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 2011  luglio 06 Mercoledì calendario

JANNACCI

Enzo Milano 3 giugno 1935. Cantante. Autore. Attore. Chirurgo. «E sempre allegri bisogna stare / ché il nostro piangere fa male al re, / fa male al ricco e al cardinale, / diventan
tristi se noi piangiam» (Ho visto un Re, con Dario Fo) • Il suo più grande successo è Vengo anch’io. No, tu no (1967). Altri brani celebri: L’Armando e El portava i scarp del tenis (64), Quelli che... (75), Ci vuole orecchio (80), Se me lo dicevi prima (89). Tra i film L’udienza (Ferreri, 71) • Padre aviatore di origini pugliesi («un napoli, si diceva all’Ortica») ma nato a San Fermo della Battaglia (Como): «Poteva diventare generale e invece è morto maresciallo per star vicino ai suoi uomini. Io ho fatto il medico perché mio padre voleva che imparassi cosa è la sofferenza e a stare vicino alla gente»; madre monzese, figlia di lavandaia, «ma forse figlia illegittima di un pezzo grosso, addirittura un conte»
• «Mettiamola così: Jannacci non ha mai rifatto il verso a nessuno e nessuno ha mai imitato
Jannacci. E già questo lo isola. Può cantare canzoni di altri (da Fo a Chico Buarque, da Conte a Fortini) e altri
possono cantare canzoni sue (da Tenco a Milva, da Mina a Lauzi), ma resta un
isolato. Ha avuto un maestro riconosciuto (Dario Fo), ha frequentato una scuola
(quella raggruppata al Derby) senza maestri o allievi, una scuola di amici e di
complici (Beppe Viola, Cochi e Renato, Boldi, Andreasi, Teocoli, Toffolo)» (Gianni Mura)
• «Al Derby ero arrivato all’inizio dei Sessanta, per due motivi, per fame e per Dario Fo. Che c’entra Fo? Io fino a quel momento non ero nessuno. Sì, avevo fatto qualcosina con Giorgio Gaber, ma ero l’ultimo arrivato e c’erano in giro cantautori come Bindi, e poi Sergio Endrigo, gli altri... Un
giorno ero a Roma, a registrare alla Ricordi, e Dario lì a sentirmi. “Vieni a casa mia”, mi dice poi. Una volta lì mi fece ascoltare
La luna è una lampadina, Il foruncolo, canzoni che poi misi nel Milanin Milanon. E lì iniziò una bella collaborazione che dura ancora oggi. Lui mi considera suo figlioccio.
Insomma fu Dario che mi spinse sulla strada che poi tutti conoscono. Mi ha
insegnato tutto. Io ero pazzo, è vero, come diceva Gaber, ma mica scemo. Sapevo imparare. Scrivemmo insieme
canzoni come Ho visto un re, L’Armando, Il primo furto non si scorda mai, che poi erano storie disperate in musica, cabaret appunto, già attraversato da una vena satirica che è stata poi una delle caratteristiche della comicità milanese di quegli anni. Studiavo medicina e dovevo mantenermi agli studi.
Suonavo il pianoforte, facevo concertini nelle fabbriche o in piccoli locali.
Al Derby all’epoca c’era Enrico Intra che invitava un mucchio di bei musicisti, ma a notte fonda
lasciava posto anche ai giovani. Il Derby era così, si stava insieme, celebrità e sconosciuti. è lì che ho sentito
El portava i scarp del tenis suonata dal Modern Jazz Quartett. Tanti di quei giovani ne ho portati io. Cochi
e Renato li avevo visti al Club 64 di Tinin Mantegazza, altro cabaret milanese
anche se più politico, più intellettuale. Cochi cantava canzoni popolari e Renato faceva da spalla. Li
portai con me. Da Torino chiamai anche Felice Andreasi e poi Lino Toffolo, che
era il più bravo. Facevamo commedie satiriche, cose tipo Giovanni il telegrafista: duravano un’oretta ma poi si faceva notte andando sul palco a turno, in coppia o da soli. è lì che ho smesso di dormire la notte» (da un’intervista di Anna Bandettini) • «Il Vaticano, certa Dc non mi hanno mai sopportato. Mi lasciavano cantare Vengo anch’io. No, tu no perché era tranquilla e infatti con quella canzone ho fatto il botto. Ma se cantavo
cose come La costruzione sulle morti sul lavoro o Sei minuti all’alba che parla di Resistenza, mi tenevano lontano dalla tv».