Il Catalogo dei viventi 2007, 6 luglio 2011
PERICOLI
Tullio Colli del Tronto (Ascoli Piceno) 2 ottobre 1936. Pittore. Illustratore.
Disegnatore. Vignettista. «Io mi sono sempre avvicinato alla pittura con passi da ladro» • «Ho imparato a disegnare prima di tutto da Ernesto Ercolani, pittore di Ascoli,
direttore della Pinacoteca della città. Andavo da lui il pomeriggio e lui mi insegnava. Dovevo copiare gessi e, cosa
ben più difficile per via dei riflessi, bronzi. Ercolani mi lodava, mi incoraggiava e,
soprattutto, non mi perdonava. “Non ti pare che il collo vada più piegato, mica tanto, uno-due centimetri?”. Il disegno magari era finito, ma per via della testa che andava posizionata in
modo esattissimo (e non c’era scampo) dovevo ricominciare daccapo. Tremendo e meraviglioso. Ero così perso in quei pomeriggi che mi bocciarono due volte, in prima e in seconda
liceo, e mio padre andò a dirgli di lasciarmi perdere. Ma io non lasciai perdere. Ci andavo di
nascosto. Del resto corne farne a meno? È lui che mi ha insegnato a guardare e a vedere. Poi c’È stata un’esperienza molto singolare. In Ascoli a quell’epoca, il 55-56, c’erano le pagine locali di due quotidiani, Il Messaggero e Il Resto del Carlino.
Il Resto del Carlino vendeva settecento copie e Il Messaggero trecento. In
tutto mille. Da Roma chiamarono un bravo giornalista ascolano, Carlo Paci, e
gli diedero carta bianca, purché recuperasse lo svantaggio. E tra le tante cose che gli vennero in mente ci fu
quella dei cosiddetti “ritratti alla città”, cioÈ Carlo Paci mi incaricò di fare il ritratto agli ascolani in qualche modo in vista. Ogni giomo Il
Messaggero pubblicava in fondo alla pagina una striscia suddivisa in quindici
rettangoli e in ogni rettangolo c’era un profilo. Si procedeva per gruppi. Per esempio, oggi facciamo i camerieri,
domani quelli della Cassa di risparmio. Avevo mezz’ora di tempo. Paci telefonava, diceva: guardate, domani verso le tre viene
Pericoli, per favore dategli una mezz’oretta... I quindici prescelti si sedevano di fronte a me, stavano in posa due
minuti, io schizzavo il profilo e via. Se non li pigliavi erano guai, perché la seduta si svolgeva davanti a tutti gli altri e non sopportavo di fare
figuracce. In questo modo imparai a pigliare le facce. In ogni faccia c’È un particolare che la caratterizza. Se lo prendi, puoi fare del viso tutto
quello che vuoi. Mettergli un naso finto, tre orecchie, baffi, barba. Non
importa, la faccia È quella e quella resterà. A quell’epoca studiavo Legge come aveva voluto mio padre e col lavoro per Il Messaggero
lo aiutavo a pagarmi l’università a Urbino. Tanto contrario al disegno non era più. Purché, naturalmente, facessi l’avvocato. Lui era segretario comunale. Segretario comunale di Colli del Tronto,
provincia di Ascoli Piceno. In effetti, non mi si aprivano che due carriere: o
avvocato o segretario comunale in un comune, si sperava, un po’ più grande di Colli del Tronto. Questo nonostante a casa mia vedessero che ero
bravo a disegnare. Mia madre dice che disegnavo già prima di parlare. Ma che quella potesse diventare una carriera o una strada chi
poteva crederci? Da bambino poi disegnavo tutto il contrario degli altri
bambini, che con la matita rappresentavano ogni sorta di fantasticheria. Io
invece disegnavo come uno che copia, cercavo di fare le foglie e i fiori come
sono. Cercavo di imparare a capire la forma di una foglia o di un fiore e
disegnarli… Insomma, mancavano quattro esami alla laurea e mi dissi: qui, se mi laureo, È finita. Mollai tutto e scappai a Roma. Avevo fatto una mostra ad Ascoli ed era
venuta una giornalista del New York Times. Vista la mostra mi prese da parte: “Ah, ma quanto sei bravo, cosa te ne stai a fare in questo buco, devi
assolutamente andartene in una grande città”. E mi diede il biglietto da visita di un suo collega, il corrispondente romano
di Time. Se vieni a Roma, disse, vai da lui. Io venni a Roma, andai da lui, poi
all’Espresso. All’Espresso guardavano e dicevano: non c’È male, non c’È male. E dopo questo “non c’È male” non succedeva niente. Decisi di ripartire, abbastanza deluso, ma un
giornalista, non mi ricordo più chi, mi disse: manda un disegno piccolo a Zavattini, sai Zavattini raccoglie i
mini-quadri, tu fagli un 6x6, chissà, magari risponde... Feci questo 6x6 e glielo mandai. Zavattini rispose subito:
vieni a Roma a trovarmi. Presi il pullman e tornai a Roma con la mia cartella.
Zavattini vide. Esclamava: “Eh, ma che bravo! Eh, ma tu sei un artista! ma che Legge e Legge! smetti subito
di fare Legge, sai”. Poi disse: tu devi andare a Milano. Detto fatto, mi fece un biglietto di
presentazione per Giancarlo Fusco. Io avevo 90 mila lire in tasca. Con questi
soldi e il biglietto andai a Milano Era il 61. Fusco mi fece perdere un sacco
di tempo. Ci si divertiva, si usciva la sera, ma di presentarmi a qualcuno non
se ne parlava. Finalmente una notte, era mezzanotte passata, dice: beh, andiamo
da Rozzoni. Rozzoni era il vicedirettore del Giorno. Pure lui disse che le cose
che facevo non erano male. E mi fece cominciare. Con un’illustrazione per una storia di gangster scritta da Fusco. Era una cosa lontana
dal mio gusto. Però… Feci qualcosa di più congeniale quando dovetti illustrare “I racconti della domenica”. C’erano le prime
Cosmicomiche di Calvino, racconti di Pasolini, Bassani, Primo Levi e tutti gli altri che
allora scrivevano su quel magnifico quotidiano. Mentre disegnavo dipingevo
anche… ma È roba di cui forse non si dovrebbe parlare. Pittura materica, fatta con degli
impasti e colori spessi così. Con lo spessore della pittura parlavo di rapporti con la terra... Insomma io
mi consideravo un autore, cioÈ uno che dice le cose che ha da dire adoperando i pennelli, così come uno scrittore dice le cose che ha da dire adoperando le parole. Io lavoro
per lo più su commissione. Questo, rispetto agli altri pittori, cambia quasi tutto. Una
volta ho detto in un’intervista: la pittura senza committenti muore. Apriti cielo, c’È stato chi mi ha messo il muso. Quello che io volevo dire non era invece niente
di offensivo, però È difficile da spiegare. Insomma, viene da me il titolare di un’azienda e mi chiede un disegno per un poster o altro. Io lo preparo a modo mio,
in modo da dire quello che vuole il cliente, ma da dire anche quello che voglio
dire io. Una volta la ditta di mobili Unifor voleva che gli facessi la
campagna, allora dipinsi quel manifesto là dietro, quello con la faccia ricoperta di nasi, bocche, occhi di varia forma.
Quello che il manifesto significava in funzione dell’Unifor È che ci sono molti modi per arredare una casa anche se il disegno mostra molti
modi per arredare una faccia. Va bene, erano contentissimi. Più tardi, lo stesso disegno, pubblicato in un libro in Germania, fu visto dal
direttore e regista del Serapions Theater di Vienna e me lo chiese come
manifesto per un’opera sulla complessità dell’apparire. Successivamente fu usato dalla Rai come scena per un lungo dibattito
sulle filosofie marxiste nel post-marxismo e più tardi ancora lo ha adoperato l’Espresso per l’apertura di un servizio non mi ricordo più su quale argomento. Insomma, il manifesto conteneva quello che aveva voluto
dire il committente, ma conteneva anche e di più quello che ci avevo messo dentro io, al punto che, sfruttato una prima volta,
il disegno ha conservato una parte di vita per riapparire in nuove differenti
situazioni. Io vorrei dire ai ragazzi che frequentano le scuole d’arte: non cascate nella trappola delle etichette, per cui la pittura È buona, la pubblicità È cattiva, il fumetto È così e così, eccetera. Le arti non esistono, esistono gli autori. Non esiste committente
che possa impedirti di dire quello che hai da dire, se hai delle cose da dire.
Anzi, il committente può tirarti fuori cose che tu non sapevi di avere, perché se È venuto da te, vuol dire che ha guardato quello che hai fatto prima e ci ha
fatto dei ragionamenti sopra. Il committente, quando si presenta, ha un
rapporto con te molto più stretto, molto più serio di quello che può avere il critico. Io mi sento molto vicino a Cranach quando ritraeva Lutero o
Melantone e a Holbein quando incideva scene contro il Papa-Anticristo. Lo so
che gli altri artisti, riferendosi alla propria arte, non adoperano le stesse
categorie che adopero io. Quando parlano della loro arte, senti che ti invitano
a guardare il colore, le forme, i rapporti tra i volumi e le masse, le scale
cromatiche. Gli altri pittori ti mettono in guardia dalla realtà. Il contenuto del quadro non ha alcuna importanza, dicono, ciò che conta È solo la forma. Dicono anche: la pittura non si può capire che con la pittura... È roba vecchia, in voga molti anni fa, che non mi ha mai convinto. È vero che la pittura contiene tutte queste cose. Ma non È fatta solo di queste cose. La storia delle forme e dei colori la sapevano pure
gli antichi: e non ci stavano a perdere troppo tempo sopra, ma se ne servivano.
Voglio dire questo: che cosa andiamo cercando nell’arte, nella letteratura, nella musica, nel resto? Che ci lascino vedere
qualcosa, che ci facciano avanzare di un millimetro, che ci facciano capire un
minimo in più di quello che abbiamo capito fino ad ora. In definitiva vorremmo tutti
guadagnare una risposta in più per rubare un attimo alla vita. Io ho ripetuto fino alla noia un concetto di
Leonardo (e lo ripeto di nuovo): se un committente ti chiede un’opera, devi rappresentare quello che lui ti chiede, ma come pittore devi parlare
ai pittori. Quando fai una crocefissione, il quadro deve entrare nella storia
della religione e contemporaneamente nella storia della pittura. CioÈ ci sono due binari, su uno c’È la storia, la cosa che devi o vuoi rappresentare, la testimonianza che dai sul
tuo tempo e sulle idee che ti vivono intorno; sull’altro binario corre invece quello che stai facendo e dicendo in merito alla
lingua che adoperi, la pittura. Ora, dagli Impressionisti in avanti, È accaduto che il primo binario si È progressivamente trasformato in un binario morto, dove si pensa che non valga
più la pena di far correre il treno, dove si dubita anzi che il treno sia mai
passato. Piano piano si È arrivati al punto che i pittori dipingono solo per la storia della pittura, e
della critica, parlano solo ai pittori e ai critici (e ai collezionisti, che
però non sono committenti). Ciò che accade loro intorno, quello che vedono, sentono, amano, pensano gli uomini
del loro stesso tempo non avrebbe più alcuna importanza! Ma ci pensi ad un mondo in cui i libri trattano solo di
libri, il cinema solo di cinema, la televisione solo di televisione, la poesia
solo di poesia? A parte la noia, a chi gioverebbe? Io mi sono sempre avvicinato
alla pittura con passi da ladro. Oggi non si trova quasi più niente da rubare, tutto È così facilmente spiaccicato sulle tele, con tanta rapidità e superficialità che in un attimo capisci e te ne torni indietro a mani vuote»
• «Pericoli considera fondamentale l’anno 1985, in cui Giorgio Soavi e l’Olivetti lo incaricarono di illustrare un libro. Lui scelse Robinson Crusoe. Ma
fece una ricerca che andò oltre il libro e che fu raccolta in una ampia mostra al Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano. Qui i due Io dell’artista, quello che disegnava e quello che dipingeva, si incontrarono per la
prima volta e si misero all’opera insieme. Il disegnatore prese subito a lavorare su Robinson, il pittore
sull’isola. Presto i due Pericoli, che fino a quel momento s’erano ignorati e a mala pena sopportati, diedero corso a scambi ed effusioni. L’intesa s’È fatta da allora sempre più stretta. Chi ormai può più distinguere il disegnatore dal pittore? Intanto un frutto speciale di quell’amore fu proprio l’isola, effigiata in forma di mostruoso animale. Pericoli voleva fare qualcosa di
strano, di mai visto. Solo molti anni dopo scoprì che l’inconcepibile mondo di Robinson e di Venerdì non era altro che il monte dell’Ascensione, come si vede ad Ascoli dalla finestra dell’amico Mario Scatasta. Quando uno ricomincia a tirar fuori roba dell’infanzia senza rendersene conto, non È segno di una qualche felicità raggiunta? La casa dove Pericoli disegnava quando era bambino e copiava le
foglie e i fiori il più preciso possibile era a tre piani. Pericoli stava al terzo, in una grande
stanza, col tavolo di legno. Naturalmente il posto migliore era quel certo
angolo vicino alla stufa dove ci si rincantucciava con le matite e l’album. Fuori, la casa aveva un grande orto, e dopo l’orto si estendevano altri orti. Di orto in orto, andando a caccia, pigliando
nidi, verrà da lì l’aria meravigliosa che circola per i suoi acquerelli?» (Giorgio Dell’Arti)
• Ha raccolto molte delle sue opere in libri. Nell’ultimo (I ritratti, Adelphi, 2002, dedicato a Carlo Paci) si legge il seguente risvolto: «Ha tenuto numerose mostre in Italia e all’estero, e ha disegnto scene e costumi di L’elisir d’amore di Donizetti (per l’Opernhaus di Zurigo, 1995, e per il Teatro alla Scala, 1998) e Il turco in Italia di Rossini (ancora per l’Opernhaus di Zurigo, 2002). Tra i suoi libri: Woody, Freud und andere (1988), Ritratti arbitrari (1990), Attraverso il disegno (1991), Die Tafel des Königs (1993), Colti nel segno (1995), Terre (2000) e Nature (2002)» • Ha anche affrescato la sede della Garzanti in via Senato a Milano • Il figlio Matteo fa lo stesso mestiere del padre.