe, sono una persona piena di dubbi. Io non do risposte, faccio solo domande. Non sono neanche un cattivo maestro, cattivo forse, ma sicuramente non un maestro. Non so perché mi affibbiano questa definizione, io non sono un esempio, casomai la voce di chi non ha voce» • «Credo nella musica, come consolazione, magia, è un altro piano di esistenza, ti porta in un mondo fantastico... puoi ricordare emozioni anche dolorose, ma con la musica diventa un piacere ricordarle. è la droga numero uno, che per fortuna non dà dipendenza né effetti collaterali» • «Ho trovato nel lavoro che faccio la più grande soddisfazione della vita, comunicare con la gente, avere affetto in cambio, io tutto sommato non faccio nulla di così particolare, in fondo scrivo canzoni, ma è quello il miracolo della musica. Una canzone può essere un capolavoro, ma la persona che l’ha fatta magari no» • «L’ultima canzone in concerto è sempre Albachiara. Ho provato una volta a toglierla dalla scaletta ma la gente non se ne andava più... Finché non la sentono non se ne va nessuno, così la metto sempre alla fine» • «In tv non vado, non è uno strumento per il mestiere che faccio» • «Non ho mai voluto schierarmi in politica, né candidarmi alle elezioni, come mi è stato chiesto. Io poi ricordo ancora quello che mi diceva mio nonno: il voto è segreto, e come votava non lo diceva neanche a me» • «Non ho mai avuto ideologie. Sono rimasto agli anni Settanta: a Bologna dopo il 68 c’erano Lotta Continua, Potere Operaio e noi, gli anarchici, gli indiani metropolitani, facevamo teatro in strada, non pensavamo certo a sovvertire l’ordine pubblico con la rivoluzione. Ero e sono un individualista, un anarchico con una cotta per Bakunin. Poi crescendo mi sono buttato nella musica e ho scaricato tutto lì. Ma sono iscritto da vent’anni al Partito Radicale. Sono uno di sinistra, perché penso che i principi fondamentali della convivenza siano meglio rappresentati dalla sinistra» • «Io fino a 35 anni di anni ne ho avuti 15. A 40 ero appena maggiorenne e incominciavo a risvegliarmi dal sogno, perché il sogno mi aveva preso completamente. Ora dalle nuvole sono sceso, eccome se sono sceso. Ma ogni tanto ci ritorno. Mi piace frequentare le emozioni borderline, sono uno che ha una grande vita interiore, più intensa di quella reale. Ho tanti pensieri, e non sempre lieti. Il vivere normale non è molto stimolante. Non vado mai al cinema, ma leggo molto. Per il piacere di colmare delle lacune che la scuola che ho fatto, la ragioneria, mi ha lasciato. Un libro ha il potere di trasportarti in mondi sconosciuti. Per questo ora mi è venuto il pallino dei classici, leggendoli ho l’impressione di vivere in quel periodo, mi trovo dentro la storia anziché studiarla» • Ha riconosciuto due figli, Davide a Roma e Lorenzo a Ferrara, concepiti lo stesso anno (85) con due donne diverse (un fan gli scrisse: «Ma con le Lucky Strike non danno il preservativo?»). Adesso sta con Laura Schmidt, dalla quale ha avuto il figlio Luca • «Io non sono uno che crede nella famiglia come istituzione. Non la volevo, non volevo figli. Già avevo me a cui badare, era più che abbastanza. Poi, arrivato a un certo punto, stanco della vita spericolata, degli eccessi, ho incontrato una ragazza che voleva metter su casa e mi sono lasciato andare. è lei che tiene in piedi la convivenza, che ci tiene uniti. Col tempo loro due sono diventati un buon motivo per tornare la sera. Vedere mio figlio crescere bene con un padre e una madre accanto è stato un incentivo a perseverare. La mia famiglia è il patto che ho fatto con una donna, al di là dell’amore che non è mai eterno, al di là della passione che con gli anni scema. Noi abbiamo fatto un patto e cerchiamo di difenderlo. Da chi? Soprattutto da me, che sono quello più instabile. Non mi sono sposato perché non mi piace il rito, non ci credo, ma il nostro è un matrimonio a tutti gli effetti. Ora poi diventerebbe uno spettacolo kitsch: “Vasco Rossi si sposa”, che pacchianata. Magari a Las Vegas. Sarebbe comodo, poi lo convalidiamo in Italia. Qui invece bisogna esporre le partecipazioni, lo saprebbero tutti, finiremmo come Ronaldo» • «Zocca è un posto di montagna, ma pieno di individui vivaci. Ci sono menti sopraffine a Zocca: l’astronauta Maurizio Cheli e gli scrittori Marco Santagata e Gianni Monduzzi. Siamo noi le famose teste di zocca» • «Amo la barca perché si sta sempre all’aperto, come in un campeggio di lusso. Mi sono dedicato alla lettura d’un libro sui fondamenti del buddismo. Mi ha colpito un passaggio a proposito della “parola retta”: usare sempre quella che concilia e mai quella che divide» • Grande tifoso di Valentino Rossi («Sì, come si evince dal cognome, siamo legati da una lontanissima parentela») conosciuto nel 99, in Spagna, «Io con la mia scuderia, forte di Roberto Locatelli, poi campione del mondo nel 2000, Valentino su una 125»: «Ci siamo piaciuti, platonicamente s’intende, c’era feeling, niente di artificiale né di industriale, ma naturale, siamo diventati amici, adesso sento addirittura di volergli bene. Non mi perdo neanche una sua gara, in tv. Raduno figli e amici, una grande famiglia, una bella combriccola, occupiamo poltrone e divani, Coca-Cola e birre, e seguiamo la MotoGP come se fossimo lì, in pista, anche noi. Infatti nelle curve ci pieghiamo, nei rettilinei ci sdraiamo, in staccata ci rialziamo, qualcuno è costretto a speciali pit-stop» (da un’intervista di Marco Pastonesi).