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 2011  luglio 06 Mercoledì calendario

LIOCE Nadia Desdemona Foggia 29 settembre 1959. Brigatista rossa. Tre ergastoli: per gli omicidi D’Antona, Biagi e per aver ucciso, nel corso della sua cattura, il poliziotto Emanuele Petri

LIOCE Nadia Desdemona Foggia 29 settembre 1959. Brigatista rossa. Tre ergastoli: per gli omicidi D’Antona, Biagi e per aver ucciso, nel corso della sua cattura, il poliziotto Emanuele Petri. È il capo, se pure in carcere, delle Brigate rosse attuali • Arrestata il 2 marzo 2003, domenica. Prese, con Mario Galesi, più giovane di lei di sei anni, l’interregionale 2304 delle 6.08 per Firenze, stazione Tiburtina di Roma. Sarebbero scesi ad Arezzo. Alla stazione di Terontola vi fu però un controllo dei documenti. Tre agenti della Polfer che si facevano largo tra la folla dei passeggeri. Galesi e Lioce, seduti nello scompartimento 4 in seconda classe, diedero carte d’identità intestate a Rita Bizzarri e Domenico Marozzi, rubate a Tivoli. Il controllore disse: «Un momento. Devo verificare» e si allontanò di qualche passo col cellulare. Galesi tirò allora fuori la 7,65 e la puntò al collo dell’agente Emanuele Petri, la Lioce intimò («bastardo!») al secondo agente, Bruno Fortunato di 46 anni, di posare la pistola, Galesi sparò a Petri ammazzandolo all’istante, l’agente che stava telefonando tornò indietro e sparò a Galesi, che s’accasciò sul sedile, la Lioce, che s’era buttata sulla pistola posata a terra da Fortunato, tentò di metterla in funzione, ma non riuscì a far scorrere il carrello, un passeggero, di professione vigile urbano a Perugia, le si gettò allora addosso e la immobilizzò. Venne descritta come bassa, sovrappeso e con i capelli color mogano. Quelli che, fermato il treno, la legarono al palo della luce della stazione di Terontola, dissero che aveva lo sgaurdo feroce. Galesi morì la sera in ospedale • «Ora raccontano che “Nadia era bella”. All’imperfetto, come di chi non c’È più. Sì, “Nadia era bella e di una bellezza che nascondeva. Come quel secondo nome che non le piaceva: Desdemona...”. Desdemona tragica sposa di Otello. Più banalmente, Desdemona figlia di un’Italia di provincia i cui figli, nati nei felici 60, disconoscevano i padri. Cominciando dalla prima delle loro scelte. Il nome. Un’amica mostra una foto in bianco e nero sgranata dal tempo e da uno scatto incerto. Foggia, 1978, terza D, Liceo classico “Vincenzo Lanza”. […] L’ovale rotondo in cima alla goffa piramide di cappotti a campana. La testa reclinata all’indietro, lo sguardo rivolto fiducioso all’insù, mentre l’Italia era piegata all’ingiù. Su via Fani, sul sequestro e l’omicidio di Aldo Moro. Nadia ride. Felice. Nadia sta per cominciare una nuova vita. Nadia sta per emanciparsi dal suo universo. La casa di via Conte Appiano, la madre Diana, la sorella Daniela più piccola di tre anni. La terza D di sole donne in un liceo — da sempre il solo classico a Foggia — dove il padre Guido aveva voluto che andasse. Già, il “Lanza”, il “mitico Lanza” con i suoi giardinetti che affacciavano sul corso dove fumare e mischiarsi, a dispetto delle regole della scuola (sezione A e C maschili, B e D femminili) che — se chiedi oggi — ti diranno famosa per aver diplomato Renzo Arbore. […] Alle medie, nelle aule della Carducci, Nadia È un faccino incorniciato da morbidi riccioli neri. In classe la sfottono, dicendole che somiglia a Gigliola Cinguetti. Lei passa le estati sulle spiagge di Siponto, sul Gargano, a raccogliere felice cani e gatti che porta a casa. Al liceo È già un’altra persona. È una donna. E il Lanza non È più scuola da colletti inamidati. Si sperimentano i gruppi di studio, i compiti collettivi, in cui ognuno contribuisce per quel che È e sa”. Ricorda un’amica: “Fu il femminismo il suo, il nostro, battesimo con la politica. Ci crescevano i peli sulle gambe e Nadia insisteva che non uno andava strappato. Perché gli uomini, se ci volevano, dovevano accettarci così. Lei cominciò a frequentare il collettivo marxista-leninista di Foggia vecchia. E se non sbaglio fu uno dei suoi primi filarini a portarcela. Perché anche lì, non tutti i ragazzi erano uguali. Bisognava stare con un ‘proletario’”. Che a casa, però, non entravano. “Anche perché c’era Guido...”. Già, Guido, il padre di Nadia. Geometra del Consorzio della bonifica della Capitanata, era allora ed È rimasto uomo di poche parole. Buongiorno e buonasera al lavoro. Lunghi silenzi in casa. “Di quelli — ricorda ancora un’amica — che ti facevano sentire sempre di troppo. Poveretto, tra noi lo chiamavamo ‘il fascista’, semplicemente perché era il maschio di quella casa. Era quello che diceva ‘no’”. Era quello che avrebbe perso presto tutte le sue donne, restando solo. Lui e un cane. Un alano nero, ben più grande di quei bastardini che Nadia da bambina raccattava sulla spiaggia di Siponto tra i rimproveri. Nadia saluta Foggia nel 79. Ha scelto. La casa di via Appiano, con i suoi mobili di formica, la stanza divisa con la sorella, lo struscio nei “giardinetti” del Lanza, sono un angolo di mondo dove — ne È convinta — la storia non farà mai tappa. E la Storia, in quegli anni, si È messa a correre. Al diavolo dunque l’iscrizione alla facoltà di Medicina dove si sono iscritte sei su dieci delle sue compagne. Lei sogna Pisa. Lettere e Filosofia. Una vita da sola, “dove unire finalmente in matrimonio pubblico e privato”, ricorda la sua amica. E Pisa la abbraccia […] Nadia si divide tra l’università e la Usl dove ha trovato lavoro come assistente sociale. Comincia a dare qualche esame, che però resterà un numero. Il “matrimonio tra pubblico e privato”, infatti, ora ha il volto di un ragazzone più giovane di lei, Luigi Fuccini, conosciuto nelle interminabili riunioni della Casa dello studente e del Comitato studenti medi. Insieme, se ne vanno a vivere in via Marco Polo 7, una stradina dietro la stazione Centrale. La loro casa È in un condominio “antico”, oltre un cancello in ferro battuto, e affaccia su un giardino. All’interno, un disordine allegro e oggetti etnici. Per anni, in quella casa, la politica entrerà con un volto sempre più deformato. Nadia e Luigi entrano in contatto con Azione Rivoluzionaria, frequentano il Circolo culturale polivalente. […] A ben vedere, dietro quelle sigle si nasconde una fibrillazione che appare appena più arretrata della scelta definitiva compiuta — proprio in quegli anni — dal Comitato Rivoluzionario Toscano. Smantellato nell’82, nell’urto delle indagini sul sequestro Dozier, il Comitato Rivoluzionario ha infatti già scelto la lotta armata. E quando non ne resta più traccia, non restano che loro. I ragazzi come Nadia e Luigi. Né a Nadia serve, evidentemente, sapere che tra lei e il salto nel buio della clandestinità armata sono rimaste sua madre Diana e sua sorella Daniela. L’hanno raggiunta in Toscana non molto tempo dopo averla salutata alla stazione di Foggia. Lei se ne congeda una mattina di febbraio del 95, il 13. Quel giorno, a Roma, viene arrestato Fuccini che forse È ancora il suo uomo o forse non più. Con lui dovrebbe essere anche lei, perché insieme hanno acquistato il biglietto ferroviario da Livorno (così ricorderanno almeno i testimoni). Ma lei, al contrario, È già lontana. Due giorni prima, l’11, ha lasciato la sua Renault 4 in piazza della Libertà, a Firenze. E ha affidato il suo gatto alla madre spiegandole che resterà fuori qualche giorno. Non si rivedranno mai più» (Carlo Bonini) • Nel confronto all’americana, davanti allo specchio a vetro che nascondeva coloro che avrebbero dovuto riconoscerla, la brigatista Nadia Lioce, imitata dalle controfigure che le sedevano accanto, si È tolta le scarpe, ha voltato le spalle ai testimoni, s’È coperta il volto con le mani (Vincenzo Tessandori) • S’È sempre dichiarata prigioniera politica, al processo ha letto proclami, contestato la legittimità della corte, mai risposto alle domande. Tiene sotto di sé tutti gli altri, a parte forse Maria Cappello (vedi), l’unica che ha l’aria di sovrastarla psicologicamente • Stefano Cappellini ha osservato che «le Br vecchie e nuove sono forse il movimento a più alta leadership femminile della politica italiana di ogni tempo». Dopo aver citato Nadia Mantovani (a cui nel 78 il pm Luigi Moschella voleva concedere uno sconto di pena perché «È una donna innamorata di Curcio vittima soltanto del suo sentimento») ed esaminato i casi di Paola Besuschio, Margherita Cagol, Giulia Borrelli, Susanna Ronconi, Barbara Graglia, Anna Maria Mantini, Franca Salerno, Barbara Balzerani, Pasqua Aurora Betti, Natalia Ligas, scrive sulla Lioce: «Il dato È eclatante e la galleria delle plagiate lascia definitivamente il posto a quella delle spietate, delle fredde macchine da guerra, un filone che, passando per le ultime latitanti delle Br anni Ottanta Simonetta Giorgeri e Carla Vendetti, arriva fino a Nadia Desdemona Lioce. Sparisce la borsetta e resta solo il mitra, insieme al grigiore di una militanza assolutizzata e spesso schizofrenica che impone la nuova specie delle “impiegate del terrorismo”, etichetta che anche oggi non sfigura addosso a una Cinzia Banelli. Alla nuova etnia apparteneva Anna Maria Ludman, uccisa nel 1980 insieme ad altri tre br nel covo genovese di via Fracchia, giovane donna che per biografia poteva ben figurare da traviata, figlia com’era di un comandante marittimo in pensione con tanto di sangue blu nelle vene, e che invece, annotava Il Secolo IX, “dava l’impressione della rigida istitutrice tedesca, non certo della brigatista”, ed era approdata alle Br anche perché alle “riunioni delle donne” non c’era verso di portarla. Non a caso, mentre i movimenti erano scossi dal femminismo, e Lotta continua implodeva sotto i colpi delle “streghe” contro la “politica dei maschi”, le Br arruolavano donne su donne senza alcun contraccolpo interno. Nel partito armato, quello che secondo Paroli era l’incubatore della emancipazione della donna, il dibattito femminista non ha mai avuto cittadinanza. Contraddizione curiosa, ma solo apparente. Nella sua biografia Compagna luna (Feltrinelli, 98) Balzerani ne spiega le ragioni, raccontando la sua distanza di dirigente del partito armato dal Movimento delle donne che “abbandonavano la politica rivoluzionaria per un movimento interclassista, elitario e di vecchia impronta emancipazionista”. Per Balzerani le femministe sono donne che per uno strapuntino di diritti civili hanno rinunciato alla rivoluzione e al comunismo: “Il mio legame più forte, la mia riconoscenza — scrive — era per quelle donne comuniste che, prima di me, avevano condiviso la politica rivoluzionaria con gli uomini, più che per queste loro figlie che ne rompevano la tradizione”. Ai suoi occhi le “streghe” tradiscono la lezione delle Compagne, le partigiane ritratte in una lettissima monografia di Bianca Guidetti Serra, e il tradimento È tanto più grave adesso che i tempi e gli strumenti permettono alle brigatiste di lottare non al fianco degli uomini ma come uomini tout court, da donne, riconosce Balzerani, “che giocavano la loro femminilità in deformante competizione con uno stereotipo maschile in armi”. Donne, spiega un’anonima ex nappista in Mara e le altre (Feltrinelli, 1979), pronte a calarsi nel regime cameratesco del brigatismo più e meglio dei maschi: “Tutte le donne della lotta armata dicono ‘femministe del cazzo’. La lotta armata può essere gratificante per quelle donne che vogliono essere come l’uomo, competere con lui, usare la pistola come lui e rinunciano a tutte le altre scelte, compresa quelle dei figli, per diventare come un uomo”. Maria Cappello, irriducibile delle Br-Pcc, considerata dagli inquirenti l’ideologa dei documenti con cui ad inizio anni Novanta i Nuclei comunisti combattenti hanno tenuto accesa la fiammella brigatista, entrando in clandestinità ha abbandonato il figlio di otto anni, ed È solo l’ultima di una lunga serie di militanti del partito armato che hanno disconosciuto il loro ruolo materno. E se parte del femminismo predicava il separatismo, nel partito armato si È invece praticato l’annullamento delle differenze di genere, in una sorta di cameratismo incestuoso che esaltava i maschi del gruppo (in Mi dichiaro prigioniero politico (Einaudi, 2003) Giovanni Bianconi racconta come Prospero Gallinari rimbeccava l’indisciplinato Germano Maccari, reo di avere una morosa fuori dalla “ditta”: “Le nostre compagne — gli spiegava — sono donne meravigliose alle quali possiamo confidare tutto”. Non c’È da stupirsi se nelle coppie endogame brigatiste, in questo regime di omologazione più che di emancipazione, alla fine sono le donne ad apparire il polo forte, quello “maschile”. Più d’una informativa sottolinea il tono ultimativo con cui Cappello si rivolge nella corrispondenza al marito Fabio Ravalli, anch’egli irriducibile, tono simile a quello che Lioce usa per dare a “Gheghe” (l’ex compagno e militante dei Nuclei comunisti combattenti Luigi Fuccini) disposizioni sull’allestimento della tomba di Mario Galesi e che malcela lo scetticismo sulle capacità dell’uomo di soddisfare la richiesta. Rimbomba poi nelle lettere di Lioce il rifiuto per ogni tentativo di “studio antropologico” del militante rivoluzionario, sia esso espresso con l’insistenza sul dato di genere o su altri particolari della biografia privata (“non sociale”, scrive Lioce). In spregio all’autocoscienza sessantottarda, per i brigatisti il personale non È mai politico. E la rivoluzione non passa mai dal privato. A metà anni Novanta la battaglia di Vincenzo Guagliardo per dividere una parte della carcerazione con la moglie Nadia Ponti, entrambi non dissociati, gli costò la sprezzante ironia dei compagni carcerati: “Vincenzo — lamentava la moglie — È considerato uno che si È bevuto il cervello dietro una donna, uno senza palle”. Il cameratismo È un conto, il romanticismo un altro, e la militanza nell’organizzazione deve venire prima di tutto: madri e padri, mogli mariti e figli. Per questo appare una logica nemesi che la “compagna So”, Banelli secondo gli inquirenti, processata per indisciplina e per il sospetto di voler lasciare la “ditta”, fosse incinta al momento dell’arresto» • Su Galesi e l’eredità delle Br: «Mi limito a citare un episodio di cui sono stato testimone oculare. Nel marzo scorso, a Milano, ho partecipato ad un’imponente manifestazione contro la guerra in Iraq. In piazza c’era il Movimento, ma anche il sindacato e i partiti della sinistra. Bene, ad un certo punto, arrivata in piazza Duomo, la coda del corteo si separa. E sui muri dell’Arcivescovado, una mano non clandestina, non travisata, non coperta dall’anonimato della notte, si stacca dalla folla e scrive: “Galesi spara ancora!”. Molti hanno visto quel gesto. Nessuno ha ritenuto di doverlo stigmatizzare. Questo tipo di solidarietà mi spaventa. Ho trascorso abbastanza tempo in carcere, ho vissuto e inflitto lutti, per capire e provare a spiegare che esiste una differenza sostanziale tra la solidarietà umana e quella politica. Un morto, chiunque esso sia, merita solidarietà e rispetto umano. Sempre. Come la merita chi È in carcere. Ma comincio a preoccuparmi, quando mi accorgo che, nel vuoto di solidarietà umana, si fa strada solo la solidarietà politica. Che È altra cosa, evidentemente. Guardate quel che È accaduto a Galesi. Non un’anima si È fatta viva per dargli sepoltura. Ma mani ignote, che ignote non sono, si sono affacciate per solidarizzare con la sua scelta armata» (l’ex terrorista Sergio Segio a Carlo Bonini).