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 2011  luglio 06 Mercoledì calendario

PARLATO

Valentino Tripoli (Libia) 7 febbraio 1931. Giornalista. Del Manifesto • Aderisce al Partito comunista libico e nel 51 viene espulso dal Protettorato
britannico. A Roma, all’università, conosce Luciana Castellina. Diventa funzionario del Pci, poi giornalista all’Unità. Nei primi anni 50 è alla redazione di Politica e Economia, rivista della Federazione dei piccoli
commercianti. Pajetta lo porterà, infine, a Rinascita come redattore economico. Nel 67 viene espulso dal Pci con
gli altri fondatori del Manifesto • Famiglia siciliana, di Favara, nell’agrigentino. Il padre funzionario del fisco era stato mandato in colonia a tener
di conto: «Forse fu per caso, forse per amicizia che si ritrova nelle file del Pclc, dove
incontra molti buoni borghesi che in passato avevano aderito al fascismo. “Il capo del Pclc era…”. Libico? “No, napoletano: Enrico Cibelli, notaio, ex gerarca e gran donnaiolo, un tipo
formidabile che si era inventato la Rab, la Reale azienda banane, che
cominciava allora a organizzare il trasporto delle banane dalla Somalia”. Nessun imbarazzo a stare con ex fascisti tra i comunisti? “Come molti giovani venuti su nelle colonie io ero un nazionalista tiepido,
patriota sì ma senza eccessi. Quando sentii che si ricostituiva il Msi e che questi erano
diventati democratici, mi dissi: suvvia, diteci qualcosa di destra oppure
andate a quel paese. Così consumai la rottura col mio fascismo adolescenziale e mi ritrovai con il
Cibelli, che pure lui era passato da destra a sinistra. Come spesso accade
nella vita devo ringraziare la repressione, la lungimiranza del protettorato
inglese che, prima di rimettere sul trono Idris, ci mette tutti su una nave,
destinazione Italia. Pensa un po’, allora ero studente in Legge: se fossi sfuggito a questa prima ondata sarei
diventato un avvocato tripolino e quando Gheddafi m’avrebbe cacciato, nel 79, insieme a tutti gli altri, mi sarei ritrovato in
Italia, a quasi cinquant’anni, senz’arte né parte. Sarei finito a fare l’avvocaticchio per una compagnia d’assicurazione ad Agrigento, a Catania. Un incubo. L’ho veramente scampata bella”. Fu espulso con tre operai dell’Alfa Romeo, “la classe operaia”, il notaio sciupafemmine e un ufficiale postale di Tivoli che si portava dietro
una grande valigia piena solo di cravattini anarchici: era il più anziano e morirà sul continente alle prime avvisaglie del freddo. è un ventenne di belle speranze e di buona compagnia quello che sbarca a Roma nel
novembre 51. Con la banda dei pieds noir condividerà notti e bagordi di Carlo Ripa di Meana, come ha scritto il conte nella sua
autobiografia. All’università, alla sezione universitaria del partito, incontra Luciana Castellina. “Da allora siamo come Gianni e Pinotto. Un rapporto speciale”. Di grazia, chi è chi? “è veramente impossibile a dirsi. Abbiamo girato l’Italia in lungo e in largo, abbiamo potuto dormire nello stesso letto senza che
accadesse nulla, non ho mai allungato la mano”. Grande forza di carattere. “No, assenza di tentazione, fra di noi c’è l’amicizia assoluta”. Lei, l’amica, comincia a spacciarlo in giro come un partigiano della pace cacciato via
dalla Libia da quei noti guerrafondai d’inglesi. Lui comincia la sua ligia carriera di “funzionario povero” nel più ricco apparato comunista d’Occidente. Lo fa seguendo la destra migliorista di Giorgio Amendola: è “un amendoliano di sinistra” passato alla Realpolitik. Alle elezioni del 53 accetta di lavorare per la
federazione di Agrigento. Poi, quando gli propongono di restare come
funzionario e in prospettiva come futuro candidato al Parlamento, tentenna: è la sua morosa del momento, Clara Valenziano, che sarà sua moglie e da cui avrà due figli, Enrico e Matteo, a schiarirgli le idee. Se resti qui io ti mollo,
gli dice in sostanza. Le donne, Valentino impara presto che conviene starle a
sentire: Luciana, Clara, poi toccherà a Delfina Bonada, italiana nata in Svizzera che sarà la sua seconda moglie e madre di Valentina. Così torna a Roma. Trova lavoro all’Unità come corrispondente per la provincia. Si mette a fare il giro dei paesi in
quegli anni “in cui le adolescenti, se si mettevano i fazzoletti sulle tette, era per
sembrare più grandi e poter andare a lavorare come olivare”. Gli anni in cui “le bellissime ville aristocratiche dei Castelli erano piene di sfollati che
ascoltavano la radio, bevevano e cantavano e poi andavano tutti a pisciare
contro un unico muro, ridotto in uno stato che non vi dico”. Quando l’Unità entra in crisi, è il primo a perdere il posto. Bazzica la Federazione dell’associazione dei piccoli commercianti, nucleo originario della futura
Confesercenti, di cui diventa presidente onorario. E la Cna, la Confederazione
nazionale degli artigiani, che oggi è una potenza. La Federazione aveva una rivista, Politica e Economia, fondata da
Amendola e letteralmente copiata dai francesi: “Solo che quella francese si chiamava Economie et Politique e noi italiani,
paraculi, dicemmo no, la politica va al primo posto, non siamo mica
deterministi come quegli stronzi di francesi”. La rivista diretta allora da Eugenio Peggio non dura a lungo, appena due anni.
E Parlato trasmigra ancora, questa volta alla sezione economica del partito
dove ritrova Bruzio Manzocchi e lo stesso Peggio, con cui organizza un
convegno, importante per il Pci, sul capitalismo italiano. In quei mesi Luciano
Barca dirigeva la sezione del partito sull’organizzazione e aveva come vice Lucio Magri: “Stavamo tutti al quinto piano”. Alla morte di Togliatti, la direzione di Rinascita passa a Giancarlo Pajetta
ma in redazione ce ne sono due o tre che non lo sopportano e dicono che non
serviranno sotto i nuovi colori. Si liberano alcuni posti e Luca Pavolini, il
vicedirettore, affida a Parlato quello di redattore economico. Ci resterà fino alla fine, salvo un’interruzione di tre mesi nel 67 quando se ne va, con la paterna benedizione di
Pajetta, in Brasile per effettuare uno studio per conto della Banca mondiale.
Poi l’incontro con Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Magri, la costituzione del
Manifesto e l’inevitabile espulsione di quella che era la prima corrente organizzata interna
al Pci. “Non la presi troppo male, comunque meglio di Rossana e di Pintor”»
• Da questo momento in poi la biografia di Parlato coincide con quella del
giornale. Partecipa alla realizzazione del primo numero (23 giugno 1969,
edizioni Dedalo, 75 mila copie di tiratura) con Luigi Pintor, Aldo Natoli,
Luciana Castellina e Ninetta Zandegiacomi. I direttori sono Lucio Magri e
Rossana Rossanda. Sul secondo numero c’è un editoriale relativo alla rivoluzione cecoslovacca (“Praga è sola”) che accelera lo scontro con il vertice del Pci. Il 24 novembre 1969 il
Comitato centrale del partito radia Natoli, Pintor e la Rossanda, accusandoli
di frazionismo. Magri viene allontanato con un provvedimento amministrativo, a
Parlato e alla Castellina non viene semplicemente rinnovata la tessera. Il 28
aprile 1971, il Manifesto diventa quotidiano. Quattro pagine, una grafica di
straordinaria bellezza ideata da Giuseppe Trevisani, impianto su sei colonne
• Parlato è nominato direttore del giornale molte volte: dal 19 settembre 1975 al 30
novembre 1985 (in due periodi la sua direzione è affiancata da altri direttori, secondo una concezione di “direzione condivisa” che è tipica del Manifesto: dal 18 febbraio al 3 luglio 76 con Pintor, Ferraris,
Vittorio Foa, Castellina e la Rossanda; il 3 luglio gli restano vicine solo le
ultime due, però solo fino al 1 marzo 1978). Poi di nuovo dal 1 gennaio 88 al 30 luglio 90 e dal
1 ottobre 95 al 30 marzo 98
• Uomo originale e di notevole senso dell’umorismo: in questi 30 anni ha sostenuto, tra le altre cose, che i dirigenti di
sinistra non possono avere in casa la colf, ha detto che le intercettazioni
telefoniche vanno benissimo e non si devono limitare, ha appoggiato il governo
Dini e anche il primo governo Prodi, ma non il governo D’Alema, ha difeso Tiziana Maiolo dall’accusa di aver rapporti con la ’ndrangheta, si è congratulato con gli Agnelli quando hanno affidato la Fiat a Romiti, ecc, ha
ammesso che il manifesto accettò 60 milioni dal Psi di Craxi («Un prestito, abbiamo restituito tutto»), ha approvato incondizionatamente che Armani avesse scelto il Manifesto per
fare campagna giudicando il suo pubblico «molto adatto» (l’apparizione della prima pubblicità sul Manifesto era avvenuta nel 78, si trattava del tonno Rio Mare, aveva
suscitato molte indignazioni e il seguente slogan del collaboratore Stefano
Benni: «Tonno Riomare/Tonno extraparlamentare!»). Ha anche tenuto una fitta corrispondenza con Enrico Cuccia (che aveva l’abitudine di intrattenersi per lettera con decine di persone diverse), di cui
però non parla mai
• Ha soprattutto fronteggiato, con grande spirito pratico, le continue crisi
finanziarie del giornale, che mediamente ogni due anni deve chiedere ai suoi
lettori o sostenitori o simpatizzanti la carità di qualche miliardo di lire o di qualche milione di euro per andare avanti
(questo nonostante che al Manifesto tutti senza distinzione prendano lo stesso
salario). Ha presieduto personalmente soprattutto alle due più importanti tra queste operazioni (tutt’e due del 95): quella della creazione di una Manifesto spa, con capitale di 40
miliardi, il cui 27 per cento veniva messo a disposizione di nuovi soci (che
sborsarono 11 miliardi di lire) e che diventava padrona della testata, data però in affitto per cinque anni a una cooperativa di giornalisti (cosa che garantiva
l’incasso di un contributo dallo Stato a quell’epoca di circa quattro miliardi di lire). Il collocamento delle azioni della Spa
fu curato dalla Banca di Roma di Geronzi. E (seconda operazione, a settembre di
quell’anno) la proclamazione dello stato di crisi con messa in cassa integrazione di
30 lavoratori, tra poligrafici e giornalisti. Nonostante le dimensioni di
questo intervento, il Manifesto ha avuto ancora bisogno di soldi molte altre
volte (e ha accettato denaro sia dalle Cooperative rosse che da Calisto Tanzi
che da Montanelli). Da ultimo ha indetto una sottoscrizione ancora nel 2006. I
continui cambiamenti di grafica o di formato devono anche essere letti come
strumenti di market per stimolare la curiosità del lettore e vendere più copie. Il giornale ha sofferto molto, tra l’altro, la concorrenza di Liberazione, il quotidiano di Rifondazione
• Fumatore accanito: 80 sigarette al giorno per tutta la vita. Adesso sarebbero
scese a 30. Ha giudicato le limitazioni imposte da Sirchia un attentato alla
libertà • Marina Carlucci, Matteo Parlato e Roberto Salinas hanno realizzato, con un
contributo della Regione Lazio, un documentario dedicato alla sua vita
(produzione Interlinea Film).