Il Catalogo dei viventi 2007, 6 luglio 2011
MARCHESI
Gualtiero Milano 19 marzo 1930. Chef. «Altro che i cuochi alchimisti, tecnici di laboratorio! Semplicità ci vuole nei sapori, senza far vedere la tecnica che c’è dietro, come diceva Chopin ai suoi allievi» • «è stato il primo, nell’85, a portare in Italia le prestigiose tre stelle della guida Michelin,
riconoscimento concesso con grande parsimonia e riservato a pochi eletti al di
fuori della Francia. Dopo i severi critici della Michelin, nel 90 ha folgorato
anche Jack Lang, allora ministro della Cultura, che lo ha nominato Cavaliere
dell’Ordine delle arti e delle lettere» (L’Espresso) • «Nino Bergese incominciò a lavorare tra i fornelli a 13 anni. Lui esordì all’albergo-ristorante “Mercato” dei genitori quando di anni ne aveva 17. Se il mitico cuoco di Saluzzo -
scomparso nel 77 - ha segnato la storia della ristorazione italiana fino agli
anni 70, aprendo poi la strada di Gianluigi Morini del San Domenico, Gualtiero
Marchesi per il trentennio successivo ha incarnato, quasi per antonomasia, il
ruolo dello “chef innovativo” dell’alta cucina. Su di lui la critica gastronomica si è divisa come su nessun altro. L’inventore del “raviolo aperto” (correva l’anno 85, quando il suo locale in via Bonvesin de la Riva prese per la prima
volta in Italia le “tre stelle” dalla Guida Michelin). Lui, quando lo si definisce come l’inventore della nouvelle cuisine, replica: “Oggi quelle due parole non vogliono più dire niente. è come se si dovesse definire Picasso un cubista. La cucina, come la pittura, ha
i suoi periodi, ci sono cambiamenti di marcia continua, dal dadaismo all’iper-realismo”. Racconta Marchesi: “Io imparai nel ristorante dei miei genitori, dove la milanese arrivava in tavola
spumeggiante di burro. Poi però al Troisgros di Roanne, vicino a Lione, dove da tre generazioni si fa la grande
cucina francese, nel 65 ci fu qualcuno che incominciò a ‘porzionare’ nel piatto invece di presentare in tavola il vassoio di portata...”. E dal 77, quando Gualtiero si mise da solo, incominciarono ad arrivare i
grandi piatti: le insalate di spaghetti, il raviolo aperto, il risotto alla
milanese con la foglia d’oro, il filetto alla Rossini, le mousse ghiacciate. Tra i gastronomi si dice che
Gianfranco Vissani sia un grande cuoco, dalle doti “naturali”, mentre Marchesi - adesso che Dan Brown ha fatto partire la moda con il suo
romanzo su Da Vinci - è un comunicatore nato che può dettare persino un suo “codice”» (Gigi Padovani)
• «Non mi piaceva, ad esempio, questa esasperazione del lavoro sul piatto. Ma come
si fa a non capire che certi sapori si esaltano nel servizio di sala, dove la
presentazione serve a valorizzare il prodotto? Ci sono cose meravigliose come l’anatra al torchio, ad esempio, che sembra quasi vergognoso proporre in Italia. E
invece molti giovani, che sono più bruciapadelle che cuochi - e Dio solo sa quanti ce ne sono con tutta questa
televisione che diseduca - non arrivano a comprendere che un gigot d’agnello smontato in cucina, nel piatto diventa solo un pezzo di carne”. Il punto giusto di cottura è una delle bestie nere dei detestati bruciapadelle. “Stracuociono, perché non sanno la tecnica. Per non parlare di questa abitudine becera di aggiungere
un filo di olio a crudo dappertutto”, sogghigna perfido il maestro. “E vogliamo parlare di questa fissazione di fare gli artisti, invece che
sforzarsi di essere bravi artigiani?”. Già, perché l’amore per la musica e le arti figurative sono il versante privato che fa la
ricchezza interiore di questo chef, del tutto anomalo rispetto alla categoria.
Un uomo sofisticato, perfezionista, curioso, che cita Kant per spiegare un sugo
e che è più fiero del talento dei nipotini piuttosto che del suo mitico raviolo aperto, col
quale ha sdoganato la pasta ripiena dalle sue semplificazioni becere. “Mia moglie Antonietta è una pianista di valore, mia figlia Simona è un’arpista e i suoi due figli, Clio e Michelangelo, studiano già musica con grandi risultati. L’altra figlia Paola è una artista molto dotata, lei condivide con me il versante materico, la
tattilità”» (Giacomo A. Dente).