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 2011  luglio 06 Mercoledì calendario

PRODI Romano Scandiano (Reggio Emilia) 9 agosto 1939. Politico. «Non ho mai spaventato nessuno». VITA È capo del governo nel giorno in cui consegniamo questo libro (Prodi II) • È già stato presidente del Consiglio, dal 17 maggio 1996 al 21 ottobre 98 (a parte Ciampi, È stato il premier con la più breve carriera parlamentare alle spalle)

PRODI Romano Scandiano (Reggio Emilia) 9 agosto 1939. Politico. «Non ho mai spaventato nessuno». VITA È capo del governo nel giorno in cui consegniamo questo libro (Prodi II) • È già stato presidente del Consiglio, dal 17 maggio 1996 al 21 ottobre 98 (a parte Ciampi, È stato il premier con la più breve carriera parlamentare alle spalle). Eletto alla Camera nel 1996 e nel 2006. Ministro dell’Industria nell’Andreotti IV (78-79). Presidente dell’Iri dall’82 all’89 e di Iri spa dal 93 al 94. Presidente della Commissione europea dal 1999 al 2004 • Famiglia che risale al XV-XVI secolo, con un capostipite certo in Tognino de’ Prodi di Montebabbio (Giancarlo Perna: «Il Liber Focorum del distretto di Reggio Emilia annota già nel 1315 un Petrus de Gadaprodagis che farebbe pensare al cognome Prodi e alla località tuttora chiamata Ca’ de Prodi») • «Sette fratelli e due sorelle nati fra il 25 e il 41, tutti laureati, otto sposati, trentuno nipoti di cui due sacerdoti, 35 bisnipoti. La madre di Romano, Enrica Franzoni (lontana parente di sua moglie Flavia. Nessuna delle due ha niente a che fare con la Franzoni imputata del delitto di Cogne - ndr), maestra, faceva volontariato in parrocchia e nel Cid, associazione di donne per il reinserimento di ex prostitute. Mario, il padre ingegnere, veniva da una famiglia contadina. Provvedeva direttamente alle spese universitarie ma versava ogni mese una somma ai genitori per compensare il fatto che non lavorava la terra. Progettò il raddoppio della ferrovia Verona-Bologna, un secolo dopo ancora a binario unico. Al tavolo della casa di via Toschi, a Reggio Emilia, i fratelli studiavano tutti insieme. “Il silenzio ancora oggi lo distrae”» (Concita De Gregorio) • «Nel 1965 i fratelli maggiori acquistarono il cosiddetto Castello di Bebbio sulle colline a sud-ovest di Reggio. Un rudere con due torri simili a silos che, una volta restaurato, È diventato il punto di incontro di tutti i Prodi. Il Castello di Bebbio, il cui nome evoca il predicato familiare di Montebabbio, ha 50 letti sempre pronti. Non abbastanza per l’intera dinastia che, tra fratelli superstiti, mogli, figli e nipoti, comprende oggi 101 persone. Tutti suonano violini, flauti e viole, con l’eccezione di Romano, stonato dalla nascita» (Giancarlo Perna) • «Romano, meglio in dattilografia» (De Gregorio) • Alla fine della terza media i professori consegnarono ai suoi una lettera in cui gli si consigliava di non far proseguire gli studi al ragazzo (la moglie: «Mi indica sempre la buchetta di scolo dove l’ha buttata prima di rientrare a casa. Dev’essere anche per questo che È così ostile a un sistema scolastico che obbliga a scelte precoci e definitive» • «In matematica era zero. Un disastro. Non gli piaceva e non ne capiva. E non solo alle medie, dove all’inizio faticava anche in altre materie: pure al liceo quando era diventato il più bravo della classe e prendeva nove in italiano. Andava bene in greco, col professor Enrico Dossetti, il fratello del sacerdote. E benissimo in storia, la sua materia preferita. Faceva dei bei temi. Ma la matematica non gli andava giù […] “Personalità molto controllata, con rari scatti d’ira, che evita di accumulare malessere. E dal livello bassissimo di ostilità inconscia”, aggiunge Maria Prodi, sorella di Romano e neuropsichiatra. Insomma, un bradicardico della politica: battito lento, sangue non proprio bollente, resistenza alla fatica. Perché Prodi, anche fisicamente, È così: uno che soffre il freddo e subito si copre se tira un po’ d’aria, ma poi una volta in moto È come un diesel, ha più birra di tanti altri. Uno che, alla distanza, tiene. Noi lo conosciamo oggi ciclista di passo e uomo di footing, ma ai tempi della scuola non era quel che si dice un atleta e se i compagni giocavano a calcio, a pallavolo o a basket lui era per consuetudine riserva. “E comunque ultima scelta, quando si trattava di far le squadre a pari e dispari” puntualizza Gian Paolo Manenti, avvocato reggiano, in prima fila con Romano dalle medie fino al liceo, il compagno di banco che raccontò le doti taumaturgiche della testa dello studente Prodi, “che tutti gli altri studenti carezzavano prima di andare interrogati, perché portava bene. Era un sistema infallibile. E lui non se ne aveva a male, si divertiva del rituale e non si scocciava mai”. Scherza Aldo Rovati, ex cestista, amico fraterno da una vita: “Prendiamo Romano sugli sci. Non È un modello di classe, se ne sta rigido e legnoso sulle gambe, scia di forza, ma È impressionante per determinazione: alle otto È già fuori per andare in pista e non molla fino a sera. Non riesci a stargli dietro. Resistere È il suo mestiere e alla fine si convince perfino di avere uno stile”» (Cesare Fiumi) • La famiglia abitava in una casa di proprietà del Pci. Il funzionario che riscuoteva l’affitto, Rino Serri, sarà sottosegretario agli Esteri (in quota Rifondazione) nel primo governo Prodi • Durante gli anni del liceo conosce e frequenta Giuseppe Dossetti, il padre spirituale dei cattolici di sinistra e fratello del suo professore di greco, e, nella parrocchia di San Prospero di Reggio Emilia, Camillo Ruini, futuro capo dei vescovi italiani, che nel 69 lo unirà in matrimonio a Flavia Franzoni. Si diploma con la migliore licenza liceale di tutta l’Emilia • Giurisprudenza alla Cattolica di Milano («ma se tornassi indietro stavolta mi iscriverei a Economia»), convittore all’Augustinianum (dove anni prima era stato anche Ciriaco De Mita). Sono suoi compagni i futuri ministri Flick e Treu. Tesi con Siro Lombardini sulle barriere doganali: «Mentre tutti in Italia studiano l’ultima variazione della teoria del valore di Sraffa, lui si mette a studiare l’industria delle piastrelle a Sassuolo, e diventa per tutti, politici e industriali, l’economista che parla di cose che si capiscono» (Edmondo Berselli). Specializzazioni alla London School of Economics, a Harvard e a Stanford. Diventa assistente di Nino Andreatta nella facolta di Scienze politiche a Bologna e ottiene nel 71 la cattedra di Economia politica e industriale. Andreatta, che sarà il suo protettore fino all’ultimo (vedi), lo introduce nella casa editrice Il Mulino, che riunisce l’intelligenza della città e ha dato un importante contributo alla formazione della classe dirigente del Paese • «Andreatta farà molto per lui, ma senza dargli più di tanto confidenza. Ha sempre dato e preteso il lei da Romano. Dispettoso per natura, inventava continui espedienti per marcare le distanze. Da ministro degli Esteri di Ciampi nel 93, non telefonava mai personalmente all’allievo, come usa tra parigrado, ma lo faceva cercare, come un sottoposto, dai telefonisti della Batteria, la segreteria generale del Palazzo politico. Prodi, che sedeva sullo scranno di presidente dell’Iri, inghiottiva senza fiatare, ma imbestialito assai» (Perna) • È stato consigliere comunale di Reggio Emilia dal 1964 al 1970, unico periodo in cui ha avuto la tessera della Dc • Nel 1978, durante il sequestro Moro, Prodi si presentò a piazza del Gesù, dove aveva sede la Dc, e raccontò a Giovanni Galloni, vicesegretario del partito, che Moro doveva trovarsi a Gradoli, una piccola città del viterbese. Alla domanda su come sapesse una cosa simile, rispose che la parola “Gradoli” era uscita fuori da una seduta spiritica che si era svolta pochi giorni prima (domenica, 2 aprile 1978) nella casa di campagna del professor Alberto Clò (che sarà ministro nel governo Dini), località Zappolino, a 30 chilometri da Bologna. Tredici convitati avevano fatto girare un bicchierino o una tazzina o un posacenere su un foglio di carta su cui erano state scritte le lettere dell’alfabeto e le anime di don Sturzo e Giorgio La Pira, evocate, alla domanda su dove fosse Moro, dopo aver risposto — facendo correre il bicchierino o il la tazzina o il posacenere da una lettera all’altra — Viterbo e Bolsena, avevano decisamente e ripetutamente composto la parola Gradoli. Come È noto, la polizia, che aveva inutilmente messo sotto assedio la cittadina di Gradoli nel viterbese, scoprì pochi giorni dopo un covo delle Brigate rosse in via Gradoli a Roma, dove era effettivamente stato rinchiuso Moro. Prodi, che si rifiuta di parlare ancora di quell’episodio, non ha mai cambiato versione sulla fonte della notizia. Cossiga: «Non c’era piuttosto qualcuno depositario di confidenze che si era inventato la seduta spiritica per trasmettercele senza correre rischi? In realtà la fonte era uno studente dell’Autonomia. L’equivoco tra il paese e la via nacque nel passaggio della notizia da una fonte all’altra» (Bruno Vespa) • Nominato ministro dell’Industria il 25 novembre 1978 al posto di Carlo Donat-Cattin, capo della corrente democristiana Forze nuove e appena eletto vicesegretario del partito (dunque incompatibile col posto al governo): per impedire l’ingresso nell’esecutivo di un altro forzanovista (sarebbe stato Giuseppe Sinesio), il presidente del Consiglio Andreotti e il segretario della Dc Flaminio Piccoli accettarono il suggerimento di Andreatta e nominarono ministro Prodi, conosciuto allora per l’episodio di via Gradoli e per una serie di collaborazioni giornalistiche con Avvenire, Sole 24 Ore, Corriere della Sera. Faceva comodo in altri termini far entrare al governo un tecnico. Da ministro, Prodi promulgò il 3 aprile del 1979 la legge sulle ristrutturazioni aziendali che porta il suo nome: quando È a rischio di chiusura un’azienda di importanza nazionale si può procedere al salvataggio anche in deroga alle procedura fallimentari, per esempio consentendo accorpamenti con altre aziende del gruppo sane (in pratica, in un sistema, basta una pedina buona per consentire il salvataggio delle pedine cattive) • Cessata l’esperienza di ministro, fonda Nomisma, società di ricerche economiche, sulla falsariga dell’Ariel e della Prometeia di Andreatta. “Nomisma” era un’antica moneta bizantina. Molte commesse da Bnl, banca dei socialisti, presieduta in quel momento da Nerio Nesi. Perna: «Nomisma cresce subito tumultuosamente. Estende la sua clientela molto al di là della Bnl e diventa in breve la società intellettuale più in vista d’Italia, con una legione di teste d’uovo alle dipendenze. Prodi È il factotum e il presidente del Comitato scientifico, ossia supremo responsabile delle ricerche strapagate dai clienti. Quanto gli studi siano validi, È cosa discussa. Ma intanto le soddisfazioni sono molte, finché non accade un incidente. Romano nell’autunno dell’82 diventa improvvisamente presidente dell’Iri con cui Nomisma aveva scambi fruttuosi. Frequente il passaggio di studiosi prodiani alle società irizzate per ricoprirvi cariche di presidenti o amministratori; numerose le società Iri clienti di Nomisma. Gli intrecci aumentano con l’arrivo del Nostro e le commesse per Nomisma si moltiplicano. Ce n’È quanto basta per ipotizzare l’interesse privato in atti di ufficio. Il pm romano Luciano Infelisi apre l’inchiesta sulla base di lettere anonime e di una interrogazione del deputato Staiti di Cuddìa. Emerge che Prodi, pur a capo dell’Iri, manteneva la presidenza del consiglio scientifico di Nomisma e che società Iri, Italstrade, Sip, Italsider, ecc., stipulavano contratti di ricerca miliardari “per favorire Nomisma e Prodi”. Nell’85, Infelisi rinvia Romano a giudizio. Tre anni dopo, il giudice Mario Casavola lo proscioglie». La sentenza di proscioglimento si basa tuttavia su un cavillo: poiché i contratti di consulenza con Nomisma sono stati stipulati da società dell’Iri e non dall’Iri in prima persona, il comportamento del presidente, ancorché censurabile (perché «È indubbio che alcune commesse furono volute da Prodi per aiutare Nomisma che aveva bisogno di lavorare») non configura reato. Casavola aggiunge però: «L’inchiesta ha consentito di dedurre... la scarsa attinenza delle consulenze agli scopi istituzionali delle società (Italsider, ecc.)... Una volta compiute, non sembra siano state lette e utilizzate». Il giudice cita le testimonianze di diversi amministratori delegati delle aziende clienti, «nessuno dei quali ha ritenuto di leggere» le valutazioni di Nomisma e conclude: «Questi giudizi danno corpo a sospetti generalizzati di consulenze richieste a fini clientelari». Anche per quello che riguarda la convenzione tra ministero degli Esteri e Nomisma (sei miliardi di compenso) il giudizio di Casavola È negativo: «La convenzione riguardava un settore di ricerche nelle quali Nomisma non vantava alcuna competenza specifica [...] Nomisma ha formulato una duplicazione di strutture per consentirsi una duplicazione di introiti [...] Il Comitato scientifico, il Comitato metodologico, l’Osservatorio, richiamati nel frontespizio delle pubblicazioni, quasi a mostrare una struttura complessa e ramificata, sono in realtà la stessa cosa, con gli stessi ricercatori e con gli stessi compiti [...] Il compenso era previsto per la direzione scientifica e per coordinamento come se fossero realtà diverse [...] invece, sono sempre le stesse persone a operare [...] La ricerca era organizzata con la lettura di testi richiesti in prestito a biblioteche [...] e con contatti con il ministero degli Esteri. Gli aggiornamenti sono per due terzi ripetitivi...». Per la storia di Nomisma, Prodi fu censurato anche dal CdA dell’Iri. La Corte dei Conti criticò la pratica delle consulenze, che l’Iri assegnava benché avesse al suo interno persone assolutamente capaci di fare le ricerche di cui c’era bisogno • Restò presidente dell’Iri dal 1982 al 1989, «sette anni in cui l’Iri ottiene fondi per 41 mila miliardi di lire, una volta e mezzo ciò che aveva incamerato dalla fondazione» (Perna). Durante questo periodo tenta di vendere la Sme (vedi DE BENEDETTI Carlo); dando retta a un grido d’allarme degli Agnelli, impedisce alla Ford di comprare l’Alfa Romeo e lascia che se ne impossessi la Fiat (una scelta molto discussa ancora oggi); vende il Banco di Santo Spirito alla Cassa di risparmio di Roma (operazione che avvia il processo da cui nascerà alla fine Capitalia: ma anche il prezzo e la procedura senza gara di questa prima vendita sono molto contestati); avvia la chiusura dell’attività siderurgica e mette mano a parecchie altre privatizzazioni. «Ho fatto 33 privatizzazioni; quando ho fatto la trentaquattresima hanno privatizzato me e mi hanno mandato a casa» • Richiamato all’Iri da Ciampi (presidente del Consiglio) nel 93, subito dopo che i giudici di Milano hanno arrestato il presidente Franco Nobili per la faccenda dei fondi neri, subisce un violento interrogatorio da parte di Di Pietro. «Avendo una conoscenza evidentemente approssimativa delle Partecipazioni statali, i magistrati di Milano ritenevano che l’Iri fosse la cassaforte della Dc, come l’Eni lo era del Psi. In realtà mentre le gigantesche transazioni internazionali consentivano all’Eni di muovere somme enormi di denaro in tutto il mondo e quindi di accantonare con relativa facilità “provviste” illecite, l’Iri era soprattutto un gigantesco centro di potere clientelare, meno soldi, ma tanti posti di lavoro. Di Pietro aveva convocato Prodi domenica 4 luglio 1993. Nonostante fosse stato scelto il giorno festivo per garantire all’incontro la necessaria riservatezza, qualcuno aveva avvertito i cronisti, che sentirono nitidamente le minacciose contestazioni a voce altissima mosse, come d’uso, dal magistrato al testimone: “I soldi alla Dc chi glieli ha dati?”. Prodi rimase interdetto e l’indomani, mentre la Borsa crollava per la notizia (falsa) di un suo arresto imminente, si precipitò al Quirinale per segnalare a Scalfaro il trattamento subito. Questa volta il capo dello Stato si mosse. “L’avviso di garanzia È diventato una condanna implacabile” disse “e il carcere deve essere l’eccezione e non la regola”. E mentre L’Espresso reagiva a questo elementare richiamo garantista titolando in copertina “Operazione Mani legate”, i magistrati di Milano proseguivano tranquillamente per la loro strada» (Bruno Vespa). Filippo Mancuso, che era in quel momento membro del Comitato di consulenza giuridica dell’Iri, dice che Prodi dopo l’interrogatorio lo chiamò per chiedergli consiglio sul memoriale da consegnare a Di Pietro preparato dal suo difensore, professor De Luca. Mancuso dice di essersi rifiutato di leggerlo e di aver raccomandato a Prodi di non far nomi di persone innocenti che avrebbero potuto essere coinvolte nell’inchiesta. Prodi avrebbe risposto: «“Io me ne fotto. Io devo salvare a ogni costo me stesso e non devo preoccuparmi d’altro” […] Facendo poi l’esatto contrario del consiglio ricevuto, Prodi presentò ai pm Totò Di Pietro e Paolo Ielo un dossier folto di nomi. Cinquantatré pagine sul suo settennato all’Iri, in cui si assolveva da tutto incolpando invece Craxi, Gianni De Michelis, Giuliano Amato, il pm Infelisi (che lo aveva indagato per Nomisma), e perfino Berlusconi, reo di aver ostacolato la svendita della Sme all’ing. De Benedetti» (Perna) • Chiamato alla presidenza del Consiglio da Scalfaro alla caduta di Berlusconi (gennaio 95), deve rinunciare perché Mario Segni, che dovrebbe fargli da vice, rifiuta sperando che, caduta l’ipotesi Prodi, l’incarico vada direttamente a lui (andrà invece a Dini). Si guadagna qui, però, non solo la nomea di tecnico (dai contorni politici talmente sbiaditi che An pensò per un certo periodo a lui per un qualche incarico durante il primo governo Berlusconi), ma anche, per la prima volta, la qualifica di “risorsa” spendibile addirittura per Palazzo Chigi. Si deve tener conto del fatto che la stagione di Mani Pulite ha reso difficile da gestire, in termini di comunicazione, il politico puro. C’È poi nel centro-sinistra la certezza — che determinerà anche le scelte future — che solo un cattolico possa raccogliere intorno a sé un numero di consensi sufficiente e che nessun ex comunista abbia speranza di entrare a Palazzo Chigi sulla base di un voto. Infine Prodi, non potendo essere attribuito del tutto a nessuna forza politica e non essendo di conseguenza neanche collocabile al seguito di alcun capocorrente, rappresenta la soluzione intermedia ideale, quella che pareggia la partita tra i vari leader in campo. Si aggiungano a questo le difficoltà del Partito popolare (Ppi) la più grossa formazione nata sulle ceneri della Dc e il cui segretario, Rocco Buttiglione, vuole accordarsi con Berlusconi. L’insieme di queste circostanze porta quasi naturalmente Prodi a rivestire i panni del leader di centro-sinistra da contrapporre a Berlusconi nelle politiche del 96 • Nonostante avesse preso 300 mila voti in meno del centro-destra, il centro-sinistra vinse in termini di seggi quelle elezioni e Prodi entrò a Palazzo Chigi. Aveva la Lega all’opposizione e Rifondazione nella maggioranza, ma non nel governo. I punti di crisi erano sostanzialmente due: la Bicamerale e la situazione economica. La Bicamerale (su cui vedi anche D’ALEMA Massimo) era soprattutto terreno di scontro dei leader di centro-sinistra, la posta essendo la leadership della coalizione futura (Prodi era ancora vissuto come una soluzione temporanea in attesa di un rendiconto complessivo di là da venire). La situazione economica era resa più grave del solito dalla necessità di centrare i parametri stabiliti a Maastricht per essere ammessi nell’area euro (e in particolare il famoso rapporto deficit/Pil non superiore al 3%). Nel 97 ai 32 mila miliardi di manovra normale, si aggiunsero altri 30 mila miliardi di tassa per l’Europa (che saranno poi parzialmente restituiti). Questa finanziaria e altri risparmi consentirono a Prodi di centrare un obiettivo enorme, quello dell’ammissione all’euro, con un cambio di 1936,27 lire per euro che gli avversari hanno in seguito contestato come troppo duro ma che È risultato nei fatti l’unico ammissibile (vedi anche CIAMPI Carlo Azeglio). Però la necessità di contenere la spesa, un ventilato intervento sulle pensioni, l’annuncio di una finanziaria 98 altrettanto severa e “inemendabile” e anche il voto sulla missione in Albania (in ottemperanza alla risoluzione 1101 l’Italia avrebbe dovuto mandare un contingente in Albania per garantire tra l’altro libere elezioni: Rifondazione votò contro e il provvedimento passò col soccorso del centro-destra) resero sempre più difficile il rapporto con Bertinotti, la cui preoccupazione maggiore sembrava quella di restare schiacciato sull’azione di governo, perdere visibilità, non raccogliere più il consenso della parte più a sinistra del paese. Dopo un’estate molto tormentata, Prodi decise di far chiarezza e pose la fiducia sulla finanziaria. Era il 9 ottobre 1998 e Bertinotti annunciò che avrebbe votato contro. Rifondazione si spaccò (nacque in quell’occasione il Partito dei comunisti italiani di Cossutta e Diliberto) e la vigilia del voto passò in un calcolo estenuante su quanti voti avesse davvero a quel punto il governo. Prodi era convinto di avere il vantaggio di un voto (314 a 313), ma la conta del 9 ottobre mostrò che invece era sotto di uno: il governo venne battuto per 313 a 312, grazie al “no” di Silvio Liotta, di Rinnovamento (Dini), subito espulso dal partito (ci furono polemiche anche per l’assenza del presidente della Camera Irene Pivetti, rimasta a casa ad allattare la figlia Ludovica Maria, nata da pochi giorni). L’Udr di Cossiga avrebbe potuto appoggiare il governo solo se Prodi avesse chiesto esplicitamente il suo voto, cambiando così il perimetro della maggioranza. Ma Prodi non volle e, intervistato di recente, ha difeso quella sua scelta sostenendo che la sconfitta tattica era ampiamente ricompensata dalla vittoria strategica: non aver snaturato l’indirizzo di fondo della sua azione politica e la relativa politica delle alleanze • Prodi È stato fin da allora, infatti, un convinto assertore dell’unificazione a sinistra, sintetizzata nel nome Ulivo. In pratica, la volontà di dare forma partito al vecchio accordo tra cattolici e sinistra riformista (stavolta rappresentati principalmente dagli ex comunisti) • Fu, la caduta del 9 ottobre, anche il risultato di un complotto ordito da D’Alema e Franco Marini, di cui Bertinotti non sarebbe stato che lo strumento? Fabio Martini: «La leggenda nera sembrava scritta una volta per sempre. E raccontava così: una mattina d’ottobre del 1998 Romano Prodi - il re buono e amato dal suo popolo - venne brutalmente detronizzato da un complotto, ordito dai cortigiani Massimo D’Alema e Franco Marini e materialmente eseguito dal tribuno del popolo Fausto Bertinotti. Via via si sono accumulate testimonianze, interviste, libri e retroscena inediti che disegnano un puzzle un po’ diverso da quello mitico della prima ora. Al punto che la stessa teoria del complotto risulta ridimensionata o quantomeno va riscritta. Certo - come ha riconosciuto Francesco Cossiga “la sequenza degli eventi che portò alla crisi, sarà un rompicapo per gli storici del futuro” - ma oramai alcuni dati essenziali risultano acquisiti. Il primo: non È mai esistito un “Piano Solo” e tantomeno una precisa “ora X” in cui far saltare Prodi. Esisteva - È vero - un’intesa tra D’Alema e Marini per superare il governo in carica, ma non c’era un piano operativo, l“intentona” sarebbe dovuta genericamente scattare nel corso del 99 e dunque molti mesi dopo l’ottobre 98. Certo, l’intesa tra i due segretari di partito era molto, molto solida. E a tal riguardo non trapelò allora uno stupefacente scambio di battute tra Prodi e D’Alema, il giorno dello scambio delle consegne. Siamo alla fine di ottobre, Massimo D’Alema È appena entrato a Palazzo Chigi e durante il rituale scambio di informazioni riservate tra presidente uscente ed entrante, Prodi si sente chiedere dal nuovo premier: “Scusa, ma Marini non ti aveva informato che prima o poi ci sarebbe stato un cambio della guardia?”. E Prodi: “No, Marini non mi aveva informato...”. Un episodio eloquente che però va affiancato a tanti altri, di segno diverso, che dimostrano come la vittima sacrificale, il professor Prodi, da un certo momento fece molto ma non tutto, pur di evitare la sconfitta e in qualche modo si lasciò immolare. Pur di cadere in piedi. Come dire che la categoria vittima-carnefice poco si adatta a questa intricatissima vicenda. Il primo episodio inedito risale alle feste di Natale del 97. Romano Prodi, a palazzo Chigi da un anno e mezzo, È impegnatissimo per fare entrare l’Italia nell’euro e in quelle settimane nessuno parla di staffette. Eppure il segretario del Ppi Franco Marini, con procedura inusuale, invita i ministri e i massimi dirigenti a l’Aquila, in un ristorante fuori città “per farci gli auguri di Natale”. Una cena pantagruelica, che dura sei ore e poi, verso mezzanotte, il vecchio Franco la dice tutta: “Non È all’ordine del giorno, ma prima o poi i Ds potrebbero pretendere una staffetta a palazzo Chigi. Come faremo a dire di no?”. Nel cuore della gelida notte abruzzese, si apre un dibattito caldissimo. Anche se la cosa più sorprendente resta la data: ancora dieci mesi dovranno trascorrere prima che Prodi cada e Marini sa già che la Quercia È inquieta. E la comprende. E Prodi? Nelle prime settimane del 98, il Presidente del Consiglio comincia ad avvertire il malumore dei partiti che lui stesso aveva ripetutamente “provocato” con nomine decise in piena autonomia e con una gestione ulivista del governo. Ma nella primavera il premier apprende una novità: “Da maggio sapevo che con Bertinotti non c’era più nulla da fare”, racconterà. E ad eccitare i comunisti contribuisce anche D’Alema, che ai primi di giugno comincia a parlare di “fase due” del governo. E se D’Alema dice “più uno”, a Bertinotti non resta che dire “più due”. Il vero logoramento del governo comincia in questo momento. Ed È proprio in queste settimane che il premier comincia a chiedere - molto riservatamente e infatti non se ne seppe nulla - con quali tempi e modalità sarebbe stata rinnovata la Commissione Europea e dunque, già quattro mesi prima della sua caduta, il premier comincia ad accarezzare l’idea di un prestigioso trasloco. Ma naturalmente Prodi non molla. Per l’autunno caldo, punta tutte le sue fiches su Armando Cossutta che “già a luglio garantì la scissione”, secondo quanto ha raccontato Fabrizio Rondolino, allora vicinissimo a D’Alema. Anche se la promessa iniziale di Cossutta (“Con me verranno in 24”) risultò superiore alla realtà, visto che i deputati scissionisti saranno 21. Prodi invece non ne vuol sapere di afferrare la ciambella di salvataggio che gli lancia Francesco Cossiga con la sua Udr, che aveva già “regalato” i propri voti al governo sull’allargamento della Nato e sul Dpef. Nei giorni che precedono lo show down Massimo D’Alema non si tira indietro pur di salvare il governo e a fine settembre chiama Prodi da Buenos Aires: “Accetta il sostegno di chi ha votato il Dpef”, dunque di Cossutta e Cossiga. Ma alla vigilia del voto alla Camera, fissato il 9 ottobre, si svolge una chiacchierata decisiva tra due sassaresi che non si amano, Francesco Cossiga e Arturo Parisi, braccio destro di Prodi a palazzo Chigi. All’ex presidente della Repubblica che offre i propri voti purché siano esplicitamente richiesti e purché il governo si dimetta dopo la Finanziaria, Parisi risponde: “Caro Francesco, se dobbiamo perdere, perdiamo alle nostre condizioni”, meglio cadere subito piuttosto che “farsi logorare”. E proprio questo È uno dei passaggi clou di tutta la vicenda: nelle ore che precedono il voto di fiducia Prodi pensa che il 9 ottobre si possa vincere o perdere “ma non perdersi”, per dirla con Parisi e dunque “meglio restare fedeli al mandato degli elettori, piuttosto che vivacchiare, farsi logorare”. Naturalmente, gli amici del Presidente cercano di convincere gli incerti e la notte dell’8 ottobre Prodi telefona a Irene Pivetti, mamma da pochi giorni. È lei a chiedere al Presidente del Consiglio: “Il mio voto È indispensabile?”. E Prodi: “Potrebbe esserlo”. La Pivetti: “Con un solo voto il governo avrebbe vita grama”. Prodi: “Lo vedremo in seguito”. La Pivetti: “Il mio voto deve essere richiesto”. Prodi: “Ma lei non fa parte della maggioranza?”. La Pivetti: “Ma sta scherzando?”. Prodi: “Insomma sta dentro o fuori?”. La telefonata finisce male, preludio del voto di fiducia, che l’indomani viene mancato per un solo voto. La sera del 9, Prodi torna a Bologna in treno, ma l’indomani mattina si vede arrivare in casa D’Alema. Che consiglia: “La partita non È chiusa, chiediamo il reincarico”. Prodi non chiude, ma l’indomani sembra gettare la spugna col famoso “No, no, no!”, urlato nel comizio di Bologna» (Fabio Martini) • Mandato da D’Alema a fare il presidente della Commissione europea (modo per non averlo intorno nel 2001, al momento delle elezioni), ha evitato di logorarsi nelle battaglie politiche successive, ma non s’È tenuto lontano al punto di essere dimenticato. Suoi uomini, capeggiati dal fido Arturo Parisi, gli hanno fatto da testa di ponte e lui stesso, da Bruxelles, ha osteggiato per quanto gli era possibile Berlusconi, al punto di guadagnarsi dagli oppositori l’accusa di essere anti-italiano. È anche riuscito a non compromettersi (evitando di pronunciarsi) su due grandi questioni di principio: la faccenda dei valori cristiani posti a fondamento della Carta europea (concetto rimasto fuori dalla bozza preparata da Giscard d’Estaing e bocciata dal referendum in Francia e in altre consultazioni nazionali); il referendum sulla fecondazione assistita che metteva in conflitto la sua appartenenza cattolica e la sua collocazione nel centro-sinistra • Sulla sua esperienza di presidente della Commissione europea: «A Bruxelles sembrò travolto dal debutto. Nei primi mesi i colleghi della Commissione si chiedevano come avesse fatto a reggere l’Italia. Mario Monti li rassicurava: dategli tempo, vedrete che verrà fuori. È il famoso teorema del Prodi-diesel che soccorre quando lo si ascolta parlare troppo lentamente in tv: si vorrebbe scuotere il televisore pur di sbloccarlo, salvo poi vederlo prevalere. Si era presentato a Bruxelles con l’obiettivo di “chiudere la distanza tra la (ricca) retorica europea e la (povera) realtà” e nel primo anno, complice “lo sforzo di lavorare in tre lingue”, sembrò che la distanza si chiudesse al contrario. La stampa straniera lo faceva a pezzi con metodo, tutte le mattine, il suo passato all’Iri, gli intrecci di consulenze di Nomisma, tutto appariva compromettente. Compreso essere italiano: il Times arrivò ad accusarlo di collusione con la camorra. Poi lo scoprirono andare al lavoro in bicicletta, convocare i breakfast informali del mercoledì per creare spirito di corpo nella Commissione prima delle riunioni ufficiali, organizzare cene spontanee per i colleghi con le mogli e invitarli a Bebbio tra le camerate dei settanta nipoti. La Bbc raccontò con evidente stupore di averlo sorpreso a leggere un romanzo. L’esperienza di Bruxelles È finita in crescendo, l’euro, l’allargamento, la Costituzione. Delle ultime tre Commissioni (da Santer e Barroso) sarà ricordata come la migliore, anche se un importante esponente tedesco dice con rimprovero tipicamente teutonico: troppa politica e pochi dettagli, non sempre preparava i dossier, si accontentava di affermare gli ampi principi politici delle decisioni comuni» (Carlo Bastasin) • Ricorrendo alle primarie, che i capi del centro-sinistra non volevano, ha sgombrato il terreno dalle ambizioni dei suoi concorrenti (in primis Rutelli, divenuto suo acerrimo avversario all’interno della Margherita), raccogliendo il 75 per cento dei voti di un elettorato sorprendentemente vasto (quattro milioni di persone) che il 16 ottobre 2005 fecero capire chiaramente che il loro leader preferito era Prodi. Dopo quel voto, Rutelli, fino a quel momento contrario alla formazione di un partito unico della sinistra e dunque non disponibile alla presentazione di una lista unica alle elezioni, si rassegnò a un listone marchiato Ulivo per la Camera, mentre per il Senato i vari partiti del centro-sinistra continuarono a correre in ordine sparso. Dopo il voto, si vide che l’Ulivo aveva preso più voti di quelli raccolti separatamente dai partiti. Un risultato che ha rafforzato i fautori della nascita di un partito democratico, che riunisca le forze moderate del centro-sinistra (in sostanza Margherita e Ds). Prodi, che non È iscritto a nessun partito, spinge fortemente in questa direzione. I prodiani all’interno della Margherita sono tuttavia nettamente in minoranza (su questo vedi anche RUTELLI Francesco) • Presentatosi alle politiche del 2006 a capo di una coalizione di nove partiti e con un programma di 281 pagine, ha vinto di pochi voti sia alla Camera (poco più di centomila) che al Senato (24 mila). Ha dovuto perciò far contenti tutti gli alleati e varare l’esecutivo più numeroso della storia, 101 membri, e affossare in pratica la riforma Bassanini che aveva ridotto i ministeri a dodici. Quanto alle due maggioranze parlamentari, alla Camera la situazione È risultata gestibile grazie al premio in seggi previsto per la coalizione vincente dalla nuova legge elettorale proporzionale voluta negli ultimi mesi di legislatura dal centro-destra. Al Senato invece, dandosi i premi di maggioranza regione per regione, s’È verificata una situazione di pareggio in cui il governo riesce alla fine a prevalere solo grazie ai voti dei senatori a vita e dei rappresentanti delle circoscrizioni estere. Molte polemiche ha suscitato il fatto che, al momento delle elezioni del presidente, abbia votato anche Scalfaro, che in quel momento presiedeva l’Assemblea. Il governo nei primi tre mesi di legislatura ha dovuto chiedere la fiducia sette volte, fatto che ha provocato l’indignazione del centro-destra e qualche dichiarazione preoccupata del presidente della Repubblica Napolitano • Nei primi tre mesi, il governo ha mostrato un interessante propensione a dar voce alla classe dei consumatori, finora del tutto ignorata dalle forze politiche. Un decreto Visco-Bersani, infatti, liberalizza in parte la vendita dei farmaci (ammessi anche nei supermercati), abolisce le tariffe minime degli avvocati e tenta anche di introdurre elementi di concorrenza nelle licenze dei tassi. Le resistenze a questi cambiamenti sono state molto forti e, per quanto riguarda i taxi, ad esempio, un tenace lavorìo del sindaco di Roma Veltroni ha fatto in modo che ogni intento liberalizzatore in questa materia venisse vanificato. Sull’altro versante, lo stesso decreto mostra una volontà forte di aumentare la pressione fiscale e una propensione al controllo stretto sulla vita dei cittadini (sono state proibite le transazioni in contanti e si È introdotta una normativa, non si sa quanto applicabile, in base alla quale ogni rapporto di natura commerciale «deve lasciare traccia») • Anche se nel 1996 ha pronunciato la frase «Non sarò il cameriere che luciderà le maniglie di casa Agnelli» esiste una corrente di pensiero che ne fa sostanzialmente un uomo Fiat. Quest’idea si appoggia sui seguenti fatti: era molto legato ad Andreatta a sua volta molto legato alla Fiat, che pagava fior di consulenze alle sue società Ariel e Prometeia; diventò ministro dell’Industria nel IV governo Andreotti anche grazie all’appoggio di Umberto Agnelli (ottenuto per il tramite di Andreatta); da presidente dell’Iri bloccò le mire della Ford sull’Alfa e lasciò che se la prendesse — a un prezzo tuttora contestato — la Fiat; da presidente del Consiglio (Prodi I) ha disposto incentivi per la rottamazione delle auto vecchie che hanno obiettivamente aiutato la Fiat; anche la nomina di Renato Ruggiero — certamente uomo Fiat — a consulente per l’Europa, nel settembre 2006, può essere vista sotto questa luce • È sposato con Flavia Franzoni dal 69. Hanno due figli (Giorgio e Antonio). FRASI «Quando pedalo tra le nostre colline so riconoscere, da come sono piantati gli alberi ai bordi delle strade, dove passava il confine con lo Stato pontificio, fra la trascuratezza della mano pubblica e la cura dei campi» • «Quando la Margherita si fa corrente, perde voti: il suo elettore la vota perché rappresenti una grande soluzione per il paese, non perché si riduca a un partito di nicchia». COMMENTI «Berlusconi-Prodi È una di queste coppie di nemici solidali dove l’uno È l’altro dilatato, come lo furono, in un audace florilegio di paragoni che ci permettiamo, Coppi e Bartali per esempio; o Togliatti e De Gasperi, moderati in un universo smoderato di guerre civili fumanti; o ancora Berlinguer ed Almirante; o, se preferite, Manzoni e Foscolo. Sono moltissime le coppie italiane di fratelli-coltelli, popolarissime ed emblematiche come gli attori comici Boldi e De Sica per esempio, coppie magari scoppiate, ma con una febbre che li unisce, una complicità d’occasione mai voluta, mai costruita. Si sa per esempio che Berlusconi È galante e libertino, amante degli scherzi goliardici e delle barzellette, come un signorotto frivolo, mentre l’altro È decisamente schivo, fa fatica a ridere, ha paura dell’eccesso, non frequenta l’ironia. L’uno È uno spaccone lombardo, il Paul Newman della Stangata brianzola, e l’altro È cauto, non come un “curato” ma come un “curatore” coscienzioso e timoroso dei beni affidatigli. Ebbene, il loro punto comune È la vicinanza ai beni e alla “roba” molto più che alla politica e alla fantasia del potere. E infatti ai tempi della Prima Repubblica, già avversari, erano entrambi sacerdoti dell’economia, l’uno di quella pubblica che si piega al dirigismo solidaristico di Stato, l’altro di quella privata a cui si piega lo Stato» (Francesco Merlo) • «Dopo Ciampi, È Prodi la persona che meno capisce di politica, ma È uno degli uomini più furbi che io conosca. Allevato come me in sacrestia, dice le bugie meglio di Berlusconi. Non dico che siano bugiardi: dico solo che dicono bugie. Se si presenteranno in futuro da un lato il Polo delle libertà, dall’altro il pasticcio prodiano, mi sa che voterò per Rifondazione. Non perché “rifondarolo” ma tanto per essere fedele a una tradizione storica» (Francesco Cossiga) • «Romano Prodi ha un sistema nervoso pazzesco. Al primo duello tv È arrivato con 40 minuti di anticipo e nell’attesa si È addormentato. La volta dopo per evitare che si rilassasse troppo gli abbiamo fatto prendere tre caffé (Angelo Rovati, responsabile della segreteria tecnica di Prodi) TIFO Torinista • «Maggio era il suo mese dell’anarchia: stava per ore a giocare al pallone poi si metteva “in spontanea autopunizione, a letto senza cena”» (la moglie Flavia) • Sul ciclismo: «Mi È sempre piaciuto il ciclismo, almeno quello all’antica, raccontato dai gregari piuttosto che dai capitani. Perché il campione che ricorda, È sempre concentrato su di sé. Invece il gregario era uno che si guardava intorno, dunque aveva sempre più da raccontare. Storie di fatiche, ritardi, cotte. Storie di sofferenze, e di insofferenze verso capitani esigenti e magari poco generosi. Ecco, adesso mi piacerebbe sapere dove sono quelli come Giovannino Corrieri, che a Bartali ha dato gli anni migliori della vita, oppure sapere cosa fanno quelli come Sandrino Carrea, che in salita spianava la strada a Coppi […] Per un certo tempo ho anche cullato la speranza, l’illusione, di poter diventare un corridore. Conservo l’ordine d’arrivo di una classica di queste parti, la Reggio Emilia-Casina, 27 chilometri, 500 metri di dislivello, nel 1955. Primo Adorni Vittorio, il cognome e poi il nome, perché così tutto sembrava più importante. Dodicesimo Prodi Romano. Tempo, se la memoria non m’inganna, sui 58 minuti. Gareggiavo su una vecchia, già allora, Frejus, colore chiaro, una corona davanti e tre pignoni dietro. Gli altri vantavano già due corone davanti. Non per accampare scuse, ma Adorni aveva, oltre che molto più talento e gambe, anche un anno più di me ( Prodi ha poi posseduto solo biciclette Bianchi — ndr) […] Il ciclismo È così: più ti stanchi e più ti rilassi, più sudi e più ti rinfreschi, più soffri a salire e più godi nello scendere. Il ciclismo ti prende e ti restituisce, ti ruba e ti regala. Pretende fatica e dona emozioni» (da un’intervista di Marco Pastonesi) • È andato in bici fino a Santiago de Compostela, non però da Bologna (3500 chilometri) ma da Ronsisvalle, raggiungendo il santuario in sette tappe da 140 chilometri al giorno. Aveva con sé sei amici. Le mogli erano con loro, ma hanno fatto il pellegrinaggio in automobile. VIZI Distratto: «Una volta, quando era ministro dell’Industria, lo invitai per un pranzo... Ma sbagliò data e si presentò con ventiquattro ore di anticipo. Lo ricevetti in vestaglia» (Maria Girani, vedova Angiolillo) • Va pazzo per il pane tostato con ricotta e miele • A detta di molti suoi colleghi dei tempi dell’università, non dimentica ed È vendicativo.