Il Catalogo dei viventi 2007, 6 luglio 2011
PROCLEMER
Anna Trento 30 maggio 1923. Attrice. Soprattutto di teatro (vastissimo repertorio),
un lungo sodalizio anche sentimentale con Giorgio Albertazzi, per la tv ha
fatto (tra l’altro) L’idiota (59) • In teatro qual è il suo personaggio preferito? «Ne ho fatti tanti, dalla Figlia di Iorio di D’Annunzio alla Santa Giovanna di Shaw, a Chi ha paura di Virginia Woolf a Giorni felici di Beckett» • «Le repliche mi piacciono molto. Non è mai una ripetizione pedissequa, si vive una storia diversa, di sera in sera. A
volte uno non è in forma, è malato, e ha una serata felice; poi uno sta benone e la serata è scialba» (da un’intervista di Alain Elkann) • «Volevo chiamarmi Anna Mozart. A 18 anni la Lux Film mi fece un contratto per uno
di quei filmetti orrendi della stagione dei “telefoni bianchi”. Ma siccome c’era la guerra e io avevo un nome straniero, me lo fecero cambiare. Avevo
cominciato ad ascoltare musica molto presto, all’età in cui i ragazzi di oggi vanno in discoteca: e scelsi Mozart. Però neanche quello andava bene. Così decisi per Vivaldi, che era stato appena riscoperto» (da un’intervista di Alfredo Gasponi)
• «Mi piaceva molto sedurre, ma della conquista non sapevo che farmene, mi piaceva
sapere di piacere e basta. Vorrei ricordare tra i miei amori Tommaso Landolfi,
che è durato due anni. Ho lettere bellissime, mi avevano chiesto di pubblicarle ma
gli eredi non hanno voluto» • è stata sposata con lo scrittore Vitaliano Brancati (24 luglio 1907-25 settembre
1954). «Nel 41, a Roma, mi ero iscritta alla facoltà di Lettere e Filosofia, e, volendo da molti anni recitare, mi sono precipitata
al Teatro dell’università, Guf si chiamava allora, dove stavano provando un suo atto unico: Le trombe di Eustachio, una satira dell’Ovra, in pieno fascismo… E difatti ebbe dei guai: andò in scena, ma poi fu proibito. Ero una intellettuale rampante. Pur essendo molto
giovane, mi affascinava tutto della cultura. Avevo già letto il Don Giovanni in Sicilia, che era uscito nel 40. Leggevo Eugenio Montale, Thomas Eliot. Mi davo anche un
po’ di arie. Questo scrittore così famoso, così piccante, mi interessò molto. A me sembrava vecchio, aveva 35 anni. Io ne avevo 16 di meno. Non era
questa enorme differenza, ma a quell’epoca un uomo di 35 anni era un uomo maturo. E nell’ambiente universitario, in mezzo a tutti quei ragazzotti camerateschi... Nel
primo capitolo di Paolo il caldo, lui racconta questo incontro. Si innamorò perdutamente. Non me lo disse. Mi scrisse una lettera, poco dopo esserci
conosciuti, una delle più belle lettere d’amore, credo, che si possano leggere nella letteratura. Mi chiese di sposarlo.
Io desideravo fare teatro, finalmente ero arrivata a recitare. Per quanto fossi
molto lusingata, gli risposi di no in modo goffo. Dopo il mio rifiuto, tornò a Catania, dove ci siamo incontrati di nuovo nel 45, finita la guerra: andai lì per fare un film,
Malia, con Gino Cervi, Rossano Brazzi, Maria Denis e lo rividi. Ero combattuta: avevo
paura di essere distolta dal teatro. A lui, d’altra parte, l’idea di una moglie attrice che va in giro non lo entusiasmava. Dopo un periodo
abbastanza acceso, decidemmo di sposarci, nel luglio di un anno dopo. La
giornata era divisa in modo molto regolare. Si alzava abbastanza presto,
leggeva i giornali, lavoricchiava. A mezzogiorno si andava a via Veneto dove ci
si incontrava con gli amici: De Feo, Pannunzio, Patti, Talarico, il pittore
Bartoli (sto parlando di quando c’ero anch’io; spesso ero fuori, con suo grande dolore). Il pomeriggio lavorava. La sera,
verso le 7, si tornava a via Veneto, da Rosati, alla libreria Rossetti, o si
andava a piazza del Popolo. Generalmente si cenava con gli amici. Il nostro era
un rapporto molto curioso e, in un certo senso, pericoloso, perché eravamo di una estrema educazione e… non so… diplomazia. Credo che fosse molto geloso, quando mi allontanavo. Ma non me lo
disse mai. Cercavo di assentarmi il meno possibile. Ogni tanto mi chiamava il
Piccolo di Milano e andavo: io ne ero felicissima; lui era infelicissimo.
Sarebbe stato un amante straordinario. Mi sono sposata vergine: fa un po’ ridere, perché avevo 23 anni. Ero poco esperta. E per lui ero una donna un po’ angelicata. Mi aveva molto idealizzata. Aveva un rispetto tale che limitava le
effusioni: aveva timore di contaminarmi. Sarebbe potuta andare meglio, se non
mi avesse considerata, o lo avesse fatto meno, una Madonna su un altare. Perché il rapporto si esaurì? Ah, non lo so. Non cambiò nulla: né in lui né in me. Avevo bisogno di star sola: è una necessità ciclica. Era talmente irrazionale e poco spiegabile che inventai che mi stavo
innamorando di un altro, e non era vero. Ne soffrì enormemente. Andai in un piccolo appartamento che era stato di mia nonna: una
specie di cantina dalle parti di piazza Quadrata, dove mi sentivo terribilmente
felice. Ci vedevamo, andavamo fuori con gli amici, a cena, lui veniva a casa
mia, io andavo a casa sua a vedere nostra figlia che gli avevo lasciato, ma a
volte tenevo con me. Non era stata una separazione terrificante, non c’erano interessi di mezzo. E quando andò a Torino, per operarsi, andai con lui. Stemmo lì alcuni giorni perché doveva fare delle analisi. Dormii nella stessa camera, la sera prima dell’operazione. Morì sotto i ferri. è stato una guida importante. Mi ha fatto conoscere tante cose, e poeti,
scrittori» (da un’intervista di Luigi Vaccari)
• Da ultimo (2005) è andata in scena con Albertazzi, un testo quasi pornografico di Léauteaud, recitato con gran passione da due ultraottantenni, e la regia di
Ronconi.