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 2011  luglio 06 Mercoledì calendario

MORUCCI

Valerio Roma 22 luglio 1949. Ex terrorista. Ex capo delle Brigate Rosse (prima stava con Potere operaio). Componente del
commando responsabile della strage di via Fani e del rapimento di Aldo Moro (16
marzo 78). Arrestato il 29 maggio 1979, condannato all’ergastolo nell’82, ha ottenuto, quindici anni dopo, la libertà condizionale. Vive e lavora a Roma come consulente informatico • «Durante i cinquantacinque giorni del sequestro di Aldo Moro, Valerio Morucci e
la sua compagna Adriana Faranda sono stati i telefonisti delle Br e i postini
delle tante lettere scritte dal presidente Dc. Sono stati anche gli unici che
hanno tentato sino alla fine di far rinviare l’uccisione dello statista loro prigioniero» • «Mio nonno aveva uno stabilimento di falegnameria in via Galvani al Testaccio,
con tanti operai. Dal suo stabilimento sono usciti i portoni laterali dell’Altare della patria. Quando si rifiutò di iscriversi al partito fascista, lo stabilimento fallì. Mio padre andò all’Agfa. Ma fu licenziato perché non faceva il saluto romano. Nel 49 fu assunto alle Poste. L’anno in cui nacqui io. Mio nonno era anarchico. Andava con un gatto a nove code
alle manifestazioni in piazza prima del 22. Con lo stesso gatto ci picchiava i
figli. Tutti comunisti, i figli. Sono nato e cresciuto comunista» (da un’intervista di Claudio Sabelli Fioretti)
• «Volevo vivere. Studiare mi annoiava. Stare chiuso mi deprimeva. Mio padre mi
iscrisse alla scuola alberghiera. L’estate lavoravo come cameriere. Alla fine mi assunsero al Cocktail Lounge di
Fiumicino. Brigitte Bardot, Liz Taylor, l’avvocato Agnelli: facevo il cameriere dei supervip. Guadagnavo una marea di
soldi. Tra stipendi e mance, 200 mila lire. Ma era una vita infame: mi alzavo
alle 5, lavoravo 11 ore al giorno. Mi licenziai. Cominciai a girare per Roma
con una 850 Abarth e a frequentare i vecchi amici del liceo Mameli. Grandi
discussioni, politica, sesso, psicoanalisi, linguistica. Ci siamo buttati
subito dentro il movimento»
• «La comunicazione: “L’esecutivo ha deciso, bisogna ucciderlo”, mi venne fatta da Moretti il 4 maggio, durante uno dei nostri abituali
incontri per la strada. Eravamo a piazza Barberini, alla fontana all’inizio di via Veneto. Con me, come al solito, c’era Adriana. Quando Moretti ci disse che la storia era chiusa, noi reagimmo
duramente. D’altra parte il nostro dissenso sulla gestione del sequestro l’avevamo espresso fin dal momento della decisione di diffondere la lettera di
Moro a Cossiga. Camminammo su e giù per le strade attorno a piazza Barberini per quasi due ore, discutendo
animatamente. In mezzo ai passanti. Poi, andammo anche all’appuntamento prefissato con Bruno Seghetti e Barbara Balzarani a via Sistina.
Per cui il dibattito stradale divenne a cinque. Negli anni successivi, Bonisoli
e Azzolini mi dissero che Moretti non riferì a nessuno il nostro dissenso. Ha portato le Br in un vicolo cieco: quello di
convincersi di dover per forza uccidere il prigioniero. Decisione che all’inizio dell’operazione non era affatto scontata. Bisognava attivare altri canali di
trattativa, per esempio con la Caritas internazionale. Bisognava valutare il
fatto che l’appello di Kurt Waldheim, segretario delle Nazioni Unite, era già un nostro riconoscimento politico. Che non bisognava avere troppa fretta e
paura delle parole della Dc. La verità è che la decisione di uccidere Moro la mattina del 9 maggio è stata presa perché Moretti non riteneva che dalla riunione della direzione Dc potesse venir fuori
niente di chiaro e temeva che i discorsi fumosi dei leader democristiani
avrebbero intrappolato le Br su un sentiero vischioso ed infinito» (da un’intervista di Mario Scialoja)
• Uscì dalle Br prima di essere arrestato: «Mi volevano morto. In carcere ce l’aveva con me soprattutto Franceschini. Voleva portare la mia testa su un piatto
d’argento alle Br per convincerli a fare di più per loro. Ma Moretti disse di no».