Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  luglio 06 Mercoledì calendario

KRIZIA

(Mariuccia Mandelli) Bergamo 31 gennaio 1935. Stilista. Il nome viene da un
dialogo di Platone sulla vanità femminile. «Abbiamo scelto questo mestiere perché volevamo prima di tutto vestire noi stessi» • «Volevo, e lo voglio ancora, vestire soprattutto le donne. Nel corpo femminile ho
sempre visto la libertà. In Italia sono stata la prima a disegnare la minigonna, in contemporanea con
Mary Quant. Facevo pantaloncini cortissimi per rendere le donne milanesi un po’ meno signore, andavo alla stazione centrale per studiare le francesi che
giungevano con il treno a Milano ed erano così eleganti, così avanti rispetto a noi. Evitavo l’alta moda, mai attuale, mai realistica, sempre troppo costosa, mettevo nei miei
vestiti un po’ di Greta Garbo, Magritte, Dalì, l’imperatrice Sissi, Malevic e Depero. Con il trascorrere degli anni ho modificato
il carattere, sono diventata aggressiva. E ormai non mi sfugge nulla. È una disgrazia, questa. Sono malata di perfezionismo, una malattia gravissima.
Chi lavora con me la deve vivere come un tormento» (da un’intervista di Dario Cresto-Dina)
• «Mio padre, Ernesto, era un uomo meraviglioso ma tutta la vita ha soprattutto
giocato a carte. Ricordo quando mamma veniva a svegliarmi, avevo solo dodici
anni, per dirmi che papà anche quella notte aveva perso tutto. Le volte che vinceva allora lui ci
riempiva di regali: guanti bellissimi, golf di cachemere che mamma rimandava
regolarmente indietro» • «Durante la guerra vivevo in una città fuori dal mondo. Bergamo fu risparmiata dai bombardamenti. Giocavo in una
roccaforte, fingevo di fare la castellana. Ricordo un grandissimo spazio che
usavo per i miei giochi. Costruivo una finta via, negozi finti, un teatro, un
albergo. Anni dopo, durante una festa di Natale, accanto al camino raccontai la
mia infanzia a Dino Buzzati e lui mi chiese perché non la scrivevo. Avevo una bambola che adoperavo come un manichino. A otto anni
copiavo così bene i vestiti che le mamme delle mie amiche venivano a vederli. E poi la mia
passione era fare l’albergo. Costruivo un albergo nel solaio. Molti anni dopo ho costruito un
albergo nei Caraibi e i miei sogni sono diventati realtà»
• «I miei genitori persero tutto quando ci trasferimmo a Milano e io, invece di
andare alla Ca’ Foscari dove volevo studiare lingue, feci un concorso statale per insegnare. Su
tremila concorrenti c’erano cento ammessi. Io fui tra questi e andai a insegnare a Cassano d’Adda. Però ebbi presto l’occasione di aprire una sartoria con una mia amica che faceva maglieria. Volevo
fare la stilista e cambiare il mondo della moda. La mia famiglia era disperata
che lasciassi il posto fisso. Per fortuna ero molto amica di Lelio Luttazzi che
si stava trasferendo a Roma e mi regalò sei mesi d’affitto del suo appartamento a Milano. Avevo sei mesi di tempo per arrivare. Mia
sorella che si era trasferita a Roma vendette la sua lambretta e mi dette
duecentomila lire. In piazza Baracca c’era un negozio, “Quando Berta Filava”, a cui cominciai a vendere vestiti, e una fotografa redattrice di Grazia, Elsa
Haerter, si innamorò del mio lavoro e volle fotografare i vestiti. Andavo in giro per l’Italia a vendere, devo dire con successo, e così dopo sei mesi trovai un ufficio in piazza Duse, nella stessa casa dove abitava
Arnoldo Mondadori e dove Grazia Neri aveva la sua agenzia»
• «Andai a Firenze, al Pitti, stimolata da Rudy Crespi. Vinsi il primo premio della
critica della stampa, lo stesso che aveva vinto Emilio Pucci l’anno prima. Così nacque interesse per me anche all’estero. Avevo cominciato nel 54, eravamo nel 65. Intanto avevo conosciuto mio
marito, Aldo Pinto, che era scappato via dall’Egitto all’arrivo di Nasser. Incominciammo insieme a creare una maglieria. Lui si occupava
soprattutto della parte commerciale. Parlava molto bene l’inglese, e questo facilitò enormemente il nostro rapporto con gli americani. Ricordo che quando il grande
magazzino newyorkese Bendel mi invitò a sfilare, era da poco uscito il film
Bonnie and Clyde e per un caso stranissimo e del tutto imprevisto i miei vestiti erano molto
simili nello stile ai costumi di quel film che in quel momenti era mitico e
oggetto di culto. Così Faye Dunaway, la protagonista del film, fu fotografata sulla copertina di Life
con un abito Krizia» (da un’intervista di Alain Elkann) • «Non amo vestire le attrici: hanno troppe pretese. Chiedono che gli abiti vengano
adattati alla loro personalità. Allora che vadano da un costumista» • «Stilisti preferiti? Yamamoto, Jean-Paul Gaultier nella sua follia, e Antonio
Marras» • «I miei abiti costano troppo? No. Non in proporzione a come sono fatti, alle
stoffe raffinatissime, al tipo di lavorazione, una delle migliori del mondo» (da un’intervista di Laura Laurenzi) • Dice che nella vita i colori devono essere tre: «Il nero, il beige e il bianco. Il più bello di tutti» • In passato È stata molto vicina ai socialisti (Craxi): «Ma certo che sono stata socialista. Mica lo rinnego. È vero che pensavo che Craxi potesse rendere questo Paese più moderno, È vero che su insistenza di mia sorella, moglie di Francesco Rosi, accettai di
entrare tra quei cento personaggi della società civile invitati a far parte dell’assemblea socialista (senza peraltro andarci neppure una volta) ed È vero anche che per me non È giusto che Craxi abbia pagato così tanto rispetto ad altri» (da un’intervista di Gian Antonio Stella)
• «E certo che sono di sinistra. Uno che crede in un certo tipo di cose, che vuole
avere con gli altri un rapporto aperto, che ama un certo tipo di letteratura e
frequenta il mondo dell’arte non può essere di destra».