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 2011  luglio 06 Mercoledì calendario

PROVENZANO

Bernardo Corleone (Palermo) 31 gennaio 1933. Mafioso. Detto zu’ Binu, o Binnu, o «u tratturi» per una predisposizione ad andare per le spicce. Latitante dal 63, è stato arrestato l’11 aprile 2006 • Terzo di sette fratelli, andò a scuola fino alla seconda elementare, poi seguì il padre nei campi. Nel 54 andò militare nella 51esima aereobrigata di Treviso, ma tornò presto a casa con un certificato medico. Al ritorno, tra il 54 e il 58, fu tra
i killer di Luciano Liggio, in guerra contro il suo ex capocosca, il sindaco
democristiano Michele Navarra • «Ragazzo biondo di grande coraggio fisico, fu tra i protagonisti della guerra che
fece fuori, a suon di mitragliate, i capi bastone troppo timidi e soddisfatti
di sé. Fece fuori anche sindacalisti, braccianti, testimoni scomodi, in quella
Tombstone che lo sconosciuto paese palermitano era diventato» (Enrico Deaglio) • «153 morti ammazzati. Un massacro continuo, con cifre da guerra civile. In
proporzione, se a Milano qualcuno si prendesse la briga di emulare le gesta di
Liggio, Provenzano e soci, si dovrebbero assassinare almeno 20 mila persone» (Peter Gomez e Marco Lillo) • Scomparve il 18 settembre del 63. «Quel giorno i carabinieri della compagnia di Corleone lo denunciarono per la
prima volta “in stato di irreperibilità”, il rapporto portava il numero 392/4 e fu spedito al giudice istruttore di
Palermo Cesare Terranova. Il “nominato” era ricercato per omicidio. Una settimana prima un contadino si era presentato
in caserma per fare una deposizione. “Mentre tornavo in paese a dorso di mulo ho visto sul viottolo di contrada
Pirrello un cadavere con il viso sfigurato e con solo quattro dita nella mano
sinistra...”. Il cadavere era quello di un mafioso che si chiamava Francesco Paolo Streva» (Attilio Bolzoni e Francesco Viviano)
• Oltre a Streva, Provenzano aveva fatto fuori Biagio Pomilia e Antonino Piraino,
altri due membri della cosca perdente: «Successe una cosa inaspettata: i familiari delle vittime reagirono, come pochi
avevano fatto prima a Corleone, e furono concordi nell’indicare i nomi dei sicari. Uno soprattutto, Binnu Provenzano» (Gianni Barbacetto e Salvo Palazzolo) • Provenzano, che aveva sposato una sartina di Cinisi, Saveria Palazzolo, ebbe
due figli, Angelo e Francesco Paolo. Con Riina, fu protagonista della mattanza
dell’Ottanta che sterminò la vecchia mafia palermitana a beneficio dei “viddani” di Corleone. «Appariva però brillare solo di luce riflessa: “la spalla” di Riina, l’uomo altrettanto sanguinario, ma meno intelligente: questo era, per esempio, il
giudizio di Tommaso Buscetta. Un uomo silenzioso, di abitudini frugali, un
membro della Commissione, ma sicuramente non un genio» (Deaglio)
• «Solo dopo l’arresto di Riina, nel 93, gli inquirenti capiscono la sua importanza e
cominciano a dargli la caccia. Sul suo capo pendono moltissime condanne, anche
per le stragi del 92 di Falcone e Borsellino» (Travaglio&Lillo) • Per vent’anni, molti pensarono che Provenzano fosse morto. «E quando, nel 92, ricomparve a Corleone la signora Saveria Palazzolo con i due
ragazzi che parlavano un perfetto tedesco, ci si convinse ancora di più che il boss fosse ormai sotto terra» (Travaglio&Lillo) • «Fu nel 94 che la leggenda del Tratturi cadde. “è la vera mente della politica siciliana”, svelò il pentito Gioacchino Pennino, uomo d’onore, stimato medico analista e fine politico democristiano» (Barbacetto&Palazzolo) • «Alla fine degli anni Novanta fu fermato da una pattuglia della “stradale” a un posto di blocco su una stradina in provincia di Enna: gli agenti non lo
riconobbero — così ha confessato il pentito Angelo Siino — l’amabile vecchietto che avevano davanti. Nel gennaio 2001, una squadriglia di
poliziotti era certa di averlo individuato in un covo vicino al paese di
Mezzojuso. Lui riuscì a fuggire anche in quella circostanza. Storie di blitz falliti. Di
intercettazioni ambientali e di pedinamenti costati milioni e milioni di euro.
Di trattative segrete con pezzi dello Stato. Negli ultimi tempi gli esperti di
mafia lo hanno dipinto come l’uomo della “pace” dopo l’attacco mafioso allo Stato degli anni Novanta, come il boss che ha imposto la
strategia del silenzio in tutta la Sicilia» (Bolzoni&Viviano)
• Si nascondeva sulla montagna dei Cavalli, a meno di due chilometri in linea d’aria dalla chiesa principale di Corleone «in un campo pietroso della Sicilia più nascosta, fra casolari abbandonati e antichi sentieri borbonici» (Attilio Bolzoni). «è stato preso inseguendo il sacchetto di biancheria (mutande, magliette, calzini)
che la moglie gli aveva lavato e che gli faceva recapitare con almeno dieci
staffette, ognuna delle quali seguiva percorsi assai contorti e faticosi, pur
di non farsi prendere. La polizia aveva messo un cannocchiale a molti
chilometri di distanza e attraverso quello ha visto a un certo punto un braccio
che usciva rapido da un battente per afferrare il sacchetto. Immediata
consultazione e decisione: il braccio era quello giusto. Provenzano, latitante
da 43 anni, ha accolto i suoi poliziotti senza fare resistenza, senza dire una
parola, lasciandosi fotografare, sorridendo un poco, mormorando Dio vi benedica
a tutti quanti» (Giorgio Dell’Arti). Secondo un’altra versione, «ai poliziotti che gli sono scivolati alle spalle nella masseria dove era
rinchiuso come un topo, ha ringhiato minaccioso: “Voi non immaginate neanche quale danno state combinando”. Era in jeans, addosso aveva un giubbotto blu, intorno al collo una sciarpa
bianca. Su una piccola scrivania della sua tana c’era la foto di Padre Pio, c’erano cinque bibbie e un manuale di tecniche investigative antimafia. Sul tavolo
della cucina un pentolone, il boss la sera prima aveva fatto bollire la
cicoria. I suoi capelli bianchi erano un po’ lunghi, forse aveva preso anche qualche chilo negli ultimi tempi. La sua faccia
era meno scavata da quella disegnata nell’ultimo identikit con scritto a penna il giorno e il mese e l’anno dell’inizio della sua clandestinità: 16 settembre 1963» (Attilio Bolzoni). S’è scoperto che durante la latitanza aveva mantenuto i rapporti con i sottoposti
con un sistema di bigliettini da lui detti “pizzini”, parola entrata subito nell’uso corrente e adoperata ogni volta che era possibile da uomini politici e
giornalisti. «Grande impressione per le condizioni di miseria in cui viveva: un boss
accreditato di un patrimonio minimo di 500 milioni e che stava in una stalla
puzzolente, con una branda per dormire e solo le suppellettili necessarie alla
sopravvivenza. Camilleri ha detto che questa, compresi i sacchi di pizzini, è l’apparenza contadina con la quale amano presentarsi al pubblico i capimafia
quando vengono presi, e che serve a nascondere la modernità assoluta con cui si muovono. Altri hanno scherzato che s’è fatto arrestare perché in prigione si sarebbe trovato meglio. Altri ancora hanno riconosciuto in
questa esibita povertà un tratto imperiale, capace di metter soggezione agli adepti. Zu Binnu, grande
sparatore, non era nemmeno accostabile da chi non fosse considerato degno. E
questa dignità non proveniva — secondo costoro — da alcun apparato, ma solo dalla forza morale e dalla reputazione. E sia pure
la forza morale e la reputazione di un assassino grandissimo» (Giorgio Dell’Arti).