Il Catalogo dei viventi 2007, 6 luglio 2011
LIGRESTI
Salvatore Paternò (Catania) 13 marzo 1932. Imprenditore. Presidente onorario di Fondiara-Sai. «Antico re dell’edilizia nella “Milano da bere”» (Luca Piana) • Famiglia di agiati commercianti. Studia Ingegneria prima a Palermo, poi a
Padova. A Milano presta servizio nell’Aeronautica. Congedato, apre uno studio di Progettazione, esordisce con successo
nel mondo degli affari. Realizza un importante progetto di sistemazione di un’area centrale di Milano. Nonostante i successi finanziari dedica il meglio delle
sue energie alla realizzazione del Piano casa del Comune di Milano. Coinvolto
in una delle inchieste di Mani pulite perde la passione del mattone
• «Re del mattone negli anni Ottanta, potentissimo alla corte di Bettino Craxi,
forte nella finanza del sostegno di Cuccia, siciliano come lui, è poi crollato sotto il peso dei debiti e di Tangentopoli, che lo ha portato
anche in carcere. Una condanna definitiva lo ha obbligato nel 97 a passare la
mano, a trasferire la proprietà del gruppo ai suoi tre figli (Jonella, Giulia, Paolo). Sotto la guida di
Mediobanca ha dovuto cedere pressoché tutto per rimborsare i creditori» (Sergio Bocconi)
• Per la prima volta accettò di concedere un’intervista nel febbraio 86. Ad Anna Di Martino del settimanale Il Mondo raccontò il suo primo grande affare: «è una storia bellissima. Avevo saputo della possibilità di acquistare il diritto per costruire un sopralzo, in via Savona, in zona
Genova. Mi ci volevano 15 milioni e io ne avevo solo 5. Ma non mi sono perso d’animo. Sono andato al Credito commerciale e mi ha ricevuto il direttore generale
Mascherpa. Era un grande banchiere, un uomo di grosso intuito: io parlavo e lui
ascoltava e a un certo momento mi ha detto: “Le do 10 milioni”. Quasi non ci credevo... Con quei 10 milioni ho fatto il progetto, ho rivenduto
il diritto per 50 milioni, guadagnando in un colpo solo, 35 milioni. Era il 62»
• «In tuta Ligresti sembrerebbe un operaio, ma un operaio efficiente, capace di
fare il suo lavoro. In fustagno, con il fazzoletto annodato al collo, Ligresti
sembrerebbe un contadino, ma un contadino tenace, capace di far fruttificare la
terra. Vestito con un abito di buon taglio, come deve vestirsi un uomo d’affari, Ligresti sembra un uomo d’affari, pieno di energia, di nerbo, di durezza, come deve essere un buon uomo d’affari. Il suo aspetto ha certo contribuito alle leggende sul suo conto. Poiché Ligresti è un uomo che si è fatto da sé, è necessario che sia partito da uno dei gradini più bassi della scala sociale. Secondo una leggenda che non vuole morire, il padre
era un povero artigiano di Paternò che trovandosi in casa due ragazzini intelligenti aveva deciso di farli
studiare. Uno da ingegnere e uno da medico. Nella realtà il padre Ligresti desiderava che il figlio Salvatore diventasse ingegnere e il
figlio Antonino diventasse medico, ma poteva permetterselo, perché non era un artigiano povero, ma un commerciante benestante. Secondo la leggenda
Salvatore Ligresti si sarebbe attrezzato alla vita nei rigori delle mense delle
case dello studente. Nella realtà Ligresti frequentò il biennio di Ingegneria a Palermo, poi decise di laurearsi in un’università a nord di Napoli. Scartò Milano, scartò Torino, scelse Padova per la cordialità di una camerierina di una tavola calda. A Milano arrivò laureato, non per raggiungere come vuole la leggenda il clan dei siciliani, ma
per prestare servizio militare. Invece di tirare a campare, di aspettare l’ora di libera uscita, di trafficare per le licenze, il sottotenente Ligresti
Salvatore nella caserma dell’Aeronautica di piazza Novelli approfittò per sperimentare in pratica alcune cose che aveva imparato all’università, lavorò con passione all’ampliamento dell’Aeroporto Forlanini, si interessò al demanio. Nella terra in cui si è avvocati e ingegneri o cavalieri per antonomasia o metonimia, Ligresti non era
ingegnere per antonomasia o metonimia, ma per vocazione e formazione. Di lui si
sarebbe detto che non si muoveva mai senza il tecnigrafo e il tiralinee, si
sarebbe detto che non sapeva impedirsi di dare una sua impronta personale a
progetti che aveva peraltro affidato ai migliori architetti sulla piazza, di
lui si sarebbe detto che non riusciva a trattenersi dal visitare di soppiatto
il cantiere in cui stava nascendo un suo progetto, nemmeno la mattina della
domenica, nemmeno la mattina di Pasqua. In chiunque altro, un simile
attaccamento al lavoro sarebbe stato salutato come un nobile esempio di quel
senso del dovere e di quell’orgoglio professionale che i milanesi considerano proprio patrimonio etico, se
non genetico, in quanto discendenti degli industriosi ed eretici patarini
medievali, in quanto discepoli dell’ascesi produttiva e quasi calvinista dei cardinali Borromeo. Ma Ligresti si
chiamava Salvatore, un nome poco usato nel Ducato di Milano, veniva dal sud
dove era uso compensare la poca voglia di lavorare con la furbizia. Se un
Salvatore Ligresti si comportava così non poteva essere per l’orgoglio del proprio lavoro, doveva esserci qualcosa di poco onesto. La
spiegazione non poteva che essere una. Salvatore Ligresti si comportava così perché non poteva resistere a quella pratica dell’abuso edilizio, che di propria iniziativa gli stimati progettisti lombardi di
cui si serviva, non avrebbero potuto concepire nemmeno in sogno. Ancora oggi,
volendo, si può organizzare un giro turistico per le periferie di Milano con una guida che
faccia notare come le torri costruite da Ligresti abbiano l’ultimo piano a giorno. Non si tratta, spiegherà la guida, di un marchio estetico, ma di un diabolico stratagemma per acquistare
volumetria abusiva. Quel piano che secondo i progetti avrebbe dovuto ospitare
(e ospita tuttora) le centrali tecniche della torre, in un secondo tempo,
quando i vigili e gli amministratori di zona fossero diventati miopi, sarebbe
stato coperto e destinato a uffici e abitazioni. Non era tanto il fatto in sé quanto la pratica dell’astuzia che offendeva le coscienze di una città in cui gli imprenditori edili e i cittadini rifuggivano anche dall’idea del minimo abuso edilizio. Con la fortuna e la posizione crescevano i
sospetti nei confronti di Ligresti. Sospetta era la sua riservatezza, l’uso parco e grigio della ricchezza. Avevano un bell’affermare i pochi amici che gli andavano per casa che era un uomo semplice,
legato alla terra, fiero di mettere in tavola i pomodori del suo giardino, un
uomo che conduceva una vita ordinata e serena nel culto della madre e della
famiglia. Non poteva vivere sereno chi si era sposato per fini di carriera con
la figlia bruttina di un provvidenziale provveditore alle opere pubbliche. Non
poteva condurre una vita davvero ordinata chi era un siciliano focoso,
destinato dalla cultura e dalla natura sciagurate a sciupare femmine. Poiché non si trovarono ballerine, poiché non si seppe di crociere sfarzose, di ville lussuose illuminate fino all’alba, la voce popolare (che non sbaglia mai), la voce dei cronisti (pronta alla
rettifica), attribuirono a Salvatore Ligresti affari fulminei con impiegate
comunali consumati in ristoranti con dancing di periferia. Una vita condotta
molto al di sotto delle possibilità, così ammirata nella borghesia genovese, così apprezzata nella vecchia borghesia milanese che non voleva sapere nulla dei
commendatori del dopoguerra, era di certo in un siciliano un’astuzia contro natura. Tanto più che a Milano non c’era solo Ligresti a praticarla. C’era stato anche quel Michelangelo Virgillito per il quale il giovane Ligresti
aveva lavorato, per il quale aveva studiato con successo la possibilità di creare una piscina e un parcheggio sotterraneo proprio dietro a corso
Vittorio Emanuele, dal quale aveva imparato a operare in Borsa. C’era quel Virgillito che non solo abitava in un appartamentino di tre stanze,
seppure a Porta Magenta, ma invitava anche Ligresti a dare in beneficenza il
dieci per cento dei profitti ottenuti con il suo aiuto. C’era quel Virgillito che non solo avrebbe lasciato il suo grande patrimonio a
istituzioni religiose, ma che era anche di Paternò, lo stesso paese alle pendici dell’Etna da cui veniva Ligresti. C’era anche quell’Enrico Cuccia che tutto casa e banca attraversava ogni giorno a piedi piazza
della Scala, quell’Enrico Cuccia che non amava rilasciare interviste, la cui moglie non si sognava
neppure di prendersi lo svago di un concerto se il cognato non le regalava il
biglietto. I milanesi sanno come sono fatti i meridionali: sono sbruffoni,
hanno la bocca larga. Il comportamento strano di quei tre siciliani (vogliamo
metterci anche La Russa? Primo: di Paternò; secondo: reduce non pentito di el-Alamein; terzo: senatore dell’Msi) era davvero sospetto. Venivano da una terra di associazioni oscure, non
potevano non ordire una trama. La prova provata, era la ricchezza di Ligresti.
Non si poteva diventare così ricco senza un patto con qualche diavolo. Poi il diavolo fu scoperto. Era anche
lui di origine isolana, anche se era diventato grande in quella che allora si
chiamava la mezza periferia, che oggi i commessi immobiliaristi chiamano mezzo
centro. Si chiamava Bettino Craxi, era il segretario del Partito socialista
italiano, era l’addendo che faceva tornare i conti, era l’elemento che mancava per la dimostrazione del teorema dello sciagurato patto tra
finanza e politica all’ombra dei poteri oscuri che chissà perché cominciano tutti per emme. Gli amici dissero che in Ligresti l’ammirazione per Craxi crebbe smisurata. I nemici più che a un’affinità elettiva pensarono a una convenienza reciproca» (Sandro Fusina)
• Negli ultimi anni è tornato sulla cresta dell’onda: «C’è una qualità che tutti riconoscono all’ingegner Salvatore Ligresti: la perseveranza. Nella vita come negli affari. è riuscito dopo tre anni di attesa sull’uscio a entrare nel patto di sindacato di Rcs, non si darà pace finché non verrà accolto nella stanza dei bottoni delle Generali» (Giovanni Pons) • Ha sposato Antonietta Susini detta Bambi, figlia del provveditore alle Opere
pubbliche della Lombardia Alfio, rapita a Milano il 5 febbraio 81 e liberata
dopo poco più di un mese dietro il pagamento di un riscatto, pare, di 600 milioni di lire.