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 2011  luglio 06 Mercoledì calendario

ROSSANDA

Rossana Pola (Croazia) 23 aprile 1924. Giornalista. Del Manifesto • Giovanissima antifascista, brillante allieva del filosofo Antonio Banfi, è stata dirigente del Pci fino alla fine degli anni 60. Chiamata da Togliatti,
prima donna in Italia, a dirigere la Casa della cultura di Milano, si occupò in modo particolare dei problemi della scuola e della cultura nel periodo
(63-68) in cui fu deputata. Nel 68, uscì il suo L’anno degli studenti (De Donato). Nel 69, dopo il XII Congresso nazionale del Pci (Bologna),
promosse - insieme a Lucio Magri, Luigi Pintor e Aldo Natoli - la nascita della
rivista il manifesto: il tentativo di rimettere in discussione la cultura
politica del Pci, e di «uscire da sinistra» dallo stalinismo, si concluse con la radiazione dal partito. Da allora, la vita
politica di Rossanda ha coinciso con quella del manifesto, diventato nel
frattempo quotidiano. Sul Manifesto, vedi PARLATO Valentino
• Tra i suoi libri: Un viaggio inutile (Il Saggiatore, 62), Le altre (Bompiani, 79), Appuntamenti di fine secolo (Manifestolibri, 95. Con Pietro Ingrao), soprattutto La ragazza del secolo scorso (Einaudi) • «Sono nata a Pola, in una terra di frontiera. Sono venuta su in una famiglia che
aveva un’idea della convivenza non nazionalista. Negli Anni Venti e Trenta, prima che me
ne andassi via, si parlava tedesco, sloveno, italiano, in una quotidianità plurilingue, ancora priva di tensioni etniche» (da un’intervista di Alessandra Longo) • «Io sono stata tra i primi a criticare l’Unione Sovietica e per questo sono stata espulsa dal Pci, insieme agli altri
compagni fondatori del Manifesto. Fu un provvedimento giusto perché ormai non eravamo più d’accordo su niente. E poi non cademmo nel vuoto, ma nella braccia del movimento
in un periodo di grande fermento sociale. Questo non toglie che quell’espulsione fu una delle mie grandi perdite. Tutta la mia vita ne è stata scandita. A cinque anni persi la mia casa di Pola, una bella villa con
giardino, perché mio padre, che faceva il notaio e aveva investito tutti i suoi denari nelle
cave di pietra istriane, fu travolto dalla crisi del 1929. La mia vera strada
era quella di storica dell’arte, un interesse che mi sembrò totale finché non vinse quello per la politica. Più tardi, nel 63, mi pesò molto non fare più la funzionaria di partito a Milano ma la parlamentare a Roma. Non era il posto
per me. Intanto avevo perso due genitori ancora giovani. Sono una donna del
Nord, ho fatto un lavoro da uomo e non mi piace mettere le viscere per terra.
Ma non sono fredda, ho sempre frequentato le passioni. E le delusioni. Sa
quando mi vennero i capelli bianchi? Nel 56, durante l’invasione sovietica dellUngheria. Tutta quella vicenda si è coagulata nella mia mente attraverso una foto che mostrava un funzionario
impiccato a un fanale, il volto scomposto, e sotto di lui alcuni operai della
fabbrica in rivolta che ridevano. Mi dissi: ci odiano. Non i padroni, i nostri
ci odiano. Avevo 32 anni e mi ritrovai di colpo sbiancata. Non sono stata bella
e non mi ci sono mai sentita. Del resto i modelli della mia giovinezza erano
Greta Garbo e Norma Shearer, mentre io ero grassottella e con i capelli dritti.
Due matrimoni. Il primo con Rodolfo, figlio del filosofo Antonio Banfi, mio
maestro. Siamo stati sposati vent’anni, un po’ separati in casa ma molto amici. Ora è morto ed è stato un grande dispiacere. Quando avevo 40 anni ho poi incontrato Karol» (da un’intervista di Stefania Rossini)
• «Rossana Rossanda è nata antipatica in una famiglia di borghesi orgogliosi, era perfetta per
diventare comunista e infatti lo è stata precocemente. Di suo ha aggiunto da subito una certa monumentalità conferita da sé medesima per non dar torto al proprio cervello: “Eravamo intellettuali, frequentavamo libri”. “Avrei letto e scritto”. S’accorse tardi del fascismo in cui era immersa sin dalla culla e quando arrivò il giorno, nel luglio del 43, l’evento la lasciò frastornata. La pienezza del suo ego le consente oggi d’assolversi, accoccolata sopra il ricordo con una vaporosità selettiva: “Ti ricordi di me? Sono Liliana. Dimmi, come è avvenuta la svolta?” “Quale svolta?” “Quella politica!” “Politica? Ero fascista?” “Eh sì” “Buon dio!”. Aveva fra i tredici e i sedici anni. Ma quando molti anni dopo le
rimproverarono un viaggio a Mosca nel 49 rimuginò allo stesso modo: “Ma che potevo sapere di Stalin allora?”. Rossana conobbe le difficoltà della guerra e dell’essere sfollata a Venezia. Perse l’innocenza a Milano, quando il suo professore universitario, l’angelo rosso Antonio Banfi del quale sarebbe diventata nuora, le diede da
leggere Marx, Lenin e De Ruggiero (“Mi pare”). Fu partigiana col nome di Miranda ed ebbe spesso paura. Dopo l’aprile del 45 non si stupì che qualche volenteroso partigiano desse ancora la caccia ai fascisti: “Oggi qualcuno si indigna che più d’una vendetta fosse tratta a guerra finita, in quei giorni e dopo. Come se una
guerra che era stata anche fra la stessa gente si chiudesse a una certa ora.
Non si chiude niente finché il tempo non passa e oblitera, lasciando lungo la strada chi non sa dimenticare”. Con questo senso della storia e della umana pietà Rossana ha letto Joyce e studiato la storia dell’arte, si è laureata e iscritta nello stesso giorno al Pci, il 6 febbraio del 46. Lavorò per Einaudi prendendosi il gusto di ripubblicare Trotzkij. Scontenta oggi d’aver “dato troppo o troppo poco al partito, alla rivoluzione, alla causa delle donne,
al movimento o a me stessa”, quando l’America diventò maccartista si persuase che “dove si odia il comunismo la democrazia periclita”. Con questa epigrafe scolpita nel cuore fu trasferita a Roma da Luigi Longo: “Per tirare la Casa della cultura fuori dalle rovine del 48”, si dondola oggi lei sul nastro della memoria. “Smistata gelidamente da uno che le dava del Voi come usava a Parigi dove era
stato in esilio”, completano i testimoni. L’invasione sovietica dell’Ungheria e il Kruscev del XX Congresso (56) la lasciarono indignata e
insoddisfatta, a sentir lei, che si è fatta passare per un’eretica avendo sempre difeso le ragioni dell’ortodossia comunista. In quei giorni sostiene che le vennero i capelli bianchi
dal dolore, mentre centouno intellettuali del Pci se ne andarono disgustati. In
quei giorni Davide Laiolo, direttore dell’Unità milanese, oppose qualche resistenza alla pubblicazione di un fondo di Palmiro
Togliatti intitolato: “Sui fatti di Ungheria”. Gli era capitato varie volte, ma in quel caso prevalse la diplomazia insistita
di Togliatti. La sera del primo intervento militare dei russi entrarono nella
sua stanza Rossana Rossanda, Giangiacomo Feltrinelli e vari altri. Portavano un
comunicato contro l’Unione Sovietica e volevano imporne la pubblicazione. Laiolo li cacciò in malo modo. Oltraggio a una sincera democratica? No, soltanto la lesa maestà personale di una donna che ha sempre coltivato il gusto di figurare dalla parte
del torto migliore, essendo puntualmente dalla parte di quello peggiore» (Alessandro Giuli)
• «Rossana Rossanda non piace a nessuno. Non piace ai non comunisti e questo è ovvio. Non piace ai giovani comunisti e questo è comprensibile: era già obsoleta quando non erano ancora nati. Non piace nemmeno ai vecchi comunisti e
questo l’ho scoperto leggendo Renato e i giacobini (Palomar di Alternative, 2006) di Domenico Di Palo, romanzo che rievoca gli
astratti furori della sinistra pugliese anni Setrtanta. A Trani e a Bari ogni
tanto calavano i capi da Roma, Reichlin, Magri, Parlato, tutti quasi umani
tranne lei, odiosa sempre, odiosa a tutti. Fra politica e letteratura non
vengono in mente altri casi di così perfetta e durevole unanimità negativa» (Camillo Langone) • Ha perso, con La ragzza del secolo scorso, lo Strega 2006 raccogliendo solo 150 voti (Sandro Veronesi, il vincitore, ne
ha avuti 177 su 370).