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 2011  luglio 06 Mercoledì calendario

MOGGI Luciano Monticiano (Siena) 10 luglio 1937. Ex manager del calcio. «Il calcio è uno sport la domenica e un’industria in tutti gli altri giorni» • è il protagonista del grande scandalo del 2006, quello che ha sconvolto il calcio italiano determinando il commissariamento della Figc e l’azzeramento di tutto il gruppo dirigente calcistico (Carraro, Galliani, Lanese, Pappa sostituiti da Guido Rossi, Matarrese, Agnolin, Borrelli), l’uscita di scena del gruppo dirigente juventino (Giraudo e Moggi, inibiti per cinque anni, e Bettega, poi recuperato), l’allontanamento del gruppo dirigente della Fiorentina (Andrea Della Valle inibito per tre anni, Diego Della Valle per tre anni e nove mesi), l’inibizione per due anni e sei mesi del presidente della Lazio Claudio Lotito, la retrocessione della Juventus in serie B con penalizzazione di 17 punti, la penalizzazione di 30 punti sulla classifica 2005-2006 per Milan, Fiorentina e Lazio e rispettivamente di 8, 19 e 11 punti per la classifica 2006-2007, la revoca degli scudetti vinti dalla Juve nelle stagioni 2004-2005 e 2005-2006, dei quali quello del 2005 non è stato assegnato e quello del 2006 è stato attribuito all’Inter, terza classificata

MOGGI Luciano Monticiano (Siena) 10 luglio 1937. Ex manager del calcio. «Il calcio è uno sport la domenica e un’industria in tutti gli altri giorni» • è il protagonista del grande scandalo del 2006, quello che ha sconvolto il calcio italiano determinando il commissariamento della Figc e l’azzeramento di tutto il gruppo dirigente calcistico (Carraro, Galliani, Lanese, Pappa sostituiti da Guido Rossi, Matarrese, Agnolin, Borrelli), l’uscita di scena del gruppo dirigente juventino (Giraudo e Moggi, inibiti per cinque anni, e Bettega, poi recuperato), l’allontanamento del gruppo dirigente della Fiorentina (Andrea Della Valle inibito per tre anni, Diego Della Valle per tre anni e nove mesi), l’inibizione per due anni e sei mesi del presidente della Lazio Claudio Lotito, la retrocessione della Juventus in serie B con penalizzazione di 17 punti, la penalizzazione di 30 punti sulla classifica 2005-2006 per Milan, Fiorentina e Lazio e rispettivamente di 8, 19 e 11 punti per la classifica 2006-2007, la revoca degli scudetti vinti dalla Juve nelle stagioni 2004-2005 e 2005-2006, dei quali quello del 2005 non è stato assegnato e quello del 2006 è stato attribuito all’Inter, terza classificata. Moggi era, dal 1994, il direttore generale della Juventus e sotto la direzione sua, di Giraudo e di Bettega la squadra aveva vinto, comprendendo i due poi revocati, sette scudetti (95, 97, 98, 02, 03, 05, 06), una Champions League (96), una coppa Intercontinentale (96), una Supercoppa europea (96), una coppa Italia (95), quattro Supercoppe italiane (95, 97, 02, 03). Questi risultati, eccezionali soprattutto sul piano nazionale e tanto più notevoli perché ottenuti mantenendo i bilanci in ordine, discendevano certamente da una assai accorta conduzione aziendale e da un indubbio merito di gioco, ma anche — come scoprirono i magistrati di Napoli in un anno di intercettazioni telefoniche — da una rete di rapporti con tutte le componenti interessate al campionato intessuta giorno per giorno da Moggi e rafforzata da favori talvolta piccoli e talvolta grandi, talvolta relativi allo stesso mondo del calcio e talvolta no, perché Moggi — uomo di intelligenza assai fina e profondo conoscitore degli uomini e del suo paese — aveva esteso la sua rete in tutte le direzioni possibili, per esempio verso la politica, verso la magistratura, verso le forze dell’ordine, verso i giornalisti che furono suoi complici senza neanche capir bene quello che facevano, perché l’uomo era simpaticissimo, disponibile e cordiale con tutti e solo nei colloqui più intimi — per esempio quelli con Giraudo — mostrava la durezza necessaria a sopravvivere in un ambiente sempre al limite, di continuo coinvolto in scandali prodotti anche da una lotta tutta interna, combattuta solo all’ultimo sui campi di gioco e affrontata intanto in ben altro modo e in tutt’altre sedi. Dalle intercettazioni si vide che i due designatori arbitrali — Bergamo e Pairetto, ma specialmente Bergamo — erano molto sensibili ai suoi desideri e spiegavano a lui il come e il perché delle designazioni (fintamente assegnate dalla sorte). Vi furono le prove che l’arbitro Paparesta, il quale aveva lasciato vincere la Reggina sulla Juventus, era stato rinchiuso nel suo stanzino da Moggi furibondo, atto che diede alla magistratura il pretesto di imputarlo di sequestro di persona, che era un’esagerazione, ma che mostrava bene che cosa si aspettava Moggi dai direttori di gara e come reagiva quando non riceveva quello che a suo parere gli era dovuto. I due fratelli Della Valle — appena sbarcati nel mondo del calcio e ignari sulle prime del patto tra Juventus e Milan finalizzato al controllo di Lega, Federazione, diritti televisivi, mercato, risultati —, avendo intrapreso la lotta contro l’establishment, cioè contro Carraro e Galliani, videro che la Fiorentina era trattata sul campo in modo incomprensibile, e cioè pareggiava partite che avrebbe dovuto vincere e perdeva incontri che avrebbe dovuto pareggiare. In questo tracollo, apparentemente inarrestabile e che stava portando la squadra in B, capirono che c’era qualcosa d’altro rispetto al gioco del calcio e si lamentarono con Innocenzo Mazzini, il vice di Carraro, il quale consigliò di far due chiacchiere col designatore Bergamo, che — disse — fino ad allora aveva avuto l’impressione che i padroni della Fiorentina ostentassero una certa fastidiosa superbia, cosa che non andava bene. Lo stesso Della Valle portò, col fratello, a pranzo Bergamo e fece, per dir così, atto di sottomissione, in modo tale che dalla domenica successiva i risultati della Fiorentina migliorarono e si giunse al punto che un Lecce-Parma diretto dall’arbitro De Santis finisse in pareggio (3 a 3, 29 maggio 2005), unico risultato utile a salvare la Fiorentina e mettere nei guai il Bologna, infatti retrocesso dopo gli spareggi col Parma. De Santis, al telefono, disse di quella partita che era stata un capolavoro. Il ministro dell’Interno Pisanu, avendo il collegio elettorale a Sassari e preoccupato che la squadra della città andasse male, chiamò Moggi e gli spiegò che la Torres era in difficoltà, arbitri nemici, una classifica disperata e statistiche disarmanti: per esempio, non vinceva fuori casa da due anni. Moggi tranquillizzò, assicurò, fornì un manager (Cuccureddu, in quota Gea, e quanto al costo «Me ne occupo personalmente» e dopo poche giornate, «mamma mia!», arrivò anche la vittoria fuori casa). Le intercettazioni che mostravano questi traffici vennero pubblicate dai giornali, suscitarono la generale indignazione (e indignò in modo speciale quella del ministro, a cui Moggi, dopo aver detto «Pronto» e capito chi era, s’era rivolto con un gioioso «Beppe!» prova inconfutabile di un antico sodalizio) e provocarono il crollo dei vertici calcistici. D’altra parte, da molti anni i giornali parlavano di un asse Milan-Juventus, di una soggezione degli arbitri al sistema, sottolineavano la concomitanza di risultati incredibili che finivano sempre per favorire la Juve (i giocatori più forti che tra due o tre domeniche avrebbero affrontato la Juve venivano ammoniti, diffidati e infine costretti a saltare proprio il turno che li opponevano agli uomini di Moggi, rigori lapalissiani venivano negati, palle che sorpassavano la linea ed entravano nella rete di Buffon non venivano viste, un campionario di cui si potrà avere una pallida idea andando alla voce MORATTI Massimo e leggendo la storia dell’Inter) eppure questi stessi giornali trattavano poi Moggi con malcelata ammirazione, quella che si deve al mascalzone di successo, al furbo che vince sempre e, benché non si riesca a dir bene come faccia, si sa però poi benissimo come fa. I magistrati di Napoli interrogarono Moggi e si sentirono spiegare che poteva anche darsi che non fosse tutto regolare al cento per cento. D’altra parte — disse Moggi — lui doveva difendersi, con un padrone che non gli dava una lira (la Fiat) e un avversario che invece controllava la politica, i mezzi di comunicazione di massa, le banche e i giornali e che si chiamava Berlusconi. Il che, oltre tutto, non era neanche falso • Prima di arrivare alla Juve aveva lavorato con Roma, Torino, Napoli (scudetto 90) • A Monticiano nonna Celeste era famosa per l’abilità nel procurare licenze e rinvii per le reclute dei suoi tempi, in partenza per l’Africa. Papà Damiano «lavorava il bosco» (funghi, legna, castagne, un po’ di selvaggina). Con la moglie Onelia vivevano al 13 di via Cairoli. Lì nacque Luciano. Elementari a Monticiano, medie a Siena (ospite di parenti), a 14 anni tornò al borgo. Dal padre ereditò due passioni: i cavalli e la bicicletta (Bartali). La famiglia faceva una vita agiata, nel dopoguerra Damiano fu il primo del paese a farsi una villetta. Luciano non andava nel bosco, non andava a caccia, non raccoglieva legna. Ma al padre, nonostante i pettegolezzi, andava bene così: «Meglio che lavori un’ora in più io. La strada di Luciano è un’altra» • Patito di ciclismo, di cui sapeva tutto, sposa Giovanna, una ragazza da tutti definita eccezionale che viveva a Roccastrada, 15 chilometri da Monticiano • Nel 1962 vinse un concorso delle Ferrovie per «assistente di stazione». Esaurito l’addestramento, chiese di essere destinato a Civitavecchia, 50.000 abitanti a nord di Roma, sulla strada per la Toscana e per Monticiano, perché lì la vita costava meno. L’«assistente di stazione» era una specie di garzone, manovalanza spicciola, anche se bisognava occuparsi pure del telegrafo. All’inizio degli anni 70 vinse il concorso per capo-gestione, una figura subordinata al capostazione titolare: nella nuova posizione si occupava della biglietteria e delle merci in arrivo e in partenza. Grazie alla battuta pronta, in tanti anni Moggi non ebbe mai screzi con viaggiatori. A fine annata le pagelle: il capostazione titolare valutava ogni dipendente. Le voci erano quattro: capacità professionale; attitudine al servizio; disponibilità verso il pubblico; salute. Moggi eccelleva, e coltivava la passione per il calcio, la notte lavorava, il giorno (grazie agli sconti per i ferrovieri) andava in giro a caccia di talenti come osservatore della Juve di Allodi prima e di Boniperti poi. Scoprì, tra gli altri, Causio, Scirea, Paolo Rossi. Finché gli fu offerto il pre-pensionamento. Poco più che quarantenne, cominciava una nuova carriera • Da calciatore era uno stopper ruvido, niente piede, molto senso della posizione. A 22 anni andò ad Agrigento: «Non ricordo niente, né il mare né il volto di una donna. Solo che gioco maluccio e mi chiedo come potrò mai far campare una famiglia con il calcio. Mi rispondo che forse posso, ma non giocandoci» • «Avevo un grande amico alla Juventus, il ragionier Amelio, il segretario generale. è il 60. Gli scrivo, mi dà credito, divento osservatore della Juve. C’era il povero Italo Acconcia che selezionava a Coverciano. Nel 76 io ho 39 anni e comincio ad affermarmi. Ho fatto bene con i ragazzi della Juve, ora Anzalone mi vuole alla Roma. Vado, firmo, comincio a fare qualcosa da esterno, posso entrare solo a luglio. Non l’avessi mai fatto. In quattro mesi me ne dicono di tutti i colori. Stavo crescendo, il calcio mi respingeva. Non c’è niente di più conservatore del calcio. Un giorno mi ritrovo in prima pagina sulla Gazzetta a firma di un vecchio giornalista, che non c’è più, diceva che ero profondamente scorretto, praticamente un imbroglione. Facevo gli accordi per fatti miei su carta intestata della Juve e con la penna della Juve. Piansi. Ma quali affari, quale carta intestata, quale penna! La Juve non mi lasciava nemmeno le gomme da cancellare. Non ero nessuno, ero un combattente della vita, ma mi dipingevano già così. Andai da Anzalone e gli dissi che per me era troppo. Non capivo, ero pieno di rabbia, mi sentivo cieco e impotente. Mi sp aravano tra gli alberi e scappavano, dovevo prendere in mano il gioco io. L’unico modo per farlo era strappare il contratto. Anzalone mi guardò ammirato» • «Quando era a Napoli con Maradona, e faceva le stesse cose che avrebbe fatto poi, hostess incluse, passava per il Robin Hood del Sud: “Rubava” a Berlusconi per sfamare gli scugnizzi. Quando era al Toro, e faceva le stesse cose che aveva fatto a Napoli, “rubava” ad Agnelli per foraggiare il tremendismo granata. Il problema si è posto allorché ha mollato Sensi dimenticandosi di lasciargli Ferrara e Paulo Sousa: se li mise in valigia e li portò alla Juve. Apriti cielo. Il Moggi a strisce è diventato, di colpo, il Grande Vecchio» (Roberto Beccantini, prima che scoppiasse lo scandalo) • Già prima di “Moggiopoli” era incappato in qualche disavventura giudiziaria: «Prima la vicenda delle interpreti a luci rosse che accompagnavano gli arbitri europei inviati a dirigere le partite di coppa del Torino, poi quella dell’attaccante brasiliano Muller che prese una bustarella durante un appuntamento volante sull’autostrada Torino-Milano. Infine, ci furono i fondi neri del caso Lentini. Ma ne è uscito sempre senza gran danno. Soltanto una volta patteggiò un’ammenda di cinque milioni per frode fiscale relativa a un traffico di giovani calciatori. Una bazzecola» (Pierluigi Ficoneri) • Alla Juve lo portò Giraudo. «L’avvocato Agnelli, ormai non più gestore diretto della Juve, assistette alla cosa con un po’ di fastidio (lo confessava al defenestrato Boniperti quando guardavano insieme la televisione), e mai una volta accettò di farsi fotografare accanto a Moggi. Dal quale, però, si è fatto servire per una buona serie di campagne-acquisti senza storcere troppo il naso. Una volta, a chi gli fece notare i trascorsi non proprio cristallini di Lucianone e le di lui amicizie, l’Avvocato rispose: “Lo stalliere del re deve conoscere anche i ladri di cavalli”» (Maurizio Crosetti).