Il Catalogo dei viventi 2007, 6 luglio 2011
LIPPI Marcello Viareggio (Lucca) 11 aprile 1948. Ha portato la Nazionale di calcio (che allenava dal 2004, subentrato a Trapattoni dopo i deludenti Europei di Portogallo) a vincere i Mondiali di Germania (2006) e, il giorno dopo la vittoria, ha dato le dimissioni, lasciando il posto a Donadoni
LIPPI Marcello Viareggio (Lucca) 11 aprile 1948. Ha portato la Nazionale di calcio (che allenava dal 2004, subentrato a Trapattoni dopo i deludenti Europei di Portogallo) a vincere i Mondiali di Germania (2006) e, il giorno dopo la vittoria, ha dato le dimissioni, lasciando il posto a Donadoni. Né la vittoria né le dimissioni possono essere capite fino in fondo se non si inquadrano nel clima determinato dal cosiddetto scandalo Moggi, dalle inchieste sul calcio dei magistrati napoletani e romani, dal processo sportivo intentato alla Juventus e alla Gea. Prima dei Mondiali, da un’intercettazione telefonica pubblicata dai giornali, risultava che Giraudo e Moggi avevano di Lippi un’opinione non troppo alta, giudicandolo un debole, interessato solo alla barca e alle donne. Sembrava di capire (ma le intercettazioni si leggevano al di fuori di ogni contesto) che Lippi seguiva nelle convocazioni o nelle non convocazioni i suggerimenti di Moggi. Da altre telefonate e interrogatori, risultava che il figlio di Lippi, Davide, procuratore di mestiere, prometteva ai calciatori — per indurli a farsi rappresentare da lui — che il padre li avrebbe convocati in azzurro, valorizzandoli (su questo la testimonianza più pesante era di Blasi). Davide Lippi faceva parte della Gea e anche il titolare della Gea, Alessandro Moggi, adoperava il sistema di corteggiare i calciatori promettendo la Nazionale (e poteva essere millanteria). Su tutto questo Lippi dovette rispondere ai magistrati e parecchi giornali autorevoli scrissero che sarebbe stato meglio per la Nazionale che il ct si facesse da parte e non andasse in Germania (la stessa richiesta veniva fatta a Buffon, coinvolto in una storia di scommesse). Lippi rispose che non si sarebbe dimesso, avrebbe onorato il contratto che aveva con la Federcalcio e aggiunse che chi aveva sospetti poteva guardare la lista dei convocati e vedere se c’era una presenza Gea esagerata. Lo stesso commissario Rossi, dopo un primo momento di esitazione, lo appoggiò senza riserve. Lippi andò in Germania, vinse e poi lasciò l’incarico non cedendo alle lusinghe dei mille che, dimentichi delle accuse lanciate solo trenta giorni prima, gli chiedevano adesso di rimanere • Con la Juve (94-99, 01-04, in mezzo una infelice parentesi all’Inter) ha vinto cinque scudetti (95, 97, 98, 02, 03), una Champions League (96), una coppa Intercontinentale (96), una supercoppa Europea (96), una coppa Italia (95), quattro supercoppe Italiane (95, 97, 02, 03). «Io so di essere un tecnico segnato. Non si può stare tanto tempo come me alla Juventus e non finire per farne profondamente parte» • «“È troppo bello per diventare qualcuno nel calcio” aveva sentenziato Fulvio Bernardini che pure lo fece debuttare in serie A. Papà Salvatore pasticciere, mamma Adele sarta. Era il figlio di mezzo di tre, una sorella, un fratello minore. La sua prima squadra si chiamava Stella Rossa. Aveva un anarchico per allenatore, Ilario Niccoli, detto “Carrara”. Gli procurò un provino con la Sampdoria. Marcello aveva 16 anni. Restò a Genova per 16 anni. Scoprì la serie A. Un libero moderno, dotato di buona tecnica, capace di costruire e anche di segnare. Realizzò un bel gol anche a San Siro contro l’Inter. Presto esordì in Nazionale, nell’under 23, il 17 febbraio 71, a Bari: Italia-Israele 2-0. Dopo 239 partite in maglia blucerchiata, Giorgis non lo volle più. Allora, nel 79, passò alla Pistoiese e provò l’ebbrezza della promozione in serie A. Dopo tre anni alla Pistoiese e l’ultima stagione alla Lucchese, dopo il supercorso di Coverciano, Mantovani lo rivolle alla Sampdoria e gli affidò la panchina della Primavera. Era l’84. Pontedera, Siena (primo esonero), Pistoia, Carrara. Nell’89, con il Cesena, scoprì la serie A come allenatore. Conquistò la salvezza. Ma l’anno successivo, alla 17ma giornata, Edmeo Lugaresi lo sostituì. Lippi ricominciò dalla Lucchese. Ritrovò la A con l’Atalanta. Fece bene a Napoli. Nel 94 ebbe l’investitura: la panchina della Juventus» (Claudio Gregori) • «Si era chiusa l’era Boniperti. Una svolta epocale come può avvenire soltanto in grandi gruppi finanziari, dove la programmazione si definisce strategia aziendale e si lega a cambiamenti massicci. Via Giampiero Boniperti, dentro Antonio Giraudo. Via un intero staff dirigenziale, dentro un altro. Con Giraudo, ecco arrivare Bettega vicepresidente, e soprattutto lui, il Lucianone Moggi, plenipotenziario, furbo, tentacolare come un polpo, allievo prediletto di Italo Allodi. Come conseguenza logica finì anche l’era Trapattoni. La scelta cadde, un po’ a sorpresa, su Marcello Lippi già soddisfatto di aver trovato un suo spicchio di gloria a Napoli, dopo la controversa esperienza all’Atalanta. Non aveva lavorato male, migliorando il piazzamento dell’anno precedente con un sesto posto che gli valse l’ingresso in coppa Uefa. Pensava di girare l’Europa col Napoli, invece gli arrivò la proposta di Moggi per passare alla Juventus. “Ti vuole una società bianconera...”. Lippi tentò di stare allo scherzo e ribatté che lui a Cesena c’era già stato. In realtà aveva fiutato il momento solenne, l’offerta alla quale È impossibile dire di no» (Gino Bacci) • «Prima di allenare il Cesena nel campionato 89-90, e quello fu il suo esordio in serie A, Marcello Lippi era andato a scuola dal colonnello Lobanowski, ct dell’Urss e della Dinamo Kiev, ultimo esponente del socialismo scientifico applicato al calcio. Quindi biomeccanica, collettivismo, spregio assoluto per le primedonne. E aggiungeremmo: cinismo politico assoluto. Se ne accorsero i calciatori della Juventus il giorno che incontrarono il loro nuovo allenatore nell’estate del 94. Per prima cosa videro la palestra di 400 metri quadrati con macchine e attrezzi fatta costruire dal preparatore Ventrone. Quindi ebbero in mano un bigliettino: “Se in un gruppo di lavoro tutti si specchiano negli altri e cercano di darsi una mano significa che quel gruppo È destinato a vincere”. Uno dei suoi primi maestri di calcio era stato Fulvio Bernardini, tattico geniale. Ex libero della Sampdoria, Lippi ebbe a tributare pubblici onori anche a Rocco, l’uomo che aveva dimostrato quanto l’organizzazione di gioco potesse essere superiore alla somma delle forze in campo. Da allenatore si era fatto le ossa con il Pontedera, la Carrarese, il Siena, la Pistoiese. Abituato alle incertezze e alle insidie dei campi nelle serie minori, salì alla ribalta col Napoli del dopo Maradona, ma all’utopia sacchiana della zona integrale e del calcio-spettacolo credeva fino a un certo punto: “Un tecnico — diceva — deve conoscere e insegnare qualsiasi tipo di calcio”. Gli anni 90 chiamavano a un pragmatismo di tutt’altra fattezza: il calcio della pay-tv e della quotazione in Borsa mandava in pensione le disfide tattiche che avevano animato la critica italiana fin dagli anni 60, e divideva gli allenatori in due: i vincenti e i perdenti. Berlusconi mandò Capello a scuola di management negli Stati Uniti, prima di affidargli il Milan dominatore della prima parte del decennio. La Juve di Giraudo, Bettega, Moggi esordì invece ponendosi il problema di trovare un’altra “mentalità vincente”, diversa da quella rossonera. Lippi si incaricò di assumerne il volto pubblico. E dominò la seconda metà del decennio. Il patto Milan-Juve, si disse. Ma quel che accadde veramente dietro le quinte È ancora oggetto di indagine. Certo, un concetto come quello del turn-over e del controllo ferreo dello spogliatoio, per cui Lippi passa agli onori della storia calcistica italiana, incarna la lividità postindustriale della Juve nell’era del tramonto della Fiat. Il Milan aveva dalla sua il glamour dello spettacolo e della tv, quindi quello del neopopulismo berlusconiano. La Juve non nasceva dalla tv, ma dalle macerie dell’industria. Una sequenza infinita di silenzi stampa. Non aveva neppure uno stadio all’altezza, data la costante e spettrale vuotezza delle tribune al Delle Alpi. Lippi per la Vecchia Signora ha inventato un calcio pressoché iconoclasta, basato sul pressing, la verticalizzazione, la forza. Chiamò la sua prima Juventus (con Vialli, Ravanelli, Di Livio), “squadra di Rambo”. Veltroni, tifoso entusiasta del primo scudetto del ciclo Lippi, lo avvicinò a Ciampi. Arrigo Sacchi gli concesse una definitiva benedizione: “Ha abbattuto tutti i Moloch della tradizione: squadra che vince non si cambia; conta solo la fantasia; in una squadra sono importanti 4 o 5 giocatori e non 20”. Zeman, infine, inventò una delle battute di un duello che da solo È in grado di raccontare tutta la storia del nostro calcio negli ultimi quindici anni: “Se si vince con la sola forza si ammazza il calcio”. Seguirà la battuta ferale del boemo sulla Juventus “all’avanguardia nella farmacologia” per via dei muscoli gonfiati di Vialli e Del Piero. Fu pronunciata nell’autunno 98 e da lì nacque il lungo processo per doping. Sempre a Zeman va attribuito un “la Juventus È la più forte perché È la più aiutata”, pronunciata quando Lippi si avviava a vincere il terzo scudetto. I festeggiamenti furono all’altezza: “Son contento — disse Lippi in tv — Ancor più contento perché ci hanno buttato tanta merda addosso”. Poi si scusò. L’avvocato Agnelli citò Cambronne e non perse l’occasione per un’ulteriore battuta: “Lippi È il prodotto migliore di Viareggio. Dopo la Sandrelli, ovviamente”. L’Antipatico. Uno che non ha mai nascosto il fastidio per i riti del giornalismo sportivo e del calcio in tv, dalla moviola (“non ne commenterò più fino alla fine della carriera”), alla conferenza stampa. Salvo servirsene nei momenti di difficoltà estrema. Lasciò l’Inter in diretta dopo una partitaccia contro la Reggina, urlando: “Se fossi il presidente manderei via l’allenatore, poi chiamerei i giocatori, li attaccherei al muro e darei dei calci in culo a tutti”. Quella coi nerazzurri resta tutt’ora la parentesi più disastrosa della sua carriera, ma anche la più indicativa, una specie di cartina di tornasole. In quel 99 si intuì infatti che i suoi metodi di “gestione dello spogliatoio” avevano delle controindicazioni. Vennero fuori le feroci litigate con Vieri, Conte e Deschamps alla Juve. Dagli spogliatoi di Appiano Gentile, in seguito, filtrarono i pessimi rapporti con Baggio (che lo accusò senza mezzi termini di avergli chiesto di “fare la spia” in seno al gruppo). E poi la litigata in campo con Panucci, che È anche il motivo per cui il terzino della Roma un posto in Nazionale, anche da riserva, se lo può sognare. Moggi, all’epoca, dichiarò: “Lippi È un uomo vincente ma dev’essere aiutato”. Lo ripete pari pari in una delle intercettazioni di Calciopoli: “Va tenuto a bada, riordinato”. Nato difensore, in difesa Lippi non È granché. Ricorre spesso all’argomento della specializzazione. Lo fece all’epoca del processo alla Juve, sostenendo che doping non ce n’era, comunque era un problema del dottor Agricola. L’ha fatto quando il suo nome È venuto fuori per via delle convocazioni “suggerite” dalla Gea del figlio Davide. “La Gea? Ho chiesto a mio figlio: quali sono i calciatori della Gea?”. Che È forse troppo per un ct che ha selezionato per la Nazionale Blasi e Chiellini, salvo poi lasciarli a casa prima dei Mondiali. Né È sfuggita ai tifosi del Livorno la scelta azzardata di prendere Iaquinta (Gea) invece di Lucarelli. Uno striscione al Picchi recitava: “Iaquinta, Lippi più Gea uguale Nazionale”. E ha del clamoroso, per quel che si È saputo dopo, uno scambio col cardinale Angelini nei giorni turbolenti di Italia-Bielorussia: “Nelle convocazioni ci sono pressioni e raccomandazioni”, disse l’alto prelato. “Dico due bestemmie e spunta un cardinale — rispose il ct — Naturalmente convochiamo i calciatori dopo aver parlato con dirigenti e procuratori, e prendiamo quelli che ci garantiscono il maggior tornaconto”. Scherzava, ma il senso dell’umorismo non È mai stato il suo forte» (Alberto Piccinini) • «Quella puntata di Domenica Sprint in cui l’avevano messo a confronto con Zdenek Zeman. Da una parte il ct della Nazionale, l’allenatore che aveva vinto tutto; dall’altra il grande accusatore boemo, l’eretico del pianeta calcio. Il dibattito era stato teso, ma educato. Fino al momento in cui Lippi, spazientito dai continui riferimenti alla Juve dopata, se n’era uscito con quella frase: “A Zeman dico che non si può criticare un sistema e continuare a farne parte”. Già, il sistema del calcio. Proprio quello che È andato a pezzi. E che Marcello Lippi — coerentemente — non ha mai criticato. Anzi, ha frequentato a lungo e nei suoi poteri più forti: Luciano Moggi e Antonio Giraudo, con i quali ha formato un solido team di lavoro per otto anni. Oggi Lippi si chiama fuori e non ricorda nulla: “Le mie convocazioni? Sono sotto gli occhi di tutti”. “Metodo Moggi? Non ho idea di cosa sia”. Ma forse, per rinfrescarsi la memoria, potrebbe leggersi le intercettazioni fatte dai carabinieri nell’autunno del 2004. Il 12 ottobre, ad esempio, Carraro chiama Moggi per chiedergli di intervenire su Lippi affinché il giorno dopo contro la Bielorussia in attacco non schieri Esposito (che tre giorni prima aveva esordito in modo poco brillante contro la Slovenia) e faccia giocare Totti come punta. Sembra incredibile: Carraro È il presidente della Figc, ma per intervenire su Lippi deve chiedere aiuto a Moggi. “Io sicuramente non ci posso parlare”, spiega. E Lucianone lo tranquillizza: “È tre o quattro giorni che gli sto alle calcagna, domattina arrivo, sto con lui e vediamo un po’”. Il giorno dopo, contro la Bielorussia, Esposito non gioca e Totti È schierato in attacco accanto a Gilardino. Ma Moggi serve anche come camera di compensazione dei conflitti nello spogliatoio azzurro: il difensore della Juve Fabio Cannavaro, dopo aver saputo che contro la Bielorussia andrà in panchina, fa chiamare Lucianone dal suo agente Enrico Fedele. E Moggi risponde che per l’indomani non se ne parla (“Ha fatto una partita a distanza di due giorni, deve attenersi a quello che gli dico io”), ma per il futuro non c’È da preoccuparsi: “Chi glielo leva il posto da titolare nella Nazionale? Fin che c’È il fiato nostro non ci sono problemi”. Un’altra telefonata di quello stesso giorno, il 12 ottobre, fa ulteriormente luce sui rapporti tra la Juve e la Nazionale. È una chiamata tra Giraudo e Moggi. I due non vogliono che Lippi faccia stancare in Nazionale i giocatori della Juve, che devono giocare campionato e Champion’s League. Dice Luciano: “Cannavaro m’ha fatto telefona’ da coso... Ma gli interessi preminenti sono quelli della Juventus e non rompesse i coglioni! È rientrato da poco, ora ci manca che si faccia male con la Nazionale!”. Detto fatto: Cannavaro entra solo al 24° del secondo tempo e gioca 21 minuti. Ma Moggi riesce a far cambiare la formazione della Nazionale anche per motivi più banali: nel giugno del 2005 la Juventus, terminato il campionato, ha in programma una lucrosa tournée in Giappone e Luciano vuole andarci con i suoi pezzi migliori, compreso Del Piero, popolarissimo laggiù. Sicché il 18 marzo telefona a Lippi per dirgli che Del Piero non deve essere convocato per un impegno degli azzurri contro la Norvegia (che pure vale per le qualificazioni ai Mondiali). Moggi: “Dunque noi abbiamo fatto una trasferta in Giappone alla fine del campionato, no?”. Lippi: “Eh”. Moggi: “E siccome Del Piero È l’alfiere di questa cosa... Tanto ora non È che È granché come convocazione, dunque... quindi...”. Lippi: “Eh”. Moggi continua e Lippi risponde: “Ora come ora non pensavo di chiamarlo [...] eh, anche per voi È meglio che non lo chiami [...] No, no, non lo chiamo”. Infatti l’Italia affronterà la partita contro la Norvegia (5 giugno) senza Del Piero, impegnato nella fondamentale sfida contro il F.C. Tokyo» (Alessandro Gilioli e Marco Lillo) • «Dicono che sono arrogante, presuntuoso e permaloso. Ma ci sono abituato. Prima di arrivare alla Juve nessuno mi descriveva in questo modo. Poi però, quando ho cominciato a vincere...» • «Un conto È gestire giocatori di serie B e un altro giocatori di 15 nazionalità diverse, gente da 5-10 milioni di euro l’anno. Chi non l’ha provato, non se ne può rendere conto. Allenare la Juve non È così facile» • «Non È il tipo di gioco ad essere fondamentale. La cosa più importante È avere 23-24 giocatori, tutti bravi. Questo È decisivo: che siano tutti bravi. Poi giocherai il calcio che meglio si adatta alla squadra che mandi in campo» • «Le mie battaglie più grandi hanno sempre puntato a incrementare nei miei giocatori la consapevolezza della propria forza, fino a raggiungere la presunzione».