Il Catalogo dei viventi 2007, 6 luglio 2011
PASSERA
Corrado Como 30 dicembre 1954. Manager. Banchiere. Amministratore delegato di Banca
Intesa (dal 2002), incarico che ha assunto dopo aver lasciato le Poste Spa, di
cui è stato il numero uno operativo per quattro anni. In precedenza aveva lavorato
nel settore del credito come amministratore delegato del Banco Ambroveneto (che
si è poi fuso con la Cariplo dando vita a Banca Intesa) e prima ancora come
vicepresidente del Credito Romagnolo. Si è formato nella società di consulenza McKinsey, dove è stato per cinque anni, dall’80 all’85, per poi passare al gruppo De Benedetti, prima come direttore generale della
Cir, e poi, dal 92 al 96, come amministratore delegato della Olivetti. Si è occupato anche di editoria come direttore generale della Mondadori e
amministratore delegato del gruppo Espresso. Bocconiano dell’anno 2000 (si laureò nel 77)
• «Il Financial Times ha paragonato Corrado Passera al personaggio di Harvey Keitel
di Pulp Fiction: il pulitore. Dopo il regolamento di conti, arrivava lui a togliere i cadaveri
e rimettere tutto in ordine. Dicendo: “Sono Winston, risolvo problemi. A patto che facciate esattamente quello che dico”. Forse non era proprio il ruolo a cui pensava Giovanni Bazoli quando l’ha chiamato, nella primavera 2002, a prendersi cura di Intesa-Bci (come ancora
si chiamava la banca risultante dalla fusione tra Ambroveneto, Cariplo e Banca
Commerciale), ma gli calza a pennello» (L’espresso)
• «è alto 1.90, fisico asciutto, falcata arcuata e decisionista. Il 25 febbraio 98
Passera stava mettendo in piedi una banca telefonica privata. Pochi mesi prima
aveva lasciato la poltrona di amministratore delegato dell’Ambroveneto. Lo chiamarono Prodi, Ciampi e Maccanico (presidente del Consiglio e
ministri del Tesoro e delle Poste di allora). Le Poste erano state trasformate
in società per azioni, loro gli chiesero di risanarle [...] Viene da una famiglia
cattolica comasca ed è un prete, professore di seminario, l’educatore da lui più interrogato e ammirato nell’adolescenza. Poi c’è la famiglia. Suo nonno, preso ad esempio, era medico e non si faceva pagare dai
clienti poveri. “Se non fossi diventato dirigente d’azienda, avrei voluto fare il medico”. “Dopo il 68, a Como, ero stato presidente degli studenti per tre anni, tre anni
fantastici. Già da allora mi sentivo lontano dai puri distruttori, da quelli che erano solo ‘anti’. La prima delusione fu l’anno in cui persino alla Bocconi venne dato il trenta politico a tutti. Ma al
tempo stesso mi sembrava di essere il più estremista dei tradizionalisti. Mi piaceva ascoltare tutti e riuscire a guidare
un progetto comune. C’era sempre un rapporto leale e un senso di rispetto tra avversari”. Poi, anche per lui come per molti giovani italiani di quegli anni, la scoperta
dell’America come metafora del mondo degli adulti, dove si lotta per emergere, dove
accanto al bene c’è il male, dove i buoni spesso le buscano dai cattivi: e la scoperta, allora, che
buoni e cattivi sono alla pari soltanto nella meritocrazia. Che la società può essere ingiusta, che la posizione di partenza può essere diseguale, ma che alla fine chi è “bravo” (non “buono” o “cattivo”) viene avanti agli altri e può allora far valere i valori in cui crede. Laurea alla Bocconi, master alla
Wharton University di Filadelfia, primo impiego alla McKinsey italiana, famosa
pouponnière di dirigenti d’azienda. Di quel tempo gli restano pacchi di lettere di Cecilia, sei anni di
fidanzamento e oggi sua moglie e madre dei suoi figli. «La stessa settimana in cui mi offrirono di diventare partner nella McKinsey (un’offerta che rappresentava un riconoscimento molto gratificante: avevo 30 anni),
mi chiamò De Benedetti alla Cir. Ricordo ancora quel periodo di grandi sogni, di grandi
speranze di creare qualcosa di nuovo: non soltanto ricchezza (e pensare che con
Infostrada e Omnitel creammo decine di migliaia di miliardi di valore ex
novo!), ma un nuovo modo di essere in azienda, nei rapporti tra azienda e
società...”. Poi deve essere successo qualcosa su cui Passera preferisce sorvolare. Il
giovane ottimista puritano comasco deve avere inghiottito qualche delusione.
Dagli uomini, dai comportamenti. “Sono stato vaccinato”, dice senza sorridere: “Avevo accettato perché l’azienda stava per fallire: ma non mi aspettavo problemi tanto gravi, addirittura
con la giustizia. Ho lavorato giorno e notte. Mi sentivo internamente diviso.
Mia moglie mi disse che non poteva tollerare di vedermi tanto angosciato e in
conflitto con me stesso. Così, tre anni dopo, quando l’azienda avviata al risanamento tornò ad avere un grande patrimonio, me ne andai”. Passera viene cooptato all’Ambroveneto da un altro di quei cattolici difficili che hanno segnato la storia
maggiore e minore d’Italia, Giovanni Bazoli. C’è nei due l’aspirazione all’impegno per la collettività, la voglia di ottenere con la virtù risultati sfuggiti ad altri, l’insofferenza verso i prepotenti, i furbastri, i cinici, gli sleali. Si comincia
a capire cos’è successo quando un tipo così è arrivato alle Poste il giorno stesso in cui sono state trasformate in una
società per azioni, libera dalle pastoie della burocrazia pubblica» (Gianluigi Melega).