Il Catalogo dei viventi 2007, 6 luglio 2011
MUTI Riccardo Napoli 28 luglio 1941. Direttore d’orchestra. «Direttore d’orchestra è una delle professioni più ambite
MUTI Riccardo Napoli 28 luglio 1941. Direttore d’orchestra. «Direttore d’orchestra è una delle professioni più ambite. Uno fa così con la mano, gli altri suonano. Le stonazioni vengono demandate ad altri. Il pubblico non si rende conto se il direttore ha sbagliato. Il direttore non stona» • Ha studiato al Conservatorio di San Pietro a Majella e al Conservatorio di Milano. La sua carriera è iniziata nel 68 al Maggio musicale fiorentino. Ha debuttato come direttore ospite alla Scala nel 70, a Salisburgo nel 71, alla London Philharmonic nel 72, dov’è stato direttore musicale per tre anni sino all’82. Direttore musicale a Philadelphia. Dall’86 al 2005 al Teatro alla Scala, successore di Claudio Abbado. Ha sviluppato la Filarmonica della Scala e ha da anni un fecondo rapporto con i Wiener Philharmoniker. Il repertorio del maestro include Verdi e l’opera italiana, Mozart, i romantici dopo Beethoven. è legato alla casa discografica Emi • «Ho avuto una madre straordinaria ma molto severa, un po’, come oggi si direbbe, all’antica. E allora diciamolo anche noi. Noi siamo cinque fratelli maschi. Mia madre voleva assolutamente che venissimo su in maniera gagliarda, in maniera spartana, per cui il bacio della buona notte ce lo dava quando eravamo già a letto... dormienti! Trovava che il bacio, anche quando veniva dalla madre al figlio, fosse in un certo senso sminuente. Ci faceva dormire su materassi poggiati su tavole di legno» (da un’intervista di Renato Farina) • «Mi portarono all’età di due anni al teatro Petruzzelli di Bari, che allora era ancora in piedi mentre come voi sapete è poi scomparso e sembra che io abbia sentito per la prima volta La Traviata» • «Non sono stato né il bambino prodigio né colui che è nato con la bacchetta di direttore in mano. Lo so bene che adesso va di moda» • «Sono uno che all’età di sette anni, il giorno di San Nicola — da noi a Molfetta i doni non vengono portati alla Befana, non perché noi avessimo qualche cosa contro la Befana, no, ce li portava, e li porta ancora adesso San Nicola; però, detto in molfettese Santa Nicola, non so perché — al mattino ha trovato un’astuccio di violino. E mi hanno dato un insegnante molto paziente che mi insegnava il violino e una bionda ragazza che mi insegnava il solfeggio. Sono i ricordi più incredibili della mia fanciullezza. Vedevo giù i miei compagni che giocavano a pallone, e io ero lì che facevo gemere questo orrendo strumento poooo... piiii... Questo in quanto a creazione del suono. In quanto a solfeggio non riuscivo a capire che il pentagramma è fatto di righi e di spazi e che le note sui righi sono mi, sol, si, re, fa e sugli spazi, fa, la, do, mi. Non riuscivo a capire questa cosa semplicissima, tant’è vero che ancora oggi io nutro dei sospetti sul mio livello d’intelligenza: è possibile che una cosa così semplice fosse a me così ostica? Non avevo capito l’ingranaggio, e quando veniva questa ragazza a farmi lezione, io buttavo a indovinare. Diceva: che nota è questa? E io: sol. No, diceva, è la. è re? No, è mi. E siamo andati avanti per 6 o 7 mesi. Mio padre, che era di cuore più dolce di mia madre, le disse un giorno “Basta!”. L’ho sentito, non ero presente ma l’ho sentito, ero nell’altra stanza. Ha aggiunto una frase in dialetto molfettese: “A vedere quel ragazzo che stava così mi veniva una cosa allo stomaco”. I miei occhi già sfavillavano di contentezza, quando mia madre rispose: “Proviamo ancora un mese”. Questa frase ha determinato tutta la mia vita. E dire che secondo mio padre avrei dovuto fare l’avvocato. Ogni tanto penso a che cosa sarebbe stata la mia vita, oggi… Avvocato, questo era scritto nella testa di mio padre. Invece, di colpo, e non voglio andare nel paranormale e nel trascendentale, però improvvisamente, ecco, et fiat lux. Una mattina mi sono svegliato e ho individuato che: il fa sta lì, e poi la do mi, mi sol si re. Con stupore, ho capito. L’ottavo mese ho capito e da lì ho fatto dei salti da gigante. A 8 anni ho tenuto il primo concerto come violinista nel seminario Pontificio di Molfetta di fronte a 300 seminaristi: ho suonato il concerto di Vivaldi col maestro che mi accompagnava al pianoforte. Così è cominciata la storia. Una storia infinita in un certo senso...» • «Il primo grande maestro? Rota! Questo straordinario personaggio che tutti conoscete perché non solamente ha scritto tra le più straordinarie musiche da film per Fellini, Visconti, Coppola e altri grandi registi, ma ha una enorme produzione operistica, di musica da camera, di musica religiosa, di musica sinfonica. Sono andato a Bari in un giorno di luglio, gli esami sono cominciati la mattina e io ero rimasto fino alle due meno un quarto con altri 2 ragazzi. Si è aperta la porta ed è entrato questo omino. Ha detto: “Quanti sono rimasti?”. E pensare che Rota non era sempre presente agli esami, perché era spessissimo a Roma. Però quel giorno il destino ha voluto che fosse lì. Mi ha portato in una stanza. Avevo preparato la Polacca in sol diesis minore di Chopin. Rota mi ascoltò per dieci minuti. Si alzò, davanti a tutta la commissione, e mi disse: “Ti diamo 10 con lode. Non per come hai suonato oggi, ma per come potrai suonare domani”. Poi mi iscrissi al conservatorio, lui volle che mi iscrivessi al conservatorio di Bari. Dopo un anno a far la spola tra Molfetta e Bari l’anno successivo mio padre si trasferì a Napoli. Crescendo tutti noi, mia madre disse che era tempo di andare in una città più importante, cioè la sua città. Mia madre era napoletanissima. Sposando mio padre che era medico dovette trasferirsi a Molfetta. Passare da Napoli a Molfetta… insomma… Perché Napoli era ed è ancora una capitale, e Molfetta per quanto abbia dato i natali a Gaetano Salvemini... Quindi lei tendeva a ritornare lì» • «A Napoli, ho studiato pianoforte, ho finito il liceo in uno dei licei più severi di Napoli. è successo questo fatto molto strano: un giorno il direttore del conservatorio di Napoli mi ha chiamato nella direzione, io credevo di essere stato convocato perché facendo il terzo liceo, quell’anno non frequentavo molto il conservatorio quindi ero già preparato a una lavata di testa. Invece a bruciapelo mi disse: “Hai mai pensato di dirigere?” Veramente io non avevo mai pensato di dirigere. Lui mi dice: “Dal modo in cui tu suoni io credo che tu hai un concetto del pianoforte più sinfonico che prettamente pianistico. Prova”. E poi aggiunse: “Guarda: se non dovesse funzionare, non ti preoccupare. Perché per esempio Massenet, che era un grande musicista, aveva il terrore di stare di fronte all’orchestra”. Così mi insegnarono che — uno, due, tre, quattro — in quattro si batte così, in tre si batte così, in due così. Mi misero davanti all’orchestra. Dopo pochi secondi capii che quella era la mia strada» • «Sono stati anni febbrili quelli del mio debutto sul podio. Erano gli anni della giovinezza. Dovevo pensare alla carriera, parola terribile. Carriera uguale vita, traguardi, stabilità economica, successo. Ho lavorato molto, ma sono stato anche aiutato dalla sorte, dal destino» (da un’intervista di Guido Vergani) • «Sopravvalutato (in Italia) direttore della Filarmonica della Scala. Fu appoggiato da Dc e Psi in contrapposizione a Claudio Abbado che era invece protetto dal Pci. Ammiratore di Toscanini, alla Prima scaligera del 7 dicembre 86 frantumò la regola toscaniniana che proibiva il bis e rifece il Va’ pensiero. Eccellente il suo Mozart, discutibile il suo Beethoven, improponibile il suo Wagner, irrilevante tutto il resto (suona Ciajkovskij come se fosse Brahms). Sua madre, suo nonno e i suoi fratelli vantano la sua medesima corrucciata espressione: complice, forse, l’ammonizione che troneggiava sul palazzo vescovile di Molfetta, dov’è cresciuto: “L’ora che scorre vi ricorda che dovrete morire”. è tuttavia appassionato di barzellette che propina anche agli orchestrali, divisi nel giudicarlo: chi lo ritiene un forte coi deboli, chi ne deride il gesto direttoriale ch’egli enfatizza davanti alla tv» (Pietrangelo Buttafuoco) • «Su un punto, messi da parte amori, idiosincrasie, orientamenti politici, vi è convergenza: artista indiscutibile, Muti, ma discutibile uomo pubblico. Un furibondo Franco Zeffirelli lo ha definito “ebbro di sé, drogato dalla propria arte e dalla propria vanità, una caricatura di direttore d’orchestra”. Un altro vecchio amico deluso, il manager melomane Jean Rodocanachi, già presidente della Fondazione per il Teatro alla Scala, scaricato nel 96 da Muti e Fontana in tandem, scrive nei suoi Ricordi: “Come uomo, Muti mi sembra pieno di contraddizioni, insicuro e sempre preoccupato del giudizio del pubblico e della critica”. Altri vedono in Muti un impolitico. Fatto sta che, etichettato (forse a torto) come uomo di centrodestra, Muti ha messo in imbarazzo una giunta (Albertini) e un ministro (Urbani) di centrodestra. Muti è stato protagonista di altre scene madri (sebbene, rispetto a un Karajan, a un Celibidache, sia un cordialone). Si rifiutò di dirigere La forza del destino alla Royal Opera House di Londra per una scenografia non all’altezza suscitando un vespaio. Nel 92 a Salisburgo abbandonò per colpa di una regia modernizzante il podio della Clemenza di Tito di Mozart. A Filadelfia s’imbestialì perché vide i suoi concerti segnalati nella sezione “Entertainment” del giornale (“Non sono un entertainer”). Nel 2000 rifiutò la direzione della New York Philharmonic senza spiegare davvero perché. E si adombrò molto quando il sovrintendente Fontana contattò il suo agente americano David Foster nell’eventualità di invitare Daniel Baremboim ospite alla Scala. è vero che Muti non tollera altri astri intorno a sé? I giudizi divergono. C’è chi, come gran parte dell’orchestra della Scala, pensa che egli abbia ostacolato l’ospitalità a grandi direttori e cantanti. E chi, come Gianluca Scandola, coordinatore artistico della Filarmonica e a Muti fedelissimo, ricorda che sono stati invitati nomi come Chung, Gergiev, Temirkanov, Maazel, Conlon, Prêtre. Ma i primi obiettano che sono altri i nomi di riferimento. Lo stesso Isotta, un mutiano fiammeggiante, rileva nel maestro “errori nelle scelte di registi e di compagnie di canto” e gli rimprovera di non aver compreso “essergli necessaria la presenza di un direttore artistico autorevole e dotato di mestiere, in grado di stabilire con lui un rapporto di alta dialettica”. Muti ha dalla sua gli innamorati, gli incantati: Armando Torno, sul Corriere, lo carezza e lo difende “a prescindere” (direbbe Totò) e “für ewig” (in eterno, direbbe Beethoven). Muti era un piacione. Ora è un di-spiacione. Gli antipatizzanti lo descrivono egoista, narcisista, sentimentalmente instabile, avido di denaro, prepotente. Al Corriere si racconta che Ferruccio de Bortoli le telefonate più lamentose le ricevesse da Muti, e che il successore Stefano Folli sia stato sollecitato sull’eventualità di sostituire il critico in seconda Enrico Girardi con Carla Moreni, da Muti assai stimata (non è avvenuto). Nei corridoi del Giornale si ridacchia ancora di come Muti, ai tempi della direzione di Vittorio Feltri, s’infuriò per recensioni poco ossequiose di Piero Buscaroli, che tosto smise di collaborare. Perché Muti vola negli alti cieli, al di là del perenne teatrino italiota, ma la mattina alle 8 si è già sorbito tutta la rassegna stampa, Gazzetta di Reggio compresa se è il caso. Muti, che pure ha studiato un po’ di filosofia ed è cultore di Federico II di Svevia, non si circonda di persone di cultura, è un’altra critica: a differenza di Abbado, Pollini, del compianto Sinopoli. Non ama gli intellettuali. Poi c’è chi infierisce: “Non ha amici”. Sarà vero? Gli è amico Marco Tronchetti Provera, che tanto si prodiga per sostenerne le iniziative, come il concerto sotto le Piramidi del Cairo per le “Vie dell’amicizia” del Ravenna Festival diretto dalla moglie Cristina. Gli fu amico il ravennate Raul Gardini, egli pure generoso sponsor: Muti era in prima fila al suo funerale, dopo il suicidio avvenuto nel luglio 93. Ma i pettegoli notano di aver raramente visto il maestro coltivare amicizie autentiche nell’ambiente musicale, con eccezioni come la soprano Leyla Gencer. Oppure citano i rapporti col maestro Francesco Siciliani» (Enrico Arosio) • Nel 2005 è stato costretto a dimettersi da una presa di posizione pressoché unanime dei maestri d’orchestra, stanchi della sua resistenza a ospitare altri grandi direttori e indignati per la pretesa di Muti che il sovrintendente Carlo Fontana fosse allontanato («o io o lui») • «Io sono un prodotto, tipicamente, fortemente italiano. In un periodo in cui si parla tanto male delle scuole italiane, posso dire d’aver fatto la mia strada nel mondo frequentando non blasonate accademie al di là delle Alpi, ma blasonati conservatori a Napoli e a Milano. Vi ho avuto grandi insegnanti, ne avevo avuti al liceo e all’Università di Napoli. Sono sempre stato grato alla nostra scuola» (da un’intervista di Alberto Sinigaglia) • «Il paragone con lo sport è pertinente. Nella musica ci dev’essere non solo la profondità della ricerca musicale, ma il piacere anche sportivo — nel senso più nobile della parola — di migliorarsi. Più si migliora il livello tecnico, come nello sport, e più la musica ne beneficia» • «Avevo un grande rispetto per Coppi, ma amavo molto il carattere e la cordialità di Bartali e mi piaceva anche il suo continuo polemizzare. Sono legato al ricordo di quel ciclismo epico, con le biciclette pesanti, i corridori che portavano a tracolla le gomme e che quando foravano dovevano arrangiarsi da soli a cambiare… La fatica, naturalmente, c’è anche nel ciclismo di oggi. Ma allora era qualcosa che si vedeva» • «Nella mia famiglia sono tutti juventini, compresa la filippina che lavora da noi da trent’anni. Io resto legato al Napoli e sono contento che sia tornato in B» • Sposato con Cristina Mazzavillani ha tre figli: Chiara, Francesco, Domenico: «Sono sempre stato il fratello maggiore dei miei figli».