Il Catalogo dei viventi 2007, 6 luglio 2011
PIVANO
Fernanda Genova 18 luglio 1917. Scrittrice. Traduttrice. Saggista. Colei che ci ha fatto
conoscere la grande letteratura americana, in particolare i beat • «Mio nonno, che era scozzese, è stato uno dei tre fondatori della Berlitz School» • Il padre, banchiere, fu rovinato dal regime fascista: la moglie lo trovò un giorno con la rivoltella fumante in pugno e un proiettile nel materasso: «Papà non era stato capace di spararsi, ma neppure di sopravvivere alla rovina. Tirò avanti ancora un poco, spegnendosi» • «Sembrava di stare in una casa vittoriana. Papà tradiva la mamma e lei era sempre in lacrime» • «Mi sono trasferita da Genova a Torino nel 29, avevo dodici anni. Era la città più diversa da Genova che si potesse immaginare. Non c’era il mare, non vedevo come a Genova un grande parco di magnolie. A Torino la
mamma piangeva perché non c’era il mare e io piangevo perché vedevo piangere la mamma. Da più grande, devo dire che ero diventata molto bellina in quell’epoca, ho avuto come professore di liceo Cesare Pavese che mi ha insegnato a
studiare sulla Storia della letteratura di Momigliano e di De Sanctis. Mi aveva
insegnato il mestiere del traduttore facendomi vedere un libro di Faulkner che
stava traducendo e insegnandomi a sottolineare di rosso le parole che dovevo
cercare sul vocabolario e di nero quelle che erano le ripetizioni. Mi ha
insegnato a conservare nella traduzione italiana le ripetizioni del testo
originale, cosa che è sempre stata il mio trucco professionale. Hemingway mi ha mandata a chiamare
perché aveva saputo che le SS tedesche mi avevano arrestato perché avevano trovato in una retata alla casa editrice Einaudi il mio contratto di
traduzione per
Addio alle armi che era stato vietato dal governo fascista e nazista. Ogni mattina a Cortina e a
Cuba dalle cinque del mattino a mezzogiorno mi permetteva di stare vicino a lui
mentre lavorava e mi insegnava a tagliare intere pagine per raggiungere quella
scrittura semplice di cose semplici e di personaggi semplici che è stata la sua gloria. Ho vissuto l’utopia beat fino al collo, ma non mi sono né drogata né ubriacata né ho scopato sulla scia della liberazione sessuale» (da un’intervista di Alain Elkann)
• «Con Pavese non c’è mai stato nulla. Non è vero quanto hanno scritto, che lui fosse innamorato di me. Era supplente al mio
liceo, il D’Azeglio, a Torino. Ci diceva: leggete Croce, leggete De Sanctis. Io andai a
cercare i loro libri nella biblioteca di mio padre e li portai a scuola. La
nostra storia è cominciata così. Quando tornò dal confino, denutrito perché aveva soldi solo per il pane e per l’uva, lo incontrai in piscina. Avevo appena fatto il tema della maturità, contro la retorica del regime, “mettiamo fiori nelle canne dei fucili” avevo scritto proprio così, e il professore che portava un distintivo fascista mi aveva dato 3. Peggio di
me era andato solo Primo Levi: 1. “Perché vuole studiare letteratura inglese signorina? è più interessante quella americana”, mi disse Pavese. Io gli chiesi quale fosse la differenza. Rispose: “Io ho portato la letteratura americana in Italia, e le assicuro che c’è differenza”»
• «Fu Pavese a mettermi in mano l’Antologia di Spoon River della quale feci la prima traduzione. E fu sempre lui a consigliarmi di fare la
tesi di laurea sul Moby Dick di Melville. La scena fu comica. Il professore che mi aveva già bocciato l’idea di fare un lavoro su Whitman — perché mi disse “che non avrebbe mai permesso a una signorina di buona famiglia di occuparsi di
cose stravaganti” — accettò con riserva Melville. Quando lo proposi reagì dicendo: “Certamente sarà un omosessuale questo Melville. Faccia la tesi su Moby Dick, ma dica chiaramente che la balena è il diavolo, è il perverso. Ha capito?”. Raccontai la storiella a Pavese e fu la prima volta che lo vidi ridere» • «Conobbi Nicola Abbagnano. Ero molto carina e a lui piacevano le ragazze belline.
Non era un problema per me la corte di un signore per bene. A me la cosa che
affascinava era quel suo modo di discutere di esistenzialismo. Oddio, è vero che non scese mai alle profondità di Heidegger. Ricordo che definì Sartre un ballerino della filosofia e spesso mi diceva: “Legga Jaspers, lì troverà le verità che cerca”. Il fascino di Abbagnano secondo me risiedeva nel fatto che il suo
esistenzialismo ti dava una speranza. Se vivi a lungo sotto un regime di
oppressori come fu il fascismo, è bello ascoltare qualcuno che ti parla di libertà»
• «Tutto accadde in coincidenza con il rovinoso crollo finanziario di mio padre. Io
avevo già pubblicato per Einaudi la traduzione di Spoon River e il fatto che in casa
ormai scarseggiassero i soldi mi avvicinò alla casa editrice torinese. Ricordo che Einaudi mi fece un contratto di 50
mila lire per la traduzione di Addio alle armi. Cominciai a lavorare per loro dall’interno. Se non eri snob e antifascista non stavi lì dentro. O non ti facevano entrare. Giulio era bravo. Bravo, odioso e
insultante. Ma non sbagliava quasi mai. Possedeva un intuito straordinario per
i libri. E io lo rispettavo molto, anche se era veramente ignorante. Non mi
sono mai accorta della sua bellezza. Di affascinante aveva quel modo di parlare
con un filo di voce. Una vocetta insinuante, cattivella, da despota mascherato
da innocente»
• «Conobbi Faulkner. Forse il più grande fra gli scrittori americani. Incontrai Dos Passos ed Henry Miller. Lo
conobbi a New York, era insieme a AnaÏs Nin che era molto carina e che invidiai per la sua relazione con Miller. Lui
era un uomo fantastico per il quale persi un po’ la testa. Ricordo che mi disse: “Quando parli con qualcuno che ti interessa non guardargli mai la bocca ma gli
occhi e impara a leggerli, capirai se ti sta dicendo cose vere”»
• «Un giorno di tanti anni fa andai a vedere la casa in cui si suicidò Hemingway. Scese da una scala per andare a prendere il fucile in cantina. E
mentre scendeva cantava una canzoncina che io gli avevo insegnato: “Tutti mi chiamano bionda, ma io bionda non sono, porto i capelli neri, sui
sentieri dell’amor”. è stato molto duro apprendere questo dettaglio» • «Con Hemingway non c’è mai stato nulla, neanche un bacio. Non è vero quanto hanno scritto, che lui mi chiese in moglie. “Tell me about the nazi”, parlami del nazismo, mi disse. Mi chiamava la sua Giovanna d’Arco. Parlavamo la sua lingua, un misto di inglese, spagnolo e francese, con
qualche parola di italiano. Lui preparava la fine. Quando andò in India, prese una camera sopra quella in cui si cremavano i cadaveri, per
fiutare la morte»
• «Pavese si ammazzò per poca vita, Hemingway per troppa e quindi poteva ricordare che cosa aveva
perso. Due o tre giorni prima di morire mi telefonò e disse: “Nanda non posso più andare a caccia, non posso più fare all’amore, non posso più bere, non posso più scrivere”. E poi si è ucciso» • è stata a lungo sposata con Ettore Sottsass: «L’unica cosa che voglio dimenticare della mia vita è il matrimonio» • «Io vivo sognando, specialmente da sveglia».