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 2011  luglio 06 Mercoledì calendario

ROSSI Paolo Prato 23 settembre 1956. Ex calciatore. Cresciuto nella Juventus, lanciato dal Lanerossi Vicenza con cui vinse nel 77 la classifica cannonieri in B e nel 78 quella in A, nel 79 è passato al Perugia

ROSSI Paolo Prato 23 settembre 1956. Ex calciatore. Cresciuto nella Juventus, lanciato dal Lanerossi Vicenza con cui vinse nel 77 la classifica cannonieri in B e nel 78 quella in A, nel 79 è passato al Perugia. Squalificato per il coinvolgimento nel calcioscommesse, è tornato a giocare con la Juventus nell’82: con i bianconeri ha vinto due scudetti (82, 84), una coppa Italia (83), una coppa Coppe (84), una supercoppa europea (84), una coppa Campioni (85). Passato al Milan nell’85, un anno dopo è andato al Verona, dove nell’87 ha chiuso la carriera. Con la Nazionale (48 presenze, 20 gol) ha vinto (da capocannoniere: tre gol nel 3-2 al Brasile, due nel 2-0 alla Polonia, il primo nel 3-1 della finale contro la Germania) i Mondiali dell’82, anno in cui ha conquistato anche il Pallone d’Oro (5° nel 78, 6° nel 79, 23° nell’83). Adesso fa il commentatore su Sky • «Un impasto di Nureyev e Manolete: aveva la grazia del ballerino e la spietata freddezza del torero. Danzava lieve, fragile, inafferrabile come un folletto in mezzo a difese ribollenti di furore. Un volto da elfo furbo e ridente, giostrava con l’avversario come un re dell’arena: l’ipnotizzava con la muleta, lo faceva infuriare, lo beffava con una veronica e poi la stoccata rapida. Un gioco rischioso sul filo dei centimetri. Ci rimise i menischi quando era ragazzo, dovette lasciare anzitempo con le gambe massacrate. La sua vita fu un ottovolante: impennate vertiginose e baratri profondi. Dopo le operazioni ai ginocchi fu ceduto dalla Juve come un rottame: una carriera finita prima di cominciare. Invece fiorì improvvisamente in provincia e diventò subito un fuoriclasse» (Giorgio Tosatti) • «Pallido e fragile, tre menischi fra i sedici e i diciannove anni, la sua carriera è un romanzo. Allodi lo scopre quindicenne e lo acquista per una dozzina di milioni di lire. Tirocinio a Como, con Bagnoli, poi il boom a Vicenza, con Gibì Fabbri. Nel 78, Rossi trascina il Lanerossi al secondo posto dietro alla “sua” Juve. Riscattato da Farina (alle buste, due miliardi e rotti contro gli 800 milioni di Boniperti), girato al Perugia, viene coinvolto nello scandalo del calcio-scommesse e squalificato per due anni. Finalmente, la Juve lo riacquista e comincia tutta un’altra storia. Scudetti, coppe e, soprattutto, il titolo mondiale dell’82 con la Nazionale di Bearzot, che già se l’era portato in Argentina. Tripletta storica al Brasile e sei gol in tutto. Dall’Alaska alla Patagonia per tutti è Paolorossi, Pablito. Un intuito straordinario, sempre al posto giusto nel momento giusto. Sembra Zorro. In campionato, con i bianconeri, 83 presenze e 24 reti» (La Stampa) • «Non ero un fenomeno atletico, non ero nemmeno un fuoriclasse, ma ero uno che ha messo le sue qualità al servizio della volontà. Non ho scheletri nell’armadio, mi sono fatto anni di squalifica per lo scandalo delle scommesse senza colpe. Sono il centravanti che fece tre gol ai brasiliani. Sono anche altre cose, ma essenzialmente quella. Mi rivedo con la maglia azzurra numero 20 e mi fa piacere perché la Nazionale unisce mentre le squadre di club dividono. A volte passano anni senza che mi arrivino telefonate speciali, ma quando mancano due mesi al mondiale comincia a squillare il telefono. E tutti mi chiedono del Brasile» (da un’intervista di Maurizio Crosetti) • Nella sua biografia (Ho fatto piangere il Brasile) ha raccontato così la vicenda che lo fece condannare: «Dopo cena, mentre sto giocando la solita partita a tombola, tanto per ammazzare il tempo, mi si avvicina il mio compagno Della Martira: “Paolo, vuoi venire un attimo che ci sono due amici che vogliono conoscerti?”. Non sono capace di dire di no. Controvoglia affido le mie cartelle a Ceccarini e mi alzo. Nella hall vedo due tipi che non avevo mai visto, stringo loro la mano: “Piacere”. Non capisco cosa vogliano da me. Improvvisamente Mauro Della Martira dice: “Paolo, questo è un mio amico che gioca alle scomesse”. E l’amico dell’amico in spiccato accento romanesco: “Paolo, che fate domenica?”. Rispondo genericamente: “Beh, cerchiamo di vincere”. “E se invece pareggiate?”. Non capisco dove voglia andare a parare, sono imbarazzato anche se non lo do a vedere. Non vedo l’ora di liberarmi dall’impiccio. Rispondo: “Il pareggio non è un risultato da buttare. L’Avellino ha un punto in meno di noi, ha vinto con la Juve e ha perso soltanto con il Torino”. “Sai, abbiamo un amico dall’altra parte che dice che un pareggio andrebbe più che bene”, aggiunge l’altro... “magari fai anche due gol”. La discussione non mi piace per nulla. Voglio tornare alla mia tombola, queste facce non mi ispirano fiducia, taglio corto: “Mauro, mi aspettano, ci vediamo, fai tu” giusto per non fargli fare brutta figura. E torno al mio posto e riprendo a giocare. Tutto è durato appena due minuti, quelli che diverranno i due minuti più angoscianti della mia carriera. Il campo è nero di pioggia e terra, gli specchi d’acqua sono alti, e vi entriamo con tutte le caviglie. Giusto il tempo di battere il calcio d’inizio e dopo 30 secondi segno il gol del vantaggio: il difensore dell’Avellino Di Somma prova a respingere un pallone che batte sulla schiena di Bagni e finisce tra i miei piedi, a circa 25 metri dalla porta difesa da Piotti. Il portiere, vedendomi avanzare solo, prova l’uscita ma lo scavalco con un pallonetto dolce che s’infila in rete. Uno a zero. La partita è dura, vivace, con diverse occasioni da rete da entrambe le parti. Pareggia l’Avellino con un gol di Pellegrini che sfugge al controllo di Zecchini e Della Martira, poi segnano ancora i padroni di casa con l’attaccante De Ponti. Il gol del due a due avviene in mischia, dove su corta respinta di Boscolo, insacco da non più di tre metri. Risolvo con un tocco dei miei una partita che sembrava compromessa. è la mia quarta doppietta in campionato, sarà infamata» • «Per due anni Rossi resta lontano dai campi di calcio, e mentre la Juve lo ha definitivamente ricomprato, nel marzo 81. Rossi rientrerà il 2 maggio 82, nella terzultima partita del torneo che fa da vigilia di quel Mundial che gli darà una fama stellare. E subito la mette dentro, nella partita in cui la Juve ne infila cinque dentro la porta dell’Udinese» (Giampiero Mughini) • «C’è ancora gente che per strada mi saluta, mi ferma e mi chiede l’autografo. Persino molti bambini, che all’epoca del Mondiale 82 non erano nemmeno nati. Chissà, forse hanno sentito parlare di me dai genitori o mi hanno visto in qualche spezzone televisivo. Se una volta la popolarità era spesso stressante, oggi essere riconosciuto mi dà una sensazione gradevole. Quando ho smesso di giocare, ho deciso di staccare completamente la spina, dedicandomi al mestiere di immobiliarista. In seguito mi è balenato talvolta il desiderio di un incarico particolare legato al pallone, qualcosa di piacevole e poco impegnativo, tipo quello che fa Gigi Riva in Nazionale. Quello alla Juve, professionalmente, è stato il periodo più bello della mia carriera. C’era molta umanità da parte delle società e tanti campioni in squadra. Ho avuto la fortuna di giocare con Platini, uno straordinario fuoriclasse, sicuramente il compagno più bravo che mi sia capitato di affiancare. Raramente una generazione ha comunque fornito tanti campioni come quelli di cui disponeva la Juve nella prima metà degli Anni 80. Oltre a Platini, c’erano Scirea e Tardelli, Gentile e Cabrini, Bettega e Boniek» • Nell’85 il suo divorzio dalla Juve fece clamore, scatenando una girandola di ipotesi maliziose, compresa quella di uno scarso feeling con i tifosi bianconeri. «Mica vero. Avevo semplicemente voglia di cambiare aria, anche se il posto ideale per giocare a calcio è proprio Torino, che ha i vantaggi della grande città mescolati a un’atmosfera tranquilla, che lascia vivere in pace anche i campioni più popolari. Con la Juve avevo vinto tanto e cercavo nuovi stimoli ed esperienze diverse. Purtroppo il ginocchio sinistro cominciò a fare i capricci e al Milan resi meno di quanto avrei voluto» • «Allenatori? Bearzot, il più bravo e completo che mi sia successo di conoscere. Era preparato, umano, colto, corretto. Un personaggio eccezionale, col quale feci in fretta a stabilire un grande rapporto» (da un’intervista di Mario Gherarducci).