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 2011  luglio 06 Mercoledì calendario

PAOLINI

Marco Belluno 5 marzo 1956. Attore. Autore. Regista. Ha raccolto il successo più grande col monologo Il racconto del Vajont 1956 9 ottobre 1963, trasmesso in diretta televisiva su Raidue il 9 ottobre 1997 e premiato con l’Oscar tv come miglior programma dell’anno • «Ama le storie che hanno angoli segreti e contengono una misura di luce e una
almeno doppia di furore. Come i suoi celebri Vajont, Ustica, Parlamento chimico, che raccontavano di una montagna inghiottita da un lago artificiale, di un
aereo inghiottito dai radar, di una laguna blu inghiottita dal Petrolchimico di
Marghera. Erano storie piene di vittime cancellate, di vivi dimenticati, di
verità da risarcire, e di un narratore che dentro alla polvere delle parole, dentro
alla luce teatrale dei fatti, sa farsi vittima e testimone, ferita e cicatrice,
pianto, risata e profezia» (Pino Corrias) • «“Col tempo finisci per essere quello che fai. Le doti che non riesci a esprimere
si seccano e scompaiono”. Anche lui, col tempo, è diventato ciò che fa, soprattutto ciò che ha fatto: “quello di Vajont”, quello del teatro civile, quello della denuncia e della memoria. Erede di
Dario Fo anche se, dice, “siamo tutti figli legittimi di Fo, ma lui è una personalità troppo ingombrante perché lo si possa imitare”. Vajont è stato il passaporto per il successo. La sua ricostruzione di quella tragedia
che il 9 ottobre 1963, in quattro minuti, spazzò via cinque paesi, fu trasmessa in tv nel 97 e inchiodò davanti allo schermo quasi quattro milioni di telespettatori. Poi vennero Ustica e Il milione, Porto Marghera, Le storie di plastica, ma lui, per molti è sempre “quello di Vajont”» (Corriere della Sera) • «Io ho fatto un solo provino in tutta la mia vita, quasi un omaggio affettuoso a
Glauco Mauri che mi “bocciò” e aveva ragione: anziché portargli un monologo, gli raccontai una storia, e lui rimase interdetto ma mi
fece lo stesso i complimenti. Per fortuna, in parallelo, senza scalzare l’edificio delle regole, s’affermava un’altra prospettiva del teatro, quello delle piazze, del “passare una sera assieme”, dei festival» • «Sono un improvvisatore che davanti alla gente procede coi moduli del jazz, del
blues. Ho i miei ‘trasporti’, l’equivalente di blocchi, arie o riff che mi trascino dietro da uno spettacolo all’altro: Il mio repertorio? Io mi porto appresso 250.000 parole, e le uso con la
tradizione del teatro orientale. Poi bisogna che in quello che dici non ci sia
solo ritmo ma anche profumo, senza stanca riproduzione» (da un’intervista di Rodolfo Di Giammarco)
• «Mio padre faceva il ferroviere, nella sua famiglia erano tutti rossi, tranne un
fratello maggiore che era un alto prelato. Mia madre era cattolica. Non hanno
mai cercato di farmi fare qualcosa, l’unica cosa che volevano era che studiassi per poter fare una vita migliore di
quella che avevano fatto loro. Al teatro mi sono avvicinato a 16 anni, come
conseguenza della politica, era una delle attività culturali di questo gruppuscolo di cui facevo parte (eravamo stati espulsi dall’oratorio proprio per la nostra attività “sovversiva”)»
• «Io non sono cresciuto con le favole dei miei, coi racconti domestici di vita
vissuta. L’unico piacere infantile dell’ascolto che m’è rimasto in mente è un’immagine sonora: mio padre che mi legge Topolino con l’intercalare dei gulp e dei gasp accentuati in modo abnorme grazie a un cambio di
tono e di volume. Ne uscivano fuori astrazioni, onomatopee, rumori corporei che
davano una scossa a tutto il fumetto. E questa cosa mi piaceva, mi rimaneva
impressa. Molto. L’altra “parola” che nella prima gioventù ebbe una risonanza diversa fu quella della televisione, che da me, a Treviso,
entrò in famiglia nel 67, quando io avevo undici anni. A dire la verità non ne sentivo il bisogno. Fin lì avevo saltuariamente rubato qualche pezzo di discorso dagli apparecchi
installati nei bar».