Il Catalogo dei viventi 2007, 6 luglio 2011
MARANGHI
Vincenzo Firenze 3 agosto 1937. Banchiere. Ex amministratore delegato di Mediobanca (fino
all’aprile 2003) • «Discreto, riservato, di poche parole. Ma anche impulsivo, appassionato, a volte
ai limiti della ruvidezza. Con l’hobby della pesca e con il pallino delle auto sportive, Alfa Romeo e Maserati in
testa. L’ultimo strenuo difensore di Mediobanca, il banchiere erede di Enrico Cuccia,
colui che da sempre è stato definito come “delfino” e unico vero interprete del pensiero del fondatore. Ha da poco superato i
trenta quando si presenta al cospetto del “Grande Timoniere”. Sua moglie, Anna Castellini Baldissera, viene da una famiglia di banchieri,
azionisti della Banca lombarda di depositi e conti correnti, la Lombardona. Ha
forse un unico neo per l’ovattato mondo della finanza: quello di aver lavorato come giornalista alla
redazione del quotidiano economico Il Sole. Un peccato di gioventù che tuttavia non gli pregiudica la stima e la considerazione di Cuccia. Segue
tutta la trafila del potere: da segretario dello stesso Cuccia fino all’ufficio studi, poi agli affari speciali - le operazioni più delicate - , le partecipazioni, l’area affari e, infine, anche il servizio crediti. è l’88, una data storica per Mediobanca, che rivede le forme del suo controllo con
la costituzione di un patto tra le Bin (Banche di interesse nazionale), Comit,
Credit e Banca di Roma e il salotto buono degli imprenditori italiani. In
quella che è ancora Via Filodrammatici siedono Agnelli, Pirelli, De Benedetti, Ligresti,
Pesenti, Marzotto, Pecci, Ferrero, Cerutti. è una data importante anche per lui, che sale alla carica di amministratore
delegato al posto di Silvio Salteri (che a sua volta era succeduto a Cuccia),
mentre Francesco Cingano diventa presidente sostituendo Antonio Maccanico, che
ha terminato la sua mediazione. La voce di Mediobanca è lui: agli azionisti si presenta puntuale all’assemblea che il 28 ottobre di ogni anno approva il bilancio. In pratica, l’unica occasione di ascoltarlo dal vivo mentre difende le operazioni della banca,
che continua a essere la clinica del capitalismo italiano, il luogo dove si
sistemano situazioni aziendali compromesse o si stilano diagnosi per uscire
dalle crisi. Operazioni condotte in piena autonomia, alcune portate a buon fine
come la ristrutturazione Ferruzzi, ma anche abortite come quella nota come
Supergemina. Ma con la convinzione che se Mediobanca non avesse svolto il suo
ruolo “le condizioni del sistema industriale italiano sarebbero molto diverse da quelle
attuali e ci sarebbe una presenza pubblica assai maggiore”. Spesso, in quelle stesse assemblee, si toglie anche qualche “sassolino dalla scarpa”. Come quando, nel 96, si lamenta perché la banca viene esclusa dalle privatizzazioni. E le sue calzature, aggiunge, “non sono da yachting”, riferendosi alla crociera sul Britannia durante la quale sarebbe stata
spartita con le banche d’affari straniere la torta delle cessioni dello Stato (vedi DRAGHI Mario). Una
diffidenza di fondo per la politica (“è sempre stata fuori da Mediobanca e, per quanto mi riguarda, resterà fuori per sempre”, dice) che non gli impedisce però di stringere un’alleanza (che definisce solo di business) con la Mediolanum di Ennio Doris e del
presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Ma sono tempi più recenti: nel giugno del 2000 Enrico Cuccia muore. Lo storico asse con la
francese Lazard, imperniato sulle Generali, si è già sciolto e il patto di sindacato e le regole di governance dell’istituto vengono riviste un’altra volta. I soci bancari, prima Capitalia e poi anche UniCredito, mostrano
sempre più la loro insofferenza per la gestione indipendente di Maranghi. Sono gli ultimi
mille giorni: naufraga la fusione Falck-Montedison; la Fiat, con la quale i
rapporti si sono raffreddati da tempo, si mette alla testa di una scalata a
Foro Buonaparte che causa anche la travagliata vicenda della fusione tra l’amata Fondiaria e la Sai dei Ligresti. Alle Generali allontana Alfonso Desiata
per Gianfranco Gutty. Prima aveva rotto con Antoine Bernheim, destinato poi a
tornare a Trieste al posto di Gutty. Una sorte, all’interno di Mediobanca, toccata anche ai giovani leoni Gerardo Braggiotti e
Matteo Arpe, licenziati (o licenziatisi, le versioni non concordano)
rispettivamente nel dicembre del 97 e del 99 e approdati, su fronti avversi, ai
vertici di Lazard e Capitalia. L’ultimo colpo è quello dell’acquisto del 34% della Ferrari, soffiata proprio alle banche azioniste e rivali.
Che temono il ruolo che Mediobanca potrebbe ritagliarsi nella crisi Fiat, e non
glielo perdonano. A poco vale anche l’alleanza con il fronte francese, Vincent Bolloré e Bernheim, che preferisce un accordo piuttosto che uno scontro sulla sua
permanenza. è l’ultimo atto, anche il “delfino” è costretto ad abdicare» (Stefano Agnoli).