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 2011  luglio 06 Mercoledì calendario

NAPOLITANO

Giorgio Napoli 29 giugno 1925. Politico. Presidente della Repubblica (eletto il 10
maggio 2006). Prima senatore a vita (dal settembre 2005). Eletto deputato dieci
volte dal 53 al 96. Presidente della Camera nel 92 e nel 94. Ministro degli
Interni nel Prodi I. Deputato europeo dall’89 al 92 e di nuovo nel 99. «Non sarò in alcun momento il Presidente della maggioranza che mi ha eletto» • Figlio di un noto avvocato liberale, è laureato in Giurisprudenza (Tesi: Il mancato sviluppo del Mezzogiorno). «Iscrittosi all’Università nell’autunno 1942, partecipò all’attività del Teatroguf e del Cineguf napoletano e mise in scena una commedia di Ugo
Betti. In quello stesso periodo, dirompente fu l’incontro con la politica: “Una lunga conversazione con Antonio Ghirelli mi convinse della dolorosa necessità che l’Italia per salvarsi doveva perdere la guerra”. Dopo la Liberazione ci fu l’avvicinamento e l’entrata nella casa comunista: “Scattò in me come una molla, ideale e morale. Fui coinvolto in quella ‘corsa alla politica’ di cui parlava Giaime Pintor nell’ultima lettera al fratello Luigi”. Una “corsa” nella quale non c’era molto spazio per altri interessi. “Non avrei voluto abbandonare cinema, teatro, letture ma gli impegni politici mi
imposero molti sacrifici, anche nei confronti della famiglia”» (Mirella Serri)
• «Nel 42 organizza un gruppo antifascista. Tre anni dopo aderisce al Pci,
diventando segretario federale a Napoli e poi a Caserta. Deputato nel 53,
diviene responsabile della Commissione meridionale del Comitato centrale del
partito. Soprannominato “Re Umberto” per la somiglianza con l’ultimo regnante dei Savoia (ma qualcuno lo chiama anche “Lord Carrington”), nella primavera del 59 conosce Clio, giovane marchigiana di Chiaravalle,
figlia di antifascisti confinati all’isola di Ponza: “Ho cominciato a uscire con lui quando ero da sola a Roma per iniziare la pratica
di avvocato”, ha raccontato la signora Napolitano a Paola Severini (
Le mogli della Repubblica, Baldini Castoldi), “non avevo soldi, vivevo in una stanza con una mia collega. Lui ha cominciato a
invitarmi a cena. Nella mia famiglia si diceva: ‘L’ha presa per fame’”. Nell’ottobre del 59 si sposano a Roma (testimone Gerardo Chiaromonte), mentre Giorgio
continua la sua scalata nel partito, prima come amendoliano di ferro, poi come
capo della corrente migliorista. Entra nella direzione del Pci come
responsabile della Politica economica e successivamente di quella estera.
Appassionato di teatro, poesia e musica classica (che ascolta con un iPod
regalatogli dai familiari per l’ottantesimo compleanno), amante dei film di Totò, due figli non battezzati (Giulio, professore di Diritto amministrativo, e
Giovanni, dirigente all’Antitrust) e due nipoti (Sofia e Simone), ha condotto sempre vita riservata:
vacanze a Stromboli e, da un paio d’anni, a Capalbio, dove ha acquistato un piccolo appartamento in un residence.
Pochi veri amici nel partito (Giorgio Amendola, Enrico Berlinguer, Gerardo
Chiaromonte, Emanuele Macaluso), vita mondana praticamente nulla, Napolitano
ama molto la sua casa romana nel quartiere Monti, che ha lasciato già una volta dopo l’elezione alla presidenza della Camera nel 92 per trasferirsi nell’appartamento riservatogli a Montecitorio» (Primo Di Nicola)
• «Uno che le emozioni le governa (“Lo ammetto: sono razionale”). Uno che nel febbraio del 91, quando il vecchio Pci si avviava a morte, si
espresse così in terza persona: “Chiunque è stato comunista per 45 anni sta vivendo in questi mesi turbamenti profondi che
non ha ritenuto di dover esibire”. Oltre metà della sua vita, dal 53, l’ha passata tra gli scranni del Parlamento, da deputato a presidente della
Camera. E poi ministro degli Interni, il primo “rosso” al Viminale, comunista dal 42, direzione, ufficio politico, presidenza del
gruppo, organizzazione, esteri, tutto quel che di importante si può fare in un partito, tranne la carica di segretario, scelsero Berlinguer e non
lui, a suo tempo » (Alessandra Longo)
• «Era affascinato, come molti giovani comunisti e democratici, non tanto dall’esperienza dei Piani Quinquennali dell’Urss, ma piuttosto dall’esperienza del New Deal rooseveltiano e dalla Riforma Beveridge. Coerente con
quelle scelte, più tardi, durante gli anni convulsi dei movimenti giovanili, non ha mai ceduto
alla moda, o alla fascinazione, di Marcuse o di Fanon. è un ammiratore di Keynes. è stato il primo dirigente comunista a sbarcare in America e l’unico (credo) a incontrarsi con Kissinger. Ha conosciuto e frequentato tutti gli
esponenti della socialdemocrazia europea, da Gonzales a Glotz. è, da tempo, un europeista convinto. è sempre stato, insomma, un moderato, uno di coloro che credono nel lento,
faticoso passo della democrazia. Non ama i sogni palingenetici. è convinto, con Isaiah Berlin che le “utopie come guida al comportamento possono rivelarsi letteralmente fatali”. Gli esempi non mancano, del resto. Dall’Urss di Stalin alla Cina di Mao, fino al caso estremo della Cambogia di Pol Pot
e dei Kmer rossi. Un moderato. Anzi, meglio, un riformista. Oggi il termine ha
legittimo corso anche nelle file di quella sinistra che trae la sua origine dal
vecchio Pci. Ma non è stato sempre così. Per lungo tempo il “riformista” veniva guardato, alle Botteghe Oscure, con sospetto. Per questo, nel 68, quando
il Pci dovette trovare un nuovo segretario che sostituisse Luigi Longo
gravemente malato, la scelta cadde su Enrico Berlinguer che, racconta Emanuele
Macaluso, “era considerato un figlio autentico del partito. Giorgio era molto rispettato,
ma non era visto come sangue puro del Pci”. Ma solo negli anni 80, dopo la crisi della politica di solidarietà nazionale che Napolitano aveva condiviso e sostenuto, esplode il contrasto tra
le due linee che fino allora avevano convissuto nel Pci. Da una parte c’è la linea di Berlinguer, che tende a chiudere il partito nella ridotta della “diversità” e nella esaltazione dell’orgoglio di partito, dall’altra la linea di Napolitano e altri “riformisti”, che vogliono evitare l’isolamento del partito, il suo arroccamento settario. Nel Partito comunista di
allora le divergenze, quando ci fossero state, si risolvevano nel chiuso delle
stanze di Botteghe Oscure. E nulla doveva trasparire all’esterno. Giorgio Napolitano, nell’agosto dell’81, rompe questa regola. Prende carta e penna e, per commemorare l’anniversario della morte di Togliatti, scrive sull’Unità un articolo che suona esplicita critica alle posizioni di chiusura di
Berlinguer, mettendolo in guardia dal pericolo dell’isolamento e del settarismo. Togliatti, ricorda Napolitano, ci ha sempre
insegnato non a fare “propaganda”, ma a fare “politica formulando precisi obiettivi, ricercando e indicando soluzioni”. Il richiamo a Togliatti, alla sua capacità di far politica, evitando le “pure contrapposizioni verbali” o le “vuote invettive”, suona critica aperta alla gestione berlingueriana. Giorgio Napolitano viene
messo sotto accusa in una riunione di direzione e poi, guardato con crescente
sospetto, verrà accusato di indulgenza e simpatia, forse anche di connivenza, con Bettino
Craxi. Poche settimane dopo lascerà la responsabilità della sezione di organizzazione del partito per assumere l’incarico di presidente dei deputati comunisti. (Un incarico che allora, nel Pci
veniva considerato assai meno importante di quello di responsabile dell’organizzazione)» (Miriam Mafai)
• «Il punto decisivo della vicenda politica di Giorgio Napolitano si fissa a metà degli anni Ottanta, allorché il Pci dell’ultimo Berlinguer raggiunge l’acme del risentimento antisocialista, contro il Psi della “mutazione genetica”, contro la figura ingombrante di Bettino Craxi. Fu una parte minoritaria del
Partito comunista a cercare di mantenere un contatto con i socialisti. Ma il
mainstream del partito era modellato su una contrapposizione irriducibile,
quasi sulla ripugnanza che a Berlinguer e ai berlingueriani ispirava il
modernismo spregiudicato dei craxiani. Mentre per i movimentisti come Pietro
Ingrao, la stessa concezione di un compromesso con il Psi risultava
insostenibile se configurava una mediazione “socialdemocratica” al ribasso. E un uomo come Napolitano, indiscutibilmente il leader della “destra” comunista, veniva facilmente esorcizzato dagli ingraiani con l’epiteto di “migliorista”, con un chiaro riferimento al migliorismo prampoliniano (ossia a un’azione politica che intende migliorare le condizioni di vita e di lavoro della
classe lavoratrice senza rivoluzionare le condizioni strutturali del
capitalismo). Allora apparve a molti che l’azione di Napolitano fosse insufficiente. Lo ha ricordato di recente, e in modo
spregioso, Giuliano Ferrara, accusandolo sarcasticamente di avere segatura al
posto del sangue. Certamente fu debole il suo tentativo di reagire dall’interno all’iniziativa del Pci contro il referendum sulla scala mobile, che si sarebbe
rivelato uno dei colpi gobbi di Craxi in quella che allora appariva una
strategia di stampo mitterrandiano, teso a ridimensionare e a relativizzare il
Partito comunista. Ma occorre considerare che a dispetto dell’aplomb aristocratico, dell’anglofilia, del gusto puntiglioso e di un’eleganza formale indubitabile, Napolitano è sempre stato, fin quasi all’ultimo, un uomo di partito, e dunque di “quel” partito. Di un organismo quindi in cui non si tolleravano strappi, dove i
mutamenti avvenivano in modo bradisismico, dopo essere stati valutati con
attenzione lenta e macchinosa, e infine vidimati con un senso di liberazione
finale e collettiva» (Edmondo Berselli)
• «Chissà che cosa sarebbe successo se nel 69 Giorgio Napolitano fosse diventato
vicesegretario del Pci (e tre anni dopo segretario) al posto di Enrico
Berlinguer. L’aneddottica vuole che Amendola, leader storico della “destra togliattiana” e padre politico di Napolitano, abbia scelto Berlinguer per la maggiore
esperienza internazionale (e chissà se è anche per questo che Napolitano, di lì a poco, sarebbe diventato il “ministro degli Esteri” del Pci); e poi perché, disse Amendola a “Giorgino”, come amava chiamarlo, “ti manca la grinta”. Napolitano era allora l’unica alternativa a Berlinguer: chiamato da Longo (su insistenza di Amendola) a
coordinare i rapporti fra la segreteria e l’Ufficio politico dopo la morte di Togliatti, mancò l’ascesa alla segreteria non certo per la “grinta” (che in verità, come riconobbe lo stesso Amendola, mancava anche a Berlinguer), ma per motivi
squisitamente politici: alla segreteria del Pci si arriva dal centro, non dalle
ali. Berlinguer era il “figlio del partito”, Napolitano il delfino di Amendola. Il primo fu eletto sulla base di un accordo
fra il “centro” e la “destra”; il secondo di quell’accordo fu insieme garante e protagonista, fino alla drammatica rottura sulla
riforma della scala mobile (84)» (Fabrizio Rondolino)
• «Il Pci non era un partito riformista, anzi rifiutava quella classificazione, sul
piano ideologico aveva addirittura combattuto il riformismo. Ma muovendo da
queste posizioni — e rinato a nuova vita con la vittoria della Resistenza e la Liberazione — diventa poi una grande forza politica nazionale chiamata a contribuire alla
costruzione della democrazia; diventa un partito di massa, alle prese con i
problemi reali del popolo e del Paese, portando avanti precisamente una
strategia di lotta per le riforme. In questo senso si è detto che quello del Pci fosse un riformismo di fatto: ma naturalmente la
contraddizione tra il persistere di una matrice rivoluzionaria, la scelta di
campo negli anni 47-48 dalla parte dell’Urss e l’azione politica da svolgere in Italia senza farsi imprigionare in degli schemi
ideologici, questa contraddizione, dicevo, era molto profonda. Noi non l’abbiamo colta subito, né io né molti altri: ne siamo diventati via via consapevoli attraverso l’esperienza e la riflessione. E certamente ha contato il fatto che nel Pci ci
siamo incontrati — noi, che poi saremmo stati definiti riformisti — con alcune personalità che avevano maggiormente il senso di una politica riformista ed esprimevano più nettamente una visione di governo. Tra queste personalità la più forte, senza dubbio, era quella di Giorgio Amendola: e alla sua scuola sono
andato fin dai miei primi passi nell’attività di partito. Un momento importante per segnare un discrimine rispetto a
schematismi di sinistra, fu il Congresso del 66. Una prima occasione per
prendere le distanze dall’Urss e dal Movimento comunista internazionale fu invece la vicenda della
Cecoslovacchia, nel 68. Così come un’esperienza importante per qualificarci come forza di governo fu la solidarietà democratica negli anni dal 76 al 79»
• «Craxi prende la guida del partito dopo la sconfitta del 76, e all’inizio mantiene un atteggiamento collaborativo col Pci, sia pure con distinzioni
e riserve negli anni delle maggioranze che sostennero il primo e il secondo
monocolore Andreotti. Fu dopo, a partire dall’80, che dispiegò una strategia tale da provocare una divaricazione alla fine molto acuta tra i
due maggiori partiti della sinistra. Per quel che riguarda me e anche altri — e voglio almeno citare un nome, quello di Gerardo Chiaromonte, col quale ci fu
piena sintonia, sempre — noi fummo partigiani convinti dell’unità tra Pci e Psi ben prima che apparisse all’orizzonte Craxi. Lo fummo quando segretari erano Nenni, Mancini e De Martino; lo
fummo nel rapporto con Riccardo Lombardi e Lelio Basso, con Antonio Giolitti e
Vittorio Foa, e tenemmo fermo quell’obiettivo e quell’impegno anche dopo che Craxi diventò segretario. è vero che ci trovammo in una posizione difficile, e vivemmo momenti scomodi e
ingrati nel Pci e nel suo gruppo dirigente quando il clima divenne quello di un
duello tra Pci e Psi, tra Berlinguer e Craxi. Ma il considerarci disposti a
cedere alle pressioni di Craxi e addirittura a venir meno a un impegno di lealtà verso il partito, fu un’infamia»
• «All’undicesimo congresso il Migliore era scomparso, Ingrao si faceva sotto da
sinistra. Luigi Longo aprì la gabbia, uscì un leone: era Napolitano, l’amendoliano. Zampate e morsi che il vecchio Pietro ancora si ricuce» (Pietrangelo Buttafuoco) • «Nemico mai. Nella lotta politica all’interno del Pci, Ingrao fu antagonista di Amendola e altri, prima che mio. Ho
sempre avuto considerazione per l’impegno con cui ha espresso e difeso le sue convinzioni. Sì, è vero, abbiamo avuto contrasti politici non secondari, ma il rapporto personale è sempre rimasto schietto e cordiale. Ammirai il modo in cui esercitò le funzioni di presidente della Camera, l’ho sentito vicino quando poi quel compito toccò a me»
• «Ho fatto viaggi a Mosca per incontri politici e per iniziative di studio fino
all’inizio degli anni 70, poi mi resi conto che non c’erano possibilità di dialogo con quei dirigenti del Partito comunista sovietico. Tornai a Mosca
dopo quasi 15 anni solo dopo l’avvento di Gorbaciov alla guida del Pcus. Comunque anche io arrivai tardi al
riconoscimento delle storture del sistema sovietico. Si può dire che in particolare sulla definizione del regime sovietico come
totalitario, resistemmo sempre: anche se la definizione berlingueriana di
regime con “tratti illiberali” era assolutamente inadeguata”»
• L’elezione a presidente della Repubblica è avvenuta mercoledì 10 maggio, al quarto scrutinio: 543 voti, cioè i 540 del centrosinistra più tre. La candidatura, trovata la domenica precedente, intendeva essere
istituzionale, in quanto Napolitano era senatore a vita ed era già stato presidente della Camera. Casini e Fini avrebbero voluto contribuire all’elezione, ma Berlusconi e la Lega sono stati irremovibili: la scheda bianca è risultato l’unico compromesso possibile. Per qualche giorno era sembrata piuttosto forte la
candidatura di D’Alema, lanciata addirittura dal Foglio, e segretamente avversata soprattutto da
Rutelli e Veltroni.