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 2011  luglio 06 Mercoledì calendario

PROIETTI

Gigi (Luigi) Roma 2 novembre 1940. Attore. «Signore preservami dai contenuti, salvami dal significato, fulminami all’istante qualora fossi preso dalla tentazione del messaggio» • Ha lavorato in teatro (A me gli occhi please), cinema (Febbre da cavallo), tv (Il maresciallo Rocca). «Non sopporto quelli che considerano la televisione — in quanto televisione — una cosa minore. Quelli che dicono: “Sai, io faccio il cinema, non la tv”. Ma che vuol dire? Sono categorie vecchie di giudizio. Ci sono le cose belle e
quelle brutte. Ma vale per tutto» • «Il più shakespeariano dei nostri grandi giullari, il più chansonnier dei nostri artisti, il più brechtian-petroliniano dei nostri mattatori» (Rodolfo Di Giammarco) • «Proietti il vulcanico, il poliedrico, l’eclettico, così straripante che la sua unica mancanza è proprio il concetto di limite. Proietti sempre sospeso tra colto e popolare,
Kean e Petrolini, Cyrano e il Maresciallo Rocca. Cifra fondamentale della sua
comicità è il romanesco, una scelta precisa difesa con orgoglio di appartenenza, oltre gli
stereotipi. “Mi chiedono perché non parlo l’italiano, ‘parla più in italiano’ mi dicono. Non è che io non possa, non voglio, perché se io vorrei, ma sì vorrei, ahoo... certo anche il romanesco, quello bello, il vero dialetto
romano, non è più quello di una volta... e poi ci sono le canzoni romane. Sono tutte tristi,
tutte malinconiche e piene di disgrazie. è strano perché i romani, forse coprendo i loro sentimenti, quando parlano sono sempre un po’ graffianti, un po’ ironici, quando cantano invece sono tristi, ma tristi tristi”. Il fatto è che Proietti è meglio sentirlo che spiegarlo» (Raffaella Silipo)
• «Facevo l’università, Legge, da fuori corso, e intanto guadagnavo lavorando la notte in un
complessino. Alla fine del 63 mi chiamò Cobelli che metteva in piedi con Maria Monti un cabaret alla tedesca e aveva
bisogno di uno che suonasse e cantasse. Debuttai all’Arlecchino, l’attuale Teatro Flaiano, con testi di Flaiano, Arbasino e Vollaro, e rimanemmo
tre mesi. Poi Cobelli mi chiamò per un’estiva, gli Uccelli di Aristofane. A fare l’Upupa eravamo candidati io e Piera Degli Esposti. La spuntai. Una botta di
fortuna. Piovvero altre offerte. Ci fu il periodo del teatro impegnato, Nella giungla della città di Brecht, Dio Kurt di Moravia» • «Per mettere a punto certe espressioni ci ho messo ore e anni di tempo. Dilato,
asciugo, sfumo, rielaboro. La mia faccia è un grafico senza niente lasciato al caso. Calibro tutto perché mi veda bene anche lo spettatore dell’ultima fila. Devo parlare col corpo, col viso, con gli occhi. Mi sento un
artigiano. Ho avuto inizi lunghissimi, ero antipatico per la mia pignoleria,
studiavo i fiati sentendo Charlie Parker perché sono nato jazzofilo, avevo in odio il genere dialettale e popolaresco, facevo
Gombrowicz, Moravia o la sperimentazione di Quartucci, poi mi chiamarono però a sostituire Modugno in
Alleluja brava gente, m’accorsi che si poteva parlare a 1600 persone tutte assieme e allora mi misi in
testa di fare un teatro d’autore e d’attore che arrivasse a molti: ci riuscii al Teatro Tenda con A me gli occhi, please, e lavorai anche con Carmelo Bene al Sistina. Ma la televisione non funzionò: dicevano che ero bravo ma non “bucavo”, non passavo. Sempre perché ero antipatico. E forse avevano ragione. Non a caso Eduardo scelse per un suo
seminario il tema della Simpatia. M’è rimasta una scarsa confidenza con la telecamera, con la cinepresa: per curiosità ho fatto film con Citti, Brass, Bolognini, Monicelli e anche con Tavernier o
Altman. Diverso è il fenomeno di
Febbre da cavallo... Il film di Steno ebbe un esito normale. Dopo una quindicina d’anni la pellicola fu però riesumata dalle tv private, e diventò un cult-movie, tale da far nascere molti fan club» • «L’unica cosa che non sa o non vuole fare è scriversi i testi. I suoi mezzi sono sempre al servizio di altri autori:
brandelli di classici, poesie, canzoni, barzellette. Di questo repertorio ha
sempre fatto parte Ettore Petrolini, di cui riprende spesso numeri più o meno classici» (Masolino D’Amico) • «Ogni tanto qualcuno afferma di avere scoperto la nuova Anna Magnani, il nuovo
Gassman, il nuovo Sordi. Quando dicevano di Petrolini “discende dalla commedia dell’arte” lui rispondeva: “Io discendo solo dalle scale di casa mia”. E così anche a me piace dire di me. è evidente che nessun attore nasce dal nulla e che nel teatro non esiste niente
di nuovo. Diceva Petrolini, “torniamo all’antico, faremo un progresso”, e io ad esempio preferisco essere un antiquario più che un robivecchi. Con questo spirito mi sono divertito a scomodare ogni tanto
il teatro dell’attore che precede il teatro dell’organizzazione registica, dove l’interprete è diventato sostituibile. Io penso che ci debba essere ancora spazio per un
teatro in cui il progetto sia l’attore stesso. Petrolini e Viviani lo prevedevano. C’era anche il teatro di testo, di Pirandello, Rosso e tanti altri: strade
parallele. Petrolini era talmente convinto dell’autoralità dell’attore in quanto elemento fondante della “rappresentazione”, che teorizzava l’idiozia, il gioco di parole, il vuoto assoluto di senso. Uno spappolamento del
linguaggio. O sennò uno “slittamento”: l’uscita dell’attore dal personaggio, il dialogo improvvisato col pubblico, e la rientrata nel
personaggio (“è tutto un entrà, un uscì, entra, esci... certe correnti d’aria!”, citazione dal mio
A me gli occhi, please), ed era, non so quanto consapevolmente, vicino alle teorie dello straniamento
brechtiano. Ma gli intuiti di Petrolini derivavano dall’esperienza pratica, dalla scena, non da teorie a tavolino. Quindi lì la prassi precede il sistema, e l’artigianato diventa arte. Io non ho niente a che vedere con Petrolini Ettore,
però nel mio recente spettacolo per i settant’anni dalla sua morte Ma l’amor mio non muore (unico omaggio, m’è parso, a un mito nazionale come lui) mi sono creato un mio Petrolini, perché altro non avrei potuto fare. Nessuno sa quale era il suo vero approccio alla
recitazione, il suo carisma, i suoi tempi. Ricordo un critico che diceva che io
petrolineggiavo perché parlavo molto rapidamente. Petrolini, credo, fece rapidamente solo Fortunello,
per il resto fu il dio delle pause lunghissime (basti guardare il suo Medico per forza: una parola ogni minuto, e silenzi addirittura imbarazzanti). Una volta
Fellini, che veniva spesso a vedere A me gli occhi, please alla Tenda di piazza Mancini a Roma, mi disse: “Tu non devi usare testi complicati e faticare per renderli comprensibili.
Casomai fai il contrario, usa testi elementari e dagli spessore”. Allora non capivo, ora mi sembra di cominciare a capire... Questa forma di
teatro d’attore, che poi è squisitamente petroliniana, fa leva su un artista che racconta se stesso, e che
potrebbe non dire niente, fare solo dei grammelot. Petrolini da lontano m’ha insegnato che il teatro non può confondersi con la letteratura, sono cose addirittura opposte. Io mi rifaccio
ai suoni petroliniani che vengono fuori dai dischi, che però presentano una deformazione fonografica. Chissà che timbri aveva, probabilmente era tenore e io sono basso. Certo è che non lo imito: basti aver visto la sintesi che ho appena fatto di
Benedetto fra le donne, commedia sua cui m’ero già rivolto in Caro Petrolini, ispirato anni fa da Ugo Gregoretti, con un personaggio che forse era
realistico e patetico, che io ho trattato invece come una marionetta. Ma chi d’altronde può dirsi erede di Petrolini? Dopo la guerra, mentre trionfava il teatro
strutturato con testi e ruoli, nel varietà solo qualcuno, volendolo o no, ne seguiva le tracce: Ci avete fatto caso di Aldo Fabrizi, il nonsenso, le filastrocche e le macchiette di Rascel. D’altra natura è l’attore-autore solitario tipo Dario Fo. Petrolini quando entrava in scena
modificava lo spazio, e con Ronconi, che amo, è obiettivamente più difficile far vedere che sei entrato. Importante, il concetto dell’elementarità del teatro raccomandata da Fellini. Io sono dell’avviso che anche Shakespeare a suo modo può essere elementare, e dipende dall’angolazione con cui ti ci avvicini: non è elementare la parte barocca, ma le storie tipo Otello sì. Se penso alla scena dei giorni nostri, questa elementarità di storie sgorga dalle epopee popolari montate in forma di monologo da uno come
Ascanio Celestini (anche se il suo è un linguaggio solo apparentemente elementare), abituato a una confidenza col
pubblico che alla lontana somiglia al rapporto diretto di Petrolini con la
platea. Io pure ho avuto questa tentazione coi classici: con Cyrano, mi sarei
levato il naso per far capire che c’era il trucco, salvo a deludere perché il mio naso è grosso come quello finto. Eh, i trucchi del teatro. Petrolini conservava
gelosamente anche un doppio volto del mondo della critica. Eduardo lo andò a trovare negli ultimi tempi lamentandosi d’una stroncatura, e il grande attore romano rispose “Quello è uno che chiede i soldi. Io c’ho la prova, c’ho una lettera”. Eduardo subito: “Me la devi dare”. Petrolini: “No”. Eduardo: “Dai, dammela”. Petrolini:“«La tengo nel primo cassetto del comò”. Eduardo: “Allora me la dai?”. Petrolini: “Rùbbemela”. Ecco, Petrolini dovrebbe essere studiato in Accademia, ma come genere
irriproducibile, come un Kean popolare. E l’aneddoto tra lui e Eduardo vale per tutta la tecnica, la bravura di cui fu
capace. Petrolini non dava via la sua arte: tutt’al più, andando d’intuito, gliela si può rubare»
• Dicevano «bravo, per carità, ma non “buca” il piccolo schermo», poi è arrivato lo strepitoso successo de Il maresciallo Rocca: «Mi sono preso una bella soddisfazione. Doppia. Perché abbiamo avuto successo con la qualità, se ne parla tanto in televisione, perché manca. Invece noi, nel nostro piccolo, abbiamo conquistato il pubblico senza
tradirlo. Il maresciallo Rocca piace perché è un italiano medio, perché tutti si possono identificare, perché fa i salti mortali per arrivare a fine mese. Ha gli stessi problemi di milioni
di italiani. Interpretandolo, ho cercato di essere “semplice”. L’ho imparato sulla mia pelle, non è facile. Come attore agli inizi tendevo a esagerare, ad arricchire. Quando
lavori di sottrazione raggiungi il cuore del personaggio. Per me è stato così: soprattutto nelle scene familiari, quello è il vero Gigi Proietti. Vengono fuori le mie battute. Recitare Rocca mi viene
naturale. è un personaggio talmente scritto bene; insomma, non è “costruito”. E non si è stancato neanche il pubblico. Il ritratto di Rocca è quello della mia famiglia, una famiglia italiana come tante: grande onestà, pochi grilli per la testa. Rocca rappresenta un certo tipo di italiano medio,
senza offesa, che poi sono milioni di persone. Sono storie quotidiane,
ambientate in provincia, la fotografia di un’Italia che esiste. Poi, lo dico sempre, Rocca non è Rambo. Non è carrierista, segue i casi, manda avanti la stazione dei carabinieri e gestisce
una famiglia, ormai allargata, abbastanza faticosa. Pover’uomo» (da un’intervista di Silvia Fumarola)
• Tifa per la Roma.