Il Catalogo dei viventi 2007, 6 luglio 2011
LIGABUE
Luciano Correggio (Reggio Emilia) 13 marzo 1960. Cantante. Autore. Regista. Scrittore. «Sono contento di sentir dire che le mie canzoni sono facilmente riconoscibili.
Sono canzoni che non stanno cambiando la musica, sono semplicemente la voce di
uno che vuole dire delle cose» • Dischi: Ligabue (90); Lambrusco, coltelli, rose & popcorn (91); Sopravvissuti e sopravviventi (93); A che ora è la fine del mondo? (94); Buon compleanno Elvis (95); Su e giù da un palco (97, live); Radiofreccia (98); Miss Mondo (99); Fuori come va? (2002); Giro d’Italia (2003, live); Nome e cognome (2005). Film: Radiofreccia (98, Nastro d’argento miglior regista debuttante), Da zero a dieci (2002). Libri: La neve se ne frega (2004) • «Supereroe della musica nazionale» (Marco Molendini) • «Milioni di dischi venduti. Due film da regista, un romanzo, una raccolta di
racconti. Ligabue è un forzato della creatività. Condannato al successo. Perché? Cosa rappresenta? C’è una spiegazione logica a questa sua trasversale divinizzazione? Se rapportato
alla maggioranza dei suoi colleghi, Ligabue è senza dubbio un portatore sano del “meno peggio”, un artista onesto che non ha mai preteso di cambiare il mondo. Meglio lui di
altri. Eppure c’è di più. Chiunque lo conosca, anche solo superficialmente, non può che parlare bene di Ligabue. Umile, educato, simpatico. Per sbertucciarlo, gli
si può al massimo cucire addosso una massima dello scrittore austriaco Karl Kraus: “Gli artisti hanno il diritto di essere modesti e il dovere di essere vanitosi”. Questo ne fa un ottimo compagno di cene, ma non lo rende automaticamente un
artista da idolatrare. I detrattori, e qualcuno ce n’è, ricordano che da
Buon compleanno Elvis, il disco ipervenduto del 95, Ligabue ripete se stesso. Anche Nome e cognome, chitarra basso e batteria, è la solita alternanza di rock tirati e ballate morbide. Come sempre le seconde
funzionano meglio delle prime. Forse la vena creativa è prosciugata, il bestiario esaurito. è però possibile che questa ripetitività, riscontrabile in molti cantanti over 40, sia percepita dal suo pubblico come
fedeltà a se stesso, a un suono e un modo di essere. A chi gli dà del cantautore, Ligabue risponde di ambire, casomai, all’etichetta di “nuovo Battisti”, obiettivo raggiunto per quella generazione che oggi ha 30-35 anni e che a
scuola dovette scegliere tra lui e Marco Masini (sì, erano tempi così). Se proprio deve fare il nome di un cantautore, cita l’amico Francesco Guccini, come lui emiliano. Quell’Emilia che è terra dai confini indefiniti, il sud del nord e il nord del sud. E Guccini, che
pure scrive testi più “alti”, è un altro che ha fatto dell’immobilismo una bandiera. I tòpoi di Ligabue sono gli stessi, da sempre. Il sesso che “ha odore”, la donna che è “femmina”. L’artista che non è importante, perché il privato è sacro e “non dovete badare al cantante”. Un talento innato per i ritratti bozzettistici di provincia (
Bar Mario, Walter il Mago, il monologo di Freccia che credeva “nelle rovesciate di Boninba”). Un tentativo di frequentazione laica e diretta con Dio (Hai un momento Dio?, Chissà se in cielo passano gli Who). L’autobiografismo scopertissimo (“Non ho il pudore delle emozioni, non mi interessa apparire cool”). L’identificazione con chi suda e si sbatte. La convinzione che la canzonetta non
debba farsi “tante pippe”, dice lui — e, con toni diversi, diceva François Truffaut. Il feticcio della memoria, la canzone come tributo (Il giorno di dolore che uno ha, la nuova Lettera a G). L’Emilia di “certe notti tra cosce e zanzare”, il senso virile e affettuoso dell’amicizia. L’amore che brucia, l’amore che muore. Il culto per il rock che ha il coraggio di invecchiare. E un
cantato alla Springsteen, col rinculo e le vocali finali strascicate mezzora,
tentativo maldestro di trasformare Correggio, la sua Macondo, nel New Jersey.
Se esiste un motivo capace di spiegare il successo di Ligabue, risiede in uno
strano magma di doti indubbie e limiti tramutati in qualità. La critica si diverte a metterlo in competizione con Vasco, ma il successo di
Vasco era chiaro (oggi un po’ meno). I “vaschisti” vedevano in lui il cantore dello sballo a prescindere, del ribellismo
negazionista, del rifiuto tout court della società benpensante, a cui opporre “la Coca che ti fa digerire” e una vita spericolata come SteveMcQueen. Per Ligabue è diverso. Anche lui identifica un “noi”, ma lo slittamento è evidente: da
Siamo solo noi a Non è tempo per noi. Quello del Liga è un pessimismo generazionale ma sopportabile. Una sofferenza popolare, non “filosofica”» (Andrea Scanzi) • «A dodici anni ho capito che c’era qualcuno che poteva fare le canzoni in modo diverso, erano i cantautori. In
particolare Theorius campus, di Venditti e De Gregori, ha cambiato la mia percezione. Tre anni dopo, mio
padre, che gestiva una balera coi gruppi di liscio, e per tutta la vita mi
aveva detto: I musizéssta i én tótt murt ed fãm, i musicisti sono tutti morti di fame, contravvenne alle sue convinzioni e mi
regalò una chitarra. Poi la nascita delle radio libere, la consapevolezza che uno
poteva far sentire la sua voce» • «A vent’anni sono partito militare, e quando sono tornato, vivevo ancora con i miei, mio
padre era disoccupato, mia madre casalinga» • «Ho debuttato a 30 anni, un’età generalmente da pensione per chi fa musica. Credo che fosse pudore, pudore di
quello che scrivevo. Ho scritto tante cose, ma le suonavo per me. Poi, un
giorno, trovai il coraggio di farne ascoltare una a Claudio Maioli, che
lavorava con me in una radio di Correggio. è stato lui a convincermi» • «Ottobre del 90. Era uscito da pochi mesi l’album Ligabue, ero finito a suonare a una Oktoberfest ad Alessandria, la prima volta fuori
dalla mia regione, l’ingresso era diecimila lire compresa la birra, e c’era la gente che cantava tutte le canzoni. Quella cosa lì mi ha insegnato il peso che possono avere le canzoni, la più grande lezione sulla responsabilità. Una rottura di palle immane ma ti ci devi confrontare. Se tu dici in una
canzone che “cinque ragazzi sono su una macchina e inseguono una striscia invitante talmente
accogliente da perderci il fiato” (in
Sogni di rock’n’roll) non puoi permetterti di essere così ingenuo da non pensare che alcuni possano pensare che quella striscia sia una
striscia di coca. La mia intenzione era diversa, ma poi mi sono ritrovato gente
sotto il palco che faceva il gesto di sniffare. Continuo a sostenere che
chiunque faccia il mio mestiere al suo meglio è uno specchio, anzi uno che regge lo specchio. C’è gente che passa di lì e qualcuno si ferma a guardare» • «Prima di salire su un palco, sono stato metalmeccanico, ragioniere, bracciante
agricolo, commerciante, consigliere comunale, promoter, dj. Mestieri che sono
durati mesi, mai anni. Quello attuale dura, forse grazie all’esperienza accumulata con gli altri. Giustamente i saggi del mio paese,
Correggio, non lo considerano un mestiere. Dicono “quello canta invece di lavorare”. Le fasi emozionanti sono due: potersi esprimere e vedere e aver di fronte a sé qualcuno che ti dice “ricevuto”. Il tuo mestiere è comunicare. Io sono molto spaventato dallo snobismo, dalle patenti di qualità rilasciate dalle élite dotate di speciali strumenti culturali. Io credo nel rock come espressione
popolare, senza velleità di essere arte in senso assoluto. Il giudice è la gente che dice: “Questo ha senso, quest’altro no”» (da un’intervista di Mario Luzzatto Fegiz)
• «La gente diceva, “Ma tu guarda che stronzo, io lavoro in fabbrica e lui che ha i miliardi fa il
mediano”. Non era quello il senso. Una vita da mediano era un brano sull’etica dell’impegno e il singolo di un disco, Miss Mondo, che raccontava una mia crisi dopo il successo» • «Le canzoni non andrebbero mai spiegate, non saprei dire fino in fondo cosa
significa il verso del ritornello: “Con tutto il sangue andato a male e poi di colpo questo andarsi bene”» • «Una sera ero a cena con De Gregori e gli ho confessato di essere da sempre un
fan della canzone Atlantide, anche perché non avevo capito niente e mi piaceva moltissimo poter pensare di continuare a
non capire niente. Lui purtroppo mi ha spiegato cosa vuol dire, e dico
purtroppo perché adesso mi piace meno» • «Mi piace l’idea che facciano fatica a darmi un’etichetta. La gente non riesce a chiamarmi regista, ma di fatto ho realizzato
due film» (da un’intervista di Gino Castaldo) • «Gli Stones sono il mio modo di intendere la musica. Nel rock la cosa più difficile non è immolarsi o essere “maledetti”, ma invecchiare bene. L’idea di cantare a 60 anni Balliamo sul mondo mi spaventa, ma chissà, Jagger dimostra che si può fare» • «Se faccio rock è perché credo fermamente al senso originale del rock’n’roll, che in gergo nero voleva dire “trombare”, nel senso della celebrazione della vita, tant’è che all’inizio non c’erano neanche le parole, era erotico, selvaggio, vitale. Poi nel tempo è uscita fuori la figura della rockstar lontana dal genere umano, con una forte
pulsione autodistruttiva, che è il contrario netto dei motivi per cui è nato il rock’n’roll. Io ho la condanna di essere stato cattolico e comunista, per cui ho un’elaborazione di sensi di colpa da record, per cui la predisposizione al bravo
ragazzo ce l’hai, volente o nolente. Ma penso anche che non esistano diavoli e santi al cento
per cento»
• «Sono stato a lungo cattocomunista e sinceramente cosa sono adesso non lo so.
Credevo in certi valori ma con il tempo ho maturato altre certezze. Il tramite
tra me e Dio è una persona importante che mi permette, a volte, di dialogare con chi c’è lassù» • «Ancor oggi c’è chi non capisce perché vivo a Correggio. La risposta è che qui esistono dei campi dove nelle notti d’estate puoi fermarti a guardare le lucciole» • «Non credo che pensare alla morte aiuti a morire meglio, casomai a vivere peggio.
Però ogni tanto ci penso, come tutti. Quando è morto un cugino che era in realtà un fratello, il protagonista di Lettera a G., ho capito che raccontando lui avrei affrontato anche la perdita di mio padre,
avvenuta l’anno precedente. Il momento più brutto della mia vita. I temi cupi, del resto, erano già presenti nell’incipit di Balliamo sul mondo, “Siamo della stessa pasta bionda/ non la bevo sai/ ce l’hai scritto che la vita/ non ti viene come vuoi”. Da zero a dieci è pienissimo di morte. Però, attenzione con il nichilismo. Se andassi sul palco e dicessi, “Il mondo è tutto una merda”, avrei cinque minuti di applausi. Ma sarebbe facile. Preferisco trasmettere
speranza, piuttosto che nichilismo» • «Negli ultimi anni ho vissuto molti rovesci, perdite e separazioni. Ci sono
arrivato un po’ tardi, a 45 anni, ma ho capito cosa conta e cosa no. è un equilibrio sottile, ma adesso riesco a perdonarmi il successo. Mi sento
addirittura utile» • Due figli: Lenny, dalla prima moglie Donatella; Linda dall’attuale compagna Barbara. A Linda, che occupa sempre un ruolo importante nella
sua vita, ha dedicato L’amore conta (quello che ora prova per lei «si potrebbe chiamare affetto, che è poi l’amore al netto di gran parte della complicità») • «Le mie ambizioni le ho vissute tutte, ma a dire la verità c’è una cosa abbastanza assurda che rimbalza tra me e Domenico Procacci della
Fandango, ed è il progetto di una rock opera. è talmente assurdo che ogni tanto ci ripenso».