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 2011  luglio 06 Mercoledì calendario

MANCINI

Roberto Jesi (Ancona) 27 novembre 1964. Ex calciatore. Ha esordito in serie A a nemmeno
16 anni con il Bologna. Ha vinto due scudetti (con la Sampdoria nel 91 e con la
Lazio nel 2000) e due coppe delle Coppe (con la Sampdoria nel 90, con la Lazio
nel 99), cui vanno aggiunte sei coppe Italia. In Nazionale 36 presenze e 4 gol.
Dal 2004 allenatore dell’Inter. Ha vinto due coppe Italia (2005, 2006), altre due le aveva vinte sulla
panchina di Fiorentina (2001) e Lazio (2004). Lo scudetto 2006 gli è stato assegnato a tavolino, dopo la revoca del primo posto alla Juventus e la
penalizzazione di 30 punti del Milan (che erano arrivati primo e secondo). 19° nella classifica del Pallone d’oro 91, 20° nell’88. «Nasco juventino e quindi non ho mai pensato alla Juve come a una nemica» (Mancini)
• «Chi si fa ricordare per i gol di tacco non può amare la semplicità. Roberto Mancini, talento contorto, è sempre partito in anticipo e non ha ancora tagliato un traguardo. Non a braccia
alzate, almeno. A 17 anni già giocava in serie A, a 18 costava due miliardi e mezzo e incantava. I presidenti
e il pubblico. Pupillo adorato e bambino prodigio, il Mancio: bello da guardare
e difficile da piazzare. Per trovare lo spazio giusto si è messo a fare il tecnico ombra. Funzionava alla Sampdoria e alla Lazio, in
Nazionale però no. “Il rapporto con la patria è come quello con i genitori: orgoglio, rispetto, amore. Ma a volte non ci si
capisce. Peccato”. L’azzurro è stato un rimpianto e un tormento, più di 100 convocazioni e in concreto 36 presenze e 4 gol. Quando la sua carriera
si riduce in statistica, dell’infinito talento resta davvero poco. Due scudetti gestiti dal campo, troppe
coppe Italia, simbolo inequivocabile del successo che non riempie e del trionfo
che non resta. Ha perso una coppa Campioni ai supplementari contro il
Barcellona, a Wembley. Sarebbe stato il momento perfetto: il genio del pallone
che conquista la chiesa del calcio. Mancato. Non c’è più la coppa Campioni e Wembley l’hanno tirato giù, Mancini non perdona. Non concilia, ha sempre esibito la sua bravura e litigato
per difenderla in modi scocciati e mai scomposti. La sua eleganza crea
imbarazzo. Quel modo altezzoso di riassettarsi il ciuffo, la voce roca, il
burrocacao sempre in tasca e la biografia da predestinato. Anche in panchina ci
è arrivato per direttissima, saltando la trafila. Subito serie A e ennesimo
subbuglio. Per il suo patentino improvviso ha protestato un’intera categoria. Faceva il secondo alla Lazio, è diventato il primo alla Fiorentina: “Fossi presidente, mi assumerei. Io non faccio il numero due”. E infatti Cragnotti l’ha arruolato al secondo giro e Moratti si è innamorato al primo colpo. Dell’idea, perché l’idea Mancini è irresistibile, il Mancini vero perenne incompiuto» (Giulia Zonca)
• «Il figlio del falegname di Jesi — dove torna per la pasta al forno e i vincisgrassi di famiglia — ricorda ancora quando se ne andò di casa a 13 anni. Destinazione Bologna. Era il 77, Lucio Dalla forniva la
colonna sonora e per le strade si consumava una breve ma intensa (direbbe
Sacchi) rivolta. Roberto seguiva distrattamente gli eventi da una panchina del
parco, sempre quella, dove ripensava a casa e a una giovinezza sacrificata al
pallone. Bologna con la sua grassa compagnia lo ha aiutato e ancora adesso è la città che ama di più. Più di Genova, dove è diventato grande. Gli sono sempre piaciuti i circoli, le tavole rotonde. Ogni
giovedì dall’indimenticabile Edilio, il ristorante dietro lo stadio Ferraris, si riunivano
Biancaneve (Edilio medesimo) e i sette nani: Mancio, Vialli, Mannini, il
direttore generale Borea, il direttore sportivo Arnuzzo, l’addetto agli arbitri Montali e Antonio Soncini, il responsabile del settore
giovanile che aveva valorizzato Mancini a Bologna, fino all’esordio in serie A, a neanche 17 anni. Crescendo, Mancini ha traslocato dai
circoli ai salotti. Pesano di più. è diventato amico dei Geronzi, dei De Mita. Ce l’aveva nel sangue (è un’artista, no?) ma ha plasmato il suo stile, scegliendo gli abiti giusti, quasi
sempre blu (come Carraro), gli orologi di classe, le sciarpe di cachemire (è stato uno dei primi ad annodarsele al collo a mo’ di cappio), le scarpe inglesi, le auto costose e veloci, come 007, il
personaggio che lo seduce di più. Scivola sul bere: al verdicchio preferisce la Coca cola. Però, per i nuovi amici a sangue blu non ha dimenticato i vecchi, come il mitico
magazziniere della Samp, Bosotin. Offre e pretende lealtà, però diventa intransigente con chi si azzarda a contraddirlo. Difetto: si circonda
solo di gente che sa dire “sì” e tende a venerarlo» (Antonio Ferrari)
• «Se arrivasse in Italia il famoso marziano che sa tutto di pallone e venisse a
sapere che Roberto Mancini, vent’anni di serie A, due scudetti storici (Sampdoria e Lazio), simbolo acclarato del
talento calcistico puro, non ha MAI disputato una sola partita di un solo
Mondiale, ci toglierebbe probabilmente la tessera di abitanti della galassia. “E nell’unico in cui venni convocato, cioè in quello del 90 - ringhia con un rancore ancora solido, immutato e per nulla
addolcito dal tempo - Azeglio Vicini non mi fece giocare neanche dieci minuti!
Nemmeno la finale per il terzo posto! D’altra parte quello non fu certo l’unico errore che commise!. Un regalo, però, ce lo fece. Ci fece talmente imbestialire, ferì così tanto il nostro orgoglio che noi della Samp vincemmo alla grande il successivo
scudetto”
• «Ha giocato a calcio meglio di tutti i suoi colleghi in panchina, è stato un fuoriclasse del livello di Baggio. Il che significa avere il calcio
dentro, pensarlo in modo categorico e personale, avere la capacità di vederlo dove gli altri vedono solo spazi vuoti. Mancini ha giocato per venti
anni, una carriera doppia sempre ad alti livelli. Ha vinto due scudetti con due
squadre improbabili, Sampdoria e Lazio. Come i veri fuoriclasse ha trasformato
i luoghi in cui ha giocato, li ha resi vincenti fino a livelli impensabili (la
sua Samp ha vinto la coppa delle Coppe e ha perso ai supplementari la coppa dei
Campioni). Poi lasciandoli, li ha riconsegnati alla loro normalità, confermando che la differenza era lui. Mancini in sostanza vede il calcio da
genio, difficile capirlo, va seguito. Ma è un genio che non si parla addosso. Non ama il calcio per il calcio, cerca
sempre la sostanza. Il primo anno a Firenze mise Rui Costa seconda punta
accanto a Chiesa. Rinforzò difesa e centrocampo, passò a lungo per catenacciaro perché non aveva attacco. Si appoggiava dove trovava più forza. L’anno dopo inventò una difesa di juniores e un’orda di piccoli fantasisti in attacco. Si ruppe Chiesa, non funzionò. Ma era già un altro schema, un calcio opposto all’anno prima. Alla Lazio si è sfogato. Aveva giocatori di classe, altri li ha inventati, altri li ha rimessi
in moto. Ha fatto sempre spettacolo. Ama il gioco, non si spaventa. Studia i
particolari, ha le sue visioni, prende in contropiede la vita e il calcio degli
schemi. La sua squadra ideale ha due mezzale che giocano a calcio, entrambe con
piedi buoni. Una un po’ più fisica, l’altra decisamente tecnica. Vuole due esterni di attacco, che sappiano saltare l’uomo, molto larghi, molto talentuosi, due veri fantasisti. Il suo centravanti
ideale è stato Casiraghi e quello ancora cerca nelle sue costruzioni di squadra. Poi la
prima punta, comunque sia, basta che sappia segnare» (Mario Sconcerti).